mercoledì 30 marzo 2016
martedì 29 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 60° pagina.
«Beh, domani è festa, no? Quindi sarebbe il momento più
adatto. Magari possiamo provare anche a chiedere alla gente dei dintorni se
hanno visto qualcosa».
«Oltre a Larsin, chi altro viene con noi?».
«Un suo amico di pesca, uno che ha la fattoria sulla strada
per Aminthaisan, in riva al fiume. Lo conosco abbastanza bene anche io, è un
ex-soldato, un tipo che sa tenere la bocca chiusa e poco impressionabile.
Abbiamo pensato bene che ci volesse, un tipo così. Si porterà dietro la sua
spada, per ogni evenienza, anche se sinceramente non penso che ce ne sarà
bisogno».
«Una spada ce l’ho anch’io. Fatta da me, per sicurezza
personale».
«Bene, con almeno due uomini armati, penso che possiamo
sentirci sicuri. Io invece non ho mai combattuto in vita mia, né tantomeno
tenuto armi in mano, e in caso di scontri fisici non sarei di grande aiuto».
«Siete un medico, e tanto basta, se per caso dovessimo
ingaggiare una lotta, avrete modo di rendervi utile in ogni caso».
«Allora, spero di esservi del tutto inutile!»
Come convenuto, il giorno dopo si ritrovarono di fronte alla
fattoria dei Ferstran.
Era il giorno del sole, usiltin nel calendario del Veltyan.
Anche i Thyrsenna calcolavano i giorni in settimane, e anche
loro avevano dedicato ogni giorno della settimana a uno dei sette pianeti
visibili, seguendo l’ordine di distanza delle sette orbite. L’astronomia dei
Thyrsenna credeva che Kellur, la Madre Terra ,
fosse al centro dell’universo, e che attorno ad essa ci fossero sette cieli,
ciascuno per uno dei sette pianeti, e che aldilà di essi ci fosse l’ottavo
cielo, quello delle costellazioni, e infine il nono cielo, quello invisibile,
il Cielo della Luce Eterna, dove risiedeva Sil, il Sole Spirituale, Madre e
Signora dell’Universo Mondo,.
Perciò prima veniva il giorno della Luna, cioè tiurtin, poi
quello di Mercurio detto turmutin, quello di Venere chiamato turantin, quello
del Sole, usiltin, quello di Marte, larantin, quello di Giove, tiniantin e
infine quello di Saturno, satrastin.
Il giorno centrale, quello dedicato al Sole, era anche
quello di riposo, consacrato alla Dea Suprema, Sil. In quel giorno, non tutti i
lavori erano proibiti, ma solo quelli a fine di lucro, o i lavori
particolarmente pesanti.
Per esempio, andare a pesca o a caccia, poiché aveva come
fine solo il procurarsi da mangiare, erano considerati leciti, e perciò era
quello il giorno in cui gli uomini delle campagne andavano in giro per i boschi
e lungo i fiumi a cacciare e pescare.
Così, se qualche conoscente li avesse visti assieme andare
verso il Monte Leccio, non si sarebbe fatto tante domande.
Hermen aveva pensato bene di avvolgere la sua spada in un
panno e metterla nella bisaccia che teneva a tracolla, sperando di non
incontrare qualche gendarme forestale ficcanaso.
Con orgoglio, la mostrò ai suoi compagni.
Era una delle classiche spade corte dell’esercito dei
Thyrsenna, o meglio era stata fatta su quel modello, ma senza lo stemma reale
che portavano le spade militari. Al suo posto c’era lo stemma della provincia
dell’Enkarvian..
«Acciaio adamantino della migliore qualità, leggerissimo e
indistruttibile! Progidi dell’alchimia moderna».
Hermen l’agitò nell’aria riempiendola di bagliori azzurrini.
«M’è costata parecchio, fabbricarla. Sai quanto acciaio
adamantino riesce a produrre un alchimista al giorno? Appena due grammi!».
«Io manco ne ho visto un grammo, di acciaio adamantino nella
mia vita!»
Larsin si avvicinò alla lama, avido di poterla ammirare.
«Sembra una lega fra argento e cristallo!».
«E invece è una lega fra comunissimo ferro e comunissimo carbone, più
carbone che ferro, ma trattati alchemicamente con strumenti particolari, per
lunghi giorni, fino a trasformarli in questa specie di metallo cristallino,
leggerissimo e assolutamente indistruttibile, duro come il diamante!
lunedì 28 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 59° pagina.
Ma mentre Velthur lasciava Hermen, Knevin stava parlando con
la sacerdotessa Anixi Kalpur, e implorava da lei l’invocazione della
benedizione di Sil su di lui e su tutto il villaggio, per proteggerli dal
Demone Oscuro che si era manifestato a loro nella notte.
Piangendo e gemendo, continuava a ripetere alla sacerdotessa
che quella era stata la punizione degli Dei per la sua ubriachezza.
Alla fiera di Aminthaisan aveva un po’ alzato il gomito,
contravvenendo alla promessa che aveva fatto a Sil di non bere più, al massimo un
bicchiere di vino al giorno (perché il medico gli aveva detto che un bicchiere
di vino rosso al giorno fa bene alla salute). Così quello doveva essere un
monito a non trasgredire, ed era stata davvero una punizione spaventosa, perché
l’aveva convinto a non toccare più bevande alcooliche per il resto della vita.
Si era convinto che non toccando più una goccia di alcool,
avrebbe tenuto lontano l’orrendo demone.
La sacerdotessa gli chiese perché non fosse venuto anche
Hermen a chiedere la benedizione, se il Demone Oscuro l’avevano visto entrambi
e se davvero era un Demone Oscuro o non piuttosto un effetto dei fumi
dell’alcool.
Knevin le rispose che Hermen sembrava meno spaventato, e che
forse sarebbe venuto più tardi.
Dopo, lo lasciò andare con la raccomandazione di sollecitare
Hermen a venire a farsi benedire anche lui prima possibile, da lei o da suo
marito.
Cosa che invece Hermen non fece mai. In qualche modo, il
fabbro non era sicuro di avere visto uno spirito dell’oscurità. L’aver parlato
con il medico aveva avuto su di lui una notevole influenza, dato che non
l’aveva trattato da pazzo o da visionario, ma semplicemente aveva dubitato che
quello che avevano visto lui e Knevin fosse davvero un essere demoniaco e non
piuttosto una strana anomalia della natura.
Glielo faceva pensare anche il fatto che quello che aveva
visto era ben lontano dalle rappresentazioni solite dei Demoni Oscuri della
religione dei Thyrsenna. Questi venivano in genere rappresentati come esseri
giallastri o verdastri, di forma umana ma con chiome simili a grovigli di
serpenti, con dei lunghi rostri gialli e con mani e piedi artigliati, simili a
zampe d’uccello, o con molteplici teste di cane, o con corpi di leone e
mostruose teste umane e cornute, e mille altri particolari fantasiosi nati dal
mescolare parti anatomiche di diverse specie.
In più, tutte le storie popolari sui Demoni Oscuri dicevano
che questi spiriti parlavano, urlavano, ringhiavano, e avevano sempre un
messaggio di sventura o di accusa per il malcapitato che li incontrava.
Quell’essere invece era stato quasi del tutto silenzioso, a
parte il battito delle sue ali e ogni tanto quello strano squittio. Quindi,
l’atteggiamento più giusto era quello del dottore: andare a vedere su Monte
Leccio se c’era qualche cosa di strano, là dove gli pareva di aver visto i
fuochi del belk delle Fate e udito la
musica e i canti fatati. Ma se davvero quell’essere si annidava là, era il caso
di andarci bene armati.
Il giorno dopo, infatti, arrivò da Hermen il dottore, che
gli disse che Larsin e un altro uomo sarebbero venuti con lui in cima al Monte
Leccio, per fare un sopralluogo.
«Devi venire, Hermen. Ho bisogno che qualcuno mi descriva
esattamente cosa è successo quella sera mentre siamo là. Se non vorrà venire
anche Knevin, pazienza. Anzi, è meglio così perché mi sembra un po’ troppo
impressionabile, ma tu devi venire».
«Knevin non verrà in ogni caso. Se ne è andato via di casa,
è tornato ad Enkar, proprio stamattina».
«Così spaventato, era?».
«No, non così. Di più! Più ci pensava a questa cosa, e più
si spaventava, e siccome non riusciva a toglierselo dalla mente, alla fine è
scappato via, senza tanti complimenti. Forse è stato meglio così».
«Forse sì. Se era ancora nello stesso stato in cui l’ho
visto io, l’altra sera, è stato meglio che cambiasse aria. Comunque, te la
senti di venire?».
«Sì, me la sento. Sono abbastanza calmo, adesso. Quando
vorreste che ci andassimo?».
domenica 27 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 58° pagina.
Ma non voleva pensare più ai misteri di Thymrel. Aveva
provato a svelarli, e non ci era riuscito. Forse avrebbe avuto più fortuna con
i misteri di Hermen e Knevin.
Si recò perciò nell’officina di Hermen Vanth, per sapere
come stavano quei due. Trovò Hermen che lavorava apparentemente come se non
fosse successo niente, ma le occhiaie nere che aveva dimostravano che non aveva
passato una notte tranquilla.
«Non ho dormito molto stanotte, dottore…. ma ora sono più
calmo, devo dire».
«Bene. Spero che almeno tu non abbia avuto gli incubi. Anche
il tuo amico è al lavoro?».
«No, stamattina era messo peggio di ieri sera, e non ha
seguito il vostro consiglio: è andato al tempio di Sil per parlare con uno dei
sacerdoti».
«Ah. Spero almeno che, con chiunque parli, poi il sacerdote
capisca anche lui che non è opportuno parlarne in giro».
«Io personalmente sono d’accordo con voi. La notte porta
consiglio e stanotte, rigirandomi nel mio letto, ho pensato molto a questa
faccenda. Effettivamente, se l’abbiamo vista solo noi, quella cosa, è meglio
che non se ne parli. E poi, non mi piace esser preso per matto dai più
increduli, o vedere i più paurosi spaventarsi e fare gli scongiuri contro i
demoni».
«Appunto. Beh, appena lo vedi, digli che vorrei parlare con
lui, così mi faccio dire con chi ha parlato e cosa ha detto».
«Senz’altro, dottore. E adesso, cosa faremo? Una parte di me
vorrebbe tornare in cima al Monte Leccio a dare un’occhiata, un’altra mi dice
di starne lontano il più possibile. Voi pensate che abbia qualcosa a che fare
con le Fate, voi che queste cose le conoscete meglio di chiunque altro, qui, a
parte forse il vecchio Prukhu?».
«Mai sentito che le Fate avessero a che fare con giganti
mostruosi con gli occhi rossi e le ali nere di un pipistrello o qualcosa del
genere, e sinceramente non ho mai sentito parlare di niente del genere da
nessuna parte. Però, sai… l’unica spiegazione possibile che riesce a venirmi in
mente è che il mondo è grande e inesplorato, e si sa pochissimo di ciò che vive
oltre i confini del Veltyan, né di quali strane creature possano vivere sulla
vasta Kellur. Forse voi avete visto qualche strano animale forestiero, venuto
qui da chissà dove…. forse».
«Se è così, allora qualcun altro ne avrà sentito parlare. Se
invece si tratta di un Demone Oscuro, allora forse lo avremo visto solo noi
due».
«Tu credi ai Demoni, Hermen?».
«Sono anch’io un uomo devoto, dottore. Credo in Nostra
Signora Sil, la Madre
del Mondo e la Regina
degli Dei, e credo nelle schiere dei Demoni che Lei ha creato come intermediari
fra il Cielo e la Terra ,
e credo che ci siano Demoni Splendenti, Messaggeri di Luce, e Demoni Oscuri,
Messaggeri di Tenebre. Forse noi abbiamo visto un Messaggero delle Tenebre,
anche se spero di no, anche perché Essi annunciano soprattutto disgrazie e
morte, o atti di malvagità».
«Ragione di più per non parlarne, dunque. Perché tante altre
persone qui credono alle stesse cose a cui credi tu».
«Voi invece non ci credete, vero? La sua strana religione
dice che non ci sono Dei, non ci sono Demoni… non c’è niente. Alle volte mi
domando come possa esistere una religione del genere».
«Non è che nell’Aventry “non c’è niente”, Hermen. È che noi
le cose dello spirito le concepiamo in modo molto diverso, ma quello che credo
io non ha importanza. Ciò che contano sono i fatti.
I fatti vanno indagati, e appena possibile andrò io al Monte
Leccio con qualcun altro, se tu non te la senti. Chiederò a Larsin Arayan se
vuole venire con me. È un tipo che non si lascia impressionare, e non ha paura
dei Demoni Oscuri».
Si lasciarono con la promessa che Velthur lo avrebbe
avvertito appena avesse deciso qualcosa. Non presero neanche in considerazione
la possibilità di parlarne prima con i gendarmi del paese, o con l’alkati.
Sarebbe stato un modo come un altro per fare clamore, e poi non c’erano ancora
dei motivi solidi per pensare che ci fosse un reale pericolo. In fin dei conti,
quella creatura li aveva spaventati da morire, ma non aveva fatto loro alcun
male.
sabato 26 marzo 2016
giovedì 24 marzo 2016
martedì 22 marzo 2016
lunedì 21 marzo 2016
domenica 20 marzo 2016
martedì 8 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 57° pagina.
«Ci sto provando. Quando sono venuto a vivere qui, sono
riuscito a smettere. Ma dopo quello che ho visto stasera….. ho paura di
ricominciare».
«Benissimo. Allora, un motivo di più per non parlarne.
Parlane con me, se vuoi, ma cerca, almeno cerca,
di non parlarne con nessun altro, se possibile. Te la senti di tornare a casa,
adesso?».
«Vive con me e con la mia donna, per il momento. Ci penso io
a lui».
«Bene, ma domani cercate di tornare da me. Voglio andare a
fondo di questa faccenda».
«Se qualcun altro ha visto quello che abbiamo visto noi,
domani lo sapranno anche le galline nei pollai!».
Li congedò seguendoli con lo sguardo per le vie del paese, e
non poté fare a meno di guardare verso l’alto, e poi di guardare verso il
Tempio di Sil, dietro il quale si trovava la casa dei Kalpur, prima di
rientrare.
In quel momento, avrebbe tanto voluto rivedere Prukhu.
Avrebbe mandato lui, in cima al Monte Leccio, a fare un sopralluogo, ma forse
anche Prukhu non avrebbe avuto il coraggio di farlo. Forse sarebbe stato più
spaventato di quei due.
Non poté fare a meno di pensare a quello che gli aveva detto
prima di sparire nella notte, forse per sempre. Aveva commesso la colpa di
nominare Loro, Quelli dalle Ali Nere. Quelli di cui non aveva voluto mai
parlare neanche con lui, in tutti quegli anni dal momento in cui si erano
conosciuti, e lui era un giovane studente di alchimia medica, che ogni tanto
veniva a trovare i parenti del paesino di campagna.
Quelli che per Prukhu non solo non bisognava nominarli, ma
neanche descriverli, o citarne le oscure imprese, perché dovevano essere
lasciati fuori da questo mondo, e parlare di loro era già un modo per farli
avvicinare alla vita della quotidianità.
Occhi rossi, nel buio. Finché ne parlava una ragazzina
problematica, non era il caso di prendere la cosa sul serio. Non era il caso di
prendere poi sul serio un’altra ragazza, che parlava in trance di cervi bianchi
con occhi e corna rosse, che trascinava la gente in fondo ad un lago.
Ma ora c’erano due uomini che dicevano di avere visto
qualcosa di mostruoso non in sogno o in trance, e non era stato solo per un
attimo, come per Kai Ellavor, per la quale si poteva pensare a un’allucinazione.
Sdraiato nel suo letto, non poteva fare a meno di guardare
verso la finestra, nella calda notte d’estate, dove la luce dei lampioni da cui
pendevano le cilindriche lampade perenni illuminavano tutto di una fredda luce
pallida e azzurrina.
Non poté fare a meno di domandarsi cosa avrebbe fatto se,
oltre la finestra, fosse spuntata una nera figura dagli occhi rossi. E si
addormentò così.
CAP. VII: IL MISTERO DI MONTE LECCIO
La mattina dopo, si recò di buonora di nuovo dai Ferstran,
sperando di non ricevere brutte notizie.
Con sua grande gioia, vide che il bambino di Thymrel
sembrava stare meglio.
Era un bambino bellissimo, e non piangeva quasi mai. La
madre riuscì ad allattarlo senza problemi.
«Allora, lo chiamerai Loraisan, come avevi pensato?».
«Sì, Loraisan. Credo che fosse anche il nome di mio
fratello. Cioè… non sono sicura. È un nome che mi colpisce, che mi sembra sia
stato importante per me. Così gliel’ho dato».
Loraisan, che in lingua thyrsen significava “fiore divino”,
era un nome sia maschile che femminile. Veniva in genere dato ai bambini che
parevano essere particolarmente belli. E il figlio di Thymrel era davvero
bello.
«Forse invece era anche il nome di suo padre… chissà!».
A quelle parole Thymrel si rabbuiò, sembrò guardare lontano.
«Di suo padre non mi ricordo assolutamente nulla. Non glielo
saprei dire».
Perché forse non hai mai neanche saputo chi fosse, si disse
Velthur.
lunedì 7 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" dI Pietro Trevisan: 56° pagina.
«Abbiamo ripreso a correre verso Arethyan. Con quello che ci
seguiva sempre, roteando sopra di noi come un falco. Ma quando abbiamo visto le
luci del paese, ci siamo accorti che non ci seguiva più. Era scomparso. O
almeno, non lo vedevamo più. Poi abbiamo incontrato voi….».
«Se posso darvi un consiglio, non parlatene a nessuno, di
questa storia».
Knevin riprese a urlare istericamente.
«Come facciamo, dottore? Mi spiegate come facciamo, dopo
quello che abbiamo visto? Io non credo di poter mai dimenticare questa notte
finché vivo!».
«Ma se lo fate, rischiate di essere presi per matti!».
«E chi se ne importa??? Io sono già diventato matto per
quello che ho visto!! Diglielo, Hermen! Come faremo adesso a vivere sapendo che
esiste quella cosa? Che magari anche in questo momento sta volando sopra le
nostre teste, sopra le nostre case? Chi può vivere sapendo questo? E poi, chi
ci dice che l’abbiamo visto solo noi?».
«Va bene, va bene, rimaniamo calmi, se possibile. Magari
domani si può andare a fare delle indagini. Io non posso, perché ho troppi
impegni. Ma magari si può mandare qualcuno su Monte Leccio…. se voi non ve la
sentite….».
«Datemi tempo, dottore. È già tanto se ho trovato la forza
di raccontarvi tutto con ordine. Se troverò il coraggio di salire sul Monte
Leccio, sarà in compagnia di almeno tre altri uomini ben armati».
«Se non ve la sentite di tornare a casa, posso ospitarvi per
stanotte. Magari domani riuscirete a vedere le cose in modo migliore».
«Voi non ci credete, vero, dottore?»
«Quello che credo io non ha molta importanza, Hermen. Vedo
che siete sconvolti. E sicuramente avete visto qualcosa di… insolito. Ma sto
pensando anche alla gente del paese, alla gente che vive nelle fattorie in
campagna. Se siete stati solo voi a vedere questo strano essere, chiamiamolo
così, sapete quanto terrore potrebbe seminare la vostra storia in giro? E in
fin dei conti, non vi ha fatto niente, no? Vi ha solo seguito, fino a quando
non siete arrivati in paese. E se anche esiste, può darsi che nessuno lo veda
più. Non sarebbe allora meglio, per voi e per tutti, che non ne parliate con
nessuno?».
«Sentite, dottore… io ci provo, ma non so se ci riesco.
Adesso andrò a casa mia, dalla mia donna, e le dirò che abbiamo subìto
un’aggressione da qualcuno che ha cercato di derubarci mentre tornavamo a
casa…. ma io sinceramente sono così spaventato che non credo che riuscirò a
mentire a lungo. Cioè…. non riesco a togliermi dalla mente quell’immagine
orrenda. Voi non l’avete visto, non sapete cosa si prova di fronte a quello. Vi giuro, quell’essere emanava
terrore puro! Non so come dire, ma ancora prima di vederlo noi ci sentivamo
pieni di paura, di angoscia. Il modo in cui ti guardava con quegli occhi come
fanali rossi…. certo saremmo stati spaventati anche solo per il suo aspetto….
ma quando non l’abbiamo più visto, io mi sono sentito sollevato da un peso
enorme. Ma ogni volta che ripenso a lui, sento di nuovo quell’angoscia, come se
avessi visto il Demone della Morte in faccia».
Velthur aveva spesso pensato che Hermen era un tipo strano,
ma non l’aveva mai trovato un carattere impressionabile. Adesso invece pareva
isterico anche lui, come la figlia dei Kalpur.
«E tu, Knevin? Immagino che tu, ancora più di lui, non pensi
di poter stare zitto su questa storia, vero? A proposito: dove vivi? Non ti ho
mai visto da queste parti, eppure io in paese conosco tutti».
«Sono qui da poco. Da due mesi. Vivevo a Enkar, lavoravo in
una bottega artigianale, poi ho perso il lavoro e sono venuto a vivere qui,
perché conoscevo Hermen e mi ha trovato un lavoro come vasaio».
«Due mesi fa?».
«Sì, un poco dopo la festa di Tinsi Kerris».
«Posso chiederti come hai perso il lavoro?».
Knevin abbassò lo sguardo.
«Diglielo, Knevin. A questo punto non serve mentire,
perlomeno non a lui».
«Io…. bevevo. Mi ubriacavo spesso. E alla fine la padrona
della bottega mi ha licenziato».
«E adesso? Non bevi più?».
domenica 6 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 55° pagina.
«Non sappiamo bene cosa è successo, fatto sta che abbiamo
cominciato a spaventarci….. cioè, proprio a sentire un’angoscia inspiegabile.
Ci sembrava di essere osservati, e cominciammo a pensare che forse era una
buona idea riprendere la strada verso casa.
Poi, mentre ci guardavamo intorno impauriti, abbiamo sentito
che qualcosa stava cambiando, là in cima….. il coro di voci, le urla di
allegria non si sentivano più, si erano bruscamente interrotte, poi sentimmo un
urlo che ci fece gelare il sangue. Un urlo lungo, terribile, come se stessero
uccidendo una donna…. a quel punto abbiamo cominciato a correre. Non capivamo
cosa stesse succedendo, ma non ci piaceva affatto, anche perché le urla
continuavano, e non erano più di una persona sola, ma di molte voci assieme,
non so quante, ma tante.
Il vento, che prima ci portava canti e risa, adesso ci
portava grida terrificanti, grida di terrore, sofferenza e morte. E noi
correvamo giù per il monte. Poi, quando avevamo riguadagnato la strada per
Arethyan, nella campagna aperta, vedemmo…. quello! Quella cosa!».
Knevin mandò un gemito che finì in un singhiozzo.
«Dove l’avete vista?».
«Sopra di noi. Volava. Ed era enorme. Nero ed enorme. Aveva
enormi ali nere».
Velthur guardò verso il basso.
«Sicuro di non aver visto un grosso uccello?».
«Era enorme, dottore. Era più grande di un uomo, e molto più
grande di qualsiasi uccello conosciuto. E aveva una forma che pareva umana, ma
con le ali. Era completamente nero. Scendeva dal Monte Leccio, come se avesse
spiccato il volo dalla cima, e planava lentamente verso la pianura, verso di
noi.
All’inizio non capivamo neanche cosa stavamo vedendo, anche
noi abbiamo pensato all’inizio a un grande uccello, anche se non avevamo la
minima idea di che razza di bestia fosse. Ma poi ci siamo resi conto che non
era un uccello, quando l’abbiamo visto volare sopra di noi, in ampi cerchi. Ed
è sceso così in basso che abbiamo potuto vedere che aspetto aveva….. era un
gigante!».
«I suoi occhi!» urlò Knevin «Digli dei suoi occhi!».
«Rimani calmo, se puoi! Quando quell’essere è sceso su di
noi, abbiamo visto che il suo corpo aveva braccia e gambe come noi, e una
testa…. ma non sembrava avere un volto, a parte due occhi.
Sil Benedetta, non ho mai visto due occhi così. Erano due
fanali rossi, rotondi…. emanavano una luce rossa come braci ardenti, ma non ho
mai visto un rosso come quello. Ha cominciato a ruotare sopra di noi, e noi
siamo impazziti dal terrore. Abbiamo corso come dei matti, mentre quell’essere
continuava a volarci sopra, avanti e indietro…. Si vedeva bene che ci seguiva,
e continuavamo a sentire in lontananza le urla che venivano dalla cima del
monte e le luci dei fuochi fatui sembravano diventare più luminosi, come se il
colle stesse per incendiarsi….. il vento sembrava aumentare, come se quello lo
rafforzasse con le sue ali…. Noi correvamo e correvamo, e cercavamo di vedere
le luci di una casa abitata, da qualche parte.... Dei, non ho mai corso così
tanto in vita mia, mi domando come ha fatto a non scoppiarmi il cuore.
Poi a un certo punto abbiamo visto una casa non tanto
lontano dalla strada, allora siamo corsi per il sentiero nei campi che portava
fin là…. E sa cosa ha fatto quel maledetto essere? Si è messo a volare davanti
a noi, ci ha preceduti, e si è posato proprio di fronte a noi, di fronte alla
casa con le finestre illuminate.
E allora l’abbiamo potuto vedere bene.
Sarà stato alto due metri e mezzo, forse di più. Un gigante
nero, con le ali ripiegate dietro…. Erano ali strane, non erano quelle di un
pipistrello, e nemmeno quelle di una farfalla…. Sembravano più una via di mezzo
fra l’una e l’altra cosa… come dei ventagli membranosi, neri come lui. Sembrava
quasi sfidarci».
«Emetteva qualche suono?».
«Io…. credo di aver sentito una sorta di squittìo, molto
stridulo, acutissimo. Ti penetrava nelle orecchie».
«E quando ve lo siete trovati di fronte, cosa avete fatto?».
sabato 5 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 54° pagina.
Naturalmente, Velthur non prese neanche in considerazione la
possibilità di fargli delle domande, al momento, e interrogò solo Hermen.
«Oggi eravamo andati alla fiera di Aminthaisan , e abbiamo
fatto tardi. Troppo tardi. Ma Aminthaisan non è tanto distante, e la strada è
ben illuminata. Da noi lupi e briganti non ce ne sono, quindi abbiamo pensato
che non correvamo rischi.
Siamo passati vicino al bosco di Monte Leccio che ormai era
già notte. È stato là che abbiamo cominciato a vedere e sentire…. qualcosa di
strano».
Hermen tracannò un sorso di tisana, e fece una lunga pausa.
«Dottore, non potreste darci qualcosa di più forte? Un
bicchierino di grappa, per caso?».
«Siete già abbastanza poco lucidi, a mio parere…. casomai ve
lo do dopo, il goccino di grappa, quando avrai finito di raccontare. Comunque
state sicuri che la droga che vi ho messo dentro, anche se leggera, vi farà
dormire stanotte».
«Va bene…. allora, dicevo che eravamo ai piedi di Monte
Leccio, sempre sulla strada selciata che passa fra il colle e il fiume, le luci
di Aminthaisan erano ormai lontane, non ci sono fattorie vicine in quel punto,
e….».
Cominciò a stropicciarsi e quasi strapparsi nervosamente la
folta barba grigio-rossiccia, nello sforzo di trovare le parole giuste. Si
intuiva che aveva paura di dire delle cose che sarebbero sembrate assurde o
ridicole.
«Beh, insomma…. abbiamo visto delle luci in cima al Monte
Leccio, in mezzo agli alberi, vicino a quella che pareva una radura. Avevano un
aspetto strano, erano di un colore verde-azzurro, ma più intenso di quello di
una lampada perenne, e sbarluccivano come la luce di una fiamma. Una volta ho
sentito dire che è quello l’aspetto dei fuochi delle Fate, quelli che loro
accendono nelle notti di plenilunio durante la festa del belk…. Così abbiamo pensato subito che fosse proprio quella, la
causa… e ci siamo incuriositi».
«Che io sappia, Hermen, non ci sono comunità di Fate nei
paraggi, e non ho mai sentito che praticassero il belk nei nostri boschi. La comunità più vicina è sulle Colline di
Leukun, a circa trenta chilometri da qui».
«Sì, lo so bene che non ci sono tribù del popolo fatato nei
paraggi. E anche per questo ci siamo incuriositi. Non l’avessimo mai fatto!».
«Volete dire che siete saliti sul Monte Leccio? Di notte?
Nel bosco?».
«Beh, non siamo saliti fino in cima, ma abbiamo visto che
c’era un sentiero che dalla strada andava su per il monte, e siccome avevamo
dietro una lampada perenne, abbiamo provato a salire per un tratto, tanto per
ascoltare meglio i canti e la musica che si sentiva arrivare da lassù. Non
avevamo mai visto delle Fate, e tantomeno avevamo mai visto una festa del belk. Lo so che si dice che bisogna
stare lontani da quelle cose, ma noi…. come dire, eravamo affascinati…. era una
musica bellissima, anche se strana, inquietante…».
«Quindi vi siete avvicinati alla cima del monte con la
lampada perenne scoperta, in modo che la si potesse vedere da lontano? Come
dire alle Fate: “ehi, siamo qua!”».
«Sì, lo so cosa dicono le vecchie comari attorno al fuoco….
O anche i vecchi Sileni come quel Prukhu, le ho ascoltate anche io le sue
storie. Solo gli amici delle Fate possono partecipare alle loro feste, e se si
avvicina un estraneo, esse lo seducono e lo portano a danzare con loro, fino a
quando smarrisce la ragione per la musica, il vino drogato e altri incantesimi,
poi perde la memoria e può rimanere demente per sempre….. ma noi non ci
credevamo. Eravamo curiosi e basta!».
«E siete saliti verso la cima!».
«No, no! Alla cima non ci siamo mai arrivati. Credo che non
siamo neanche arrivati a metà strada. Tra l’altro, credo sia una bella salita
fino in cima. Abbiamo fatto tre tornanti del sentiero in mezzo al bosco, niente
di più, poi è cominciato a succedere quello….
quello che ci ha terrorizzato».
Mentre Hermen arrivava finalmente al sodo, Knevin si gettò
la faccia tra le mani, tremando sempre più.
venerdì 4 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" dI Pietro Trevisan: 53° pagina.
Raccomandò alla governante di somministrare regolarmente il
calmante in gocce che le aveva dato, e se ne andò, dicendole di fargli sapere
fra qualche giorno se la ragazza si fosse un po’ ripresa.
Uscì dalla casa dei Kalpur che la luna splendeva gialla
sopra i tetti del paese. Gli venne voglia di farsi una breve passeggiata per le
strade lungo il fiume, che passava accanto al tempio di Sil.
Si era alzato un vento fresco, e voleva goderselo prima di
tornare a casa.
Passeggiando lungo il fiume nelle strade deserte, arrivò al
limitare delle case di Arethyan, dove la strada lastricata di pietra si perdeva
nei campi e nei boschetti d’ippocastani, di cipressi, di pioppi e di noci.
Era una notte luminosissima, straordinariamente luminosa, e
straordinariamente tersa. In quella stagione, il paesaggio delle campagne e
delle colline non poteva mai liberarsi di una sgradevole foschia che rendeva
torbido l’orizzonte e spesso rendeva quasi invisibili le montagne ad oriente.
Invece quella notte il vento, che sembrava spirare dalle
montagne, aveva portato non solo frescura, ma anche aveva ripulito l’aria,
tanto che si potevano scorgere le cime di bianca roccia calcarea sotto il disco
lunare che pareva più grande del solito.
Fu in quello straordinario panorama, che vide due figure
umane che venivano lungo la strada dalla campagna correndo a tutta velocità.
Correvano come se avessero un demone oscuro alle calcagna, e
forse era proprio così.
Velthur si fermò, aspettando che le due figure lo
raggiungessero sulla strada.
Erano due uomini, uno correva più veloce dell’altro, e il
primo ogni tanto si fermava un attimo per aspettare l’altro e incitarlo a continuare.
«A questi due gli verrà un colpo al cuore!».
Mentre si avvicinavano, si accorse di conoscere uno dei due.
Era Hermen Vanth, il fabbro del paese, un uomo di cinquant’anni, grosso e
pesante persino più del ben stazzato Larsin, che in quel frangente correva con
una velocità che non si sarebbe aspettato da lui, anche se era il secondo nella
corsa.
In ogni caso, erano spompati entrambi. Arrivati di fronte a
Velthur, si fermarono ansimando, Hermen piegandosi in due per riprendersi dallo
sforzo, l’altro agitando le mani e blaterando qualcosa come se dovesse dare
l’ultimo respiro.
«I demoni…. i demoni del belk!».
A quel punto Velthur rimase paralizzato.
«Per tutti i Santi dell’Aventry…. ma cosa sta succedendo
alla gente, qui? Stanno impazzendo tutti?».
Hermen, rimanendo piegato in due con le mani sulle ginocchia
per sostenersi, ansimò a sua volta qualcosa.
«Te l’avevo detto, Knevin, che non ci avrebbero creduto! Il
dottore, poi…. ci ha presi per matti ancora prima di sentire la nostra
storia!».
«Non lo so se siete matti, ma immagino che anche voi mi
racconterete di aver visto qualche demone spaventoso!»
«Noi non lo sappiamo cosa abbiamo visto, dottore! Ma
speriamo di non rivederlo più!»
Knevin, da parte sua, continuava a balbettare frasi senza
senso.
Velthur temette che avrebbe dovuto dar fondo alle sue
riserve di pozioni calmanti.
Hermen, ripreso un po’ di fiato, afferrò il braccio del
dottore e lo implorò di avviarsi immediatamente in un luogo chiuso. Non voleva
rimanere all’aperto un minuto di più.
«Se no quello
potrebbe comparire di nuovo!»
Vedendo che erano veramente sconvolti, il dottore pensò bene
di accontentarli e portarli a casa sua. Mentre si avviavano verso la casa del
dottore, continuavano tutti e due a voltarsi e a guardare in aria, come se si
aspettassero che quello dovesse
venire dal cielo.
Una volta entrati, li fece accomodare nel suo soggiorno e
andò a preparare due tisane calmanti. La signora Mendibur era ormai andata a
dormire, e non voleva disturbarla.
Per Knevin, raddoppiò la dose. Sembrava in preda a un
tracollo nervoso: adesso non balbettava più, semplicemente tremava e guardava
nel vuoto.
giovedì 3 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 52° pagina.
E, d’altra parte, anche i Kalpur avevano bisogno di un
medico, a volte.
La figlia minore, Holeisi, aveva uno strano male, una forma
di debilitazione inspiegabile. Si sentiva debole, perennemente ansiosa,
angosciata, aveva attacchi di panico, e la notte era tormentata dagli incubi.
Velthur trovò la ragazzina stesa nel suo letto,
pallidissima, ansimante, con il cuore molto accelerato.
Parlò con la governante, dato che i genitori erano impegnati
in una funzione religiosa.
«Prima era sempre stata una bambina serena, vivace, fin
troppo vivace».
«Sì, me la ricordo bene».
«Poi, circa due mesi fa, ha cominciato a cambiare. Un
cambiamento di carattere inspiegabile. Non è successo niente per cui dovesse
cambiare così. Improvvisamente, abbiamo notato che appariva triste, angosciata,
taciturna. All’inizio abbiamo pensato che fossero solo i turbamenti dell’età,
ma a un certo punto abbiamo cominciato a spaventarci. La notte si svegliava
urlando dopo aver fatto spaventosi incubi, aveva sempre più paura del buio. Ha
cominciato a volere che ci fosse sempre una lampada perenne accesa nella sua
camera, mentre prima non aveva mai avuto particolari problemi con il buio.
E poi un paio di giorni fa questa debolezza improvvisa…. non
riesce neanche a stare in piedi. È spaventatissima, e non sa neanche dire lei
da cosa».
Un caso di isteria, pensò Velthur.
La medicina del Veltyan aveva cominciato da poco ad
esplorare i misteri della psiche in modo sistematico. Certo, già l’introduzione
dell’alchimia nel regno settecento anni prima, con lo studio dell’interazione
fra mente e materia, aveva dischiuso per la prima volta la porta su quei
misteri, ma l’esplorazione vera e propria di tali misteri era ancora agli
inizi. Si aveva una vaga nozione dell’inconscio, ma ancora si sapeva pochissimo
sulle malattie mentali.
Osservando Holeisi, e facendole delle domande, fu portato a
pensare che la sua malattia avesse un’origine soprattutto mentale.
Le prescrisse un calmante, da prendere ogni sera prima di
andare a dormire.
Ma prima di andarsene, le chiese che razza di incubi avesse.
«Sempre lo stesso, tutte le notti. Per questo ho tanta paura
quando cala la notte, e devo andare a dormire. Perché so che lo farò ancora, e
ancora….. e io non ne posso più, non ne posso più….».
«Cosa sogni, esattamente?»
«Sogno di essere nella mia camera, stesa nel mio letto, e di
svegliarmi all’improvviso, sentendomi osservata. Poi guardo fuori, alla
finestra, e vedo due occhi che mi guardano, due occhi luminosi, rossi, rotondi,
enormi…. spaventosi. Due grandi occhi che mi guardano dal buio.
E allora io mi alzo, non vorrei, ma qualcosa mi costringe ad
alzarmi dal letto e andare verso la finestra….
mi avvicino sempre più, e non posso farci niente… finché vedo la cosa che mi sta guardando con quegli
occhi rossi…. e vedo che sta per entrare dalla finestra, per venirmi a
prendere…. e allora urlo e mi sveglio!».
«E questa…. cosa, che aspetto ha?».
«Non lo so…. un’enorme figura nera, che se ne sta oltre la
finestra, qualcosa che assomiglia vagamente a un uomo gigantesco…. Mi sembra
che abbia delle grandi ali nere ripiegate sulla schiena, come un Demone
dell’Oltretomba….».
La governante strinse in mano la croce ansata che portava al
collo, simbolo del culto di Sil, e mormorò un’invocazione alla divinità
celeste.
Una giovane isterica, si ripeté Velthur. Una forma di
isteria forse dovuta a una femminilità che stava sbocciando tumultuosamente.
Essere figlia di due sacerdoti non doveva essere una cosa semplice. Essere
allevata con l’idea costante di dover diventare una custode della vera fede
come i suoi genitori, venire magari ossessionata dal fanatismo di chi vede i
Demoni delle Tenebre in ogni più piccola distrazione dal proponimento
religioso, portavano a quegli incubi ossessivi che tormentavano certe donne
ipersensibili. Demoni che apparivano nelle camere da letto delle donne, e le
tormentavano, spesso le molestavano sessualmente.
mercoledì 2 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 51° pagina.
Se avesse cominciato a parlare male dei sacerdoti in modo
diretto e aperto, in modo propagandistico, si sarebbe beccato una denuncia per
sovversione dell’ordine sociale e religioso, e sarebbe finito in galera come
tutti gli oppositori all’ordine teocratico del regno.
Quindi ricorse a mezzi più subdoli e più adatti all’ambiente
campagnolo, attingendo a man bassa alle sue conoscenze, sia culturali che
personali. Cominciò a raccontare in giro fatti, fattacci e fatterelli, scandali
e scandaletti, tutti riguardandi sacerdoti e sacerdotesse.
Storie di corruzione e di torbide tresche, di incesti e di
abusi di minori, di furti e omicidi riguardanti la classe sacerdotale, che in
città, nelle scuole di apprendistato alchemico, correvano spesso e volentieri
fra gli studenti, storie che venivano messe a tacere in via ufficiale, ma che
tutti conoscevano dalle chiacchiere provenienti dai postriboli, sia femminili
che maschjili, dalle bettole frequentate da studenti universitari o ancor
meglio da quelle frequentate da giovani studenti delle scuole di sacerdozio.
Poco importava che quelle storie fossero vere o false. Alla
gente di paese piacevano molto, aiutavano a rompere la monotonia della vita di
campagna con i loro particolari scabrosi, orridi o semplicemente pruriginosi, e
le vecchie comari, quando si trovavano il dottore al loro capezzale, erano
felici di sentir raccontare quelle torbide storie che poi potevano narrare alle
amiche, e del pari anche gli uomini erano felici di poter avere molte più cose
divertenti e interessanti da raccontare agli amici in osteria.
Poi, a un certo punto, le chiacchiere arrivavano alle
orecchie dei due sacerdoti, a cui gli ingenui contadini chiedevano cose del
tipo: «Reverendo Padre, ma è vero che ad Enkar un sacerdote ha violentato tutte
le sue quattro figlie, e quando ne ha messe incinta una, l’ha fatta sposare a
un tizio mezzo matto che, quando ha scoperto la verità, è andato dal suocero
una notte e l’ha castrato con un coltello?».
Oppure: «Reverenda Madre, ma è vero che ad Ermonei una
sacerdotessa aveva un fratello che ammazzava la gente quando era nel tempio
gestito dalla sorella per poterla derubare, e poi ne nascondeva i cadaveri nei
sotterranei, con la complicità della sorella stessa, e che quando la cosa è
stata scoperta, per non far sapere in giro la cosa, lo Shepen della città,
anziché farli processare per i loro delitti, li ha fatti mettere in galera
inventandosi la storia che avevano commesso incesto, perché la cosa avrebbe
suscitato molto meno scandalo?».
Alla fine il paese aveva letteralmente pullulato delle
morbose e torbide storie di città, che tra l’altro il dottore ammanniva ai suoi
pazienti ed amici ornandole di discorsi moralistici sulla corruzione della vita
cittadina e sulla superiorità morale della vita semplice dei paesi di campagna.
All’inizio i due sacerdoti si erano sforzati di reagire a
quelle storie, sostenendo che si trattava solo di calunnie messe in giro dagli
anticlericali e cose di questo tipo, ma invano. Alla gente piacevano troppo, e
piaceva anche il dottore, che raccontava quelle storie.
Perché ai loro occhi
gliele raccontava per dire che loro
erano migliori, che erano sani, non come quella brutta gente di città.
«Avete mai sentito storie del genere riguardo i nostri
sacerdoti, quelli delle nostre parti? Non succederebbero mai delle cose del
genere, qui! La nostra gente è sana, equilibrata, pacifica! Per questo sono
scappato dalla città. Là sono tutti matti! A cominciare dai sacerdoti…. là sono
tutti marci!» concludeva ogni volta così i suoi sapidi racconti, tra il
piccante, il morboso e il truculento.
All’inizio Velthur si era trovato svantaggiato, ma
nonostante il bigottismo dei sacerdoti del villaggio, alla fine la sua bravura
e la sua straordinaria capacità di comprensione e di vicinanza ai pazienti
l’avevano reso molto popolare, e tanta gente del posto era così ignorante che
non riusciva neanche a capire cosa significasse essere un Avennar, o
semplicemente avere un’altra religione oltre a quella comunemente accettata.
I contadini non si sono mai preoccupati molto della
teologia.
Le storie che raccontava, poi, l’avevano reso una figura
decisamente intrigante e fascinosa.
Così a un certo punto Velthur e i due sacerdoti erano
arrivati a una sorta di compromesso. Loro non avrebbero più parlato male
dell’Aventry, lui non avrebbe più raccontato quelle sue maledette storielle e
storiacce anticlericali.
martedì 1 marzo 2016
"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 50° pagina.
«Ci vado io a chiamarli. Devo tornare in ogni caso in paese,
ho un’altra persona da visitare. Non so dire perché, ma oggi si sono
accavallati un sacco di impegni…. e di guai. Una persona morta, un’altra
ferita, e diverse altre che stanno male. Il caldo, sembra. Insolazioni, e
strani malesseri, strane infezioni. Una delle persone che stanno male, è
proprio una delle figlie dei sacerdoti».
«Questa è un’estate davvero strana….».
«Sì, molto….».
Tu non sai quanto, pensò Velthur.
Prima di andarsene, Velthur gli dette una medicina per il
bambino, un palliativo, ma che poteva essergli utile. Era un’essenza vegetale
trattata alchemicamente da diluire in un po’ di acqua calda e mettere in un
profumatore a candela, fatta apposta per aiutare la respirazione.
Mentre si avviava dalla fattoria al paese, fu assalito da
uno dei suoi soliti rimuginamenti meditativi. La nascita del bambino gli aveva
fatto tornare in mente tutti i pensieri che l’avevano tormentato dopo
l’esperimento di ipnosi su Thymrel.
Era riuscito a recitare bene la parte del razionalista
scettico, che non credeva alle storie di fantasmi e malefici, ma quello che
Thymrel aveva raccontato durante l’ipnosi l’aveva intimamente segnato e
sconvolto.
Aveva cercato di ripetersi molte volte che l’unica
spiegazione possibile fosse che la ragazza avesse letto da qualche parte la
narrazione della storia della Valle dei Gigli, e che dopo aver subìto un trauma
sconosciuto e senz’altro gravissimo, si fosse inventata un’esistenza irreale in
quel luogo e in quel tempo, credendo che fosse il suo vero passato.
Eppure non era riuscito a convincersene. Una parte di lui
era inevitabilmente portata a credere che quello che aveva raccontato potesse
essere reale, e questo lo terrorizzava.
Forse davvero Thymrel veniva da un passato lontano tre
secoli, e aveva assistito alla scomparsa degli abitanti della Valle dei Gigli,
e aveva visto davvero il misterioso essere incantato che in qualche modo era
legato a quell’antica tragedia, il grande cervo bianco dalle corna, dagli occhi
e dagli zoccoli scarlatti come il sangue.
Forse davvero conservava dentro di sé, nel suo inconscio, il
segreto della Valle dei Gigli, un segreto così spaventoso che l’aveva rimosso.
Era quella parte di sé che non riusciva a far tacere, quella
parte che gli diceva che forse davvero certi luoghi del mondo erano
segretamente infestati da forze ignote ed invisibili. E quello che gli faceva
più rabbia era che, se davvero lo scrigno di quel segreto era la mente di
Thymrel, lui non aveva la chiave per aprirlo. Era come avere un forziere pieno
di gioielli e non poterlo aprire neanche scassinandolo.
Solo quando arrivò al tempio di Sil in paese, riuscì a
distrarsi dai suoi pensieri.
La loro giovane figlia di tredici anni, la più piccola, era
a letto malata. L’abitazione dei sacerdoti di Arethyan era dietro il tempio,
separata ma collegata ad esso da un cortile, secondo le tradizioni
architettoniche dei Thyrsenna.
Fra lui e i sacerdoti del villaggio c’era una sorta di
tregua carica di ostilità in sottotono che ormai proseguiva da parecchi anni. I
motivi di questo stato di cose erano principalmente tre.
Uno era che Velthur era praticamente l’unico Avennar del
villaggio di Arethyan.
Il secondo era che non aveva mai cercato di convertire
nessuno alla sua religione.
Il terzo era che era un ottimo medico, ed era molto
difficile trovare dei medici in gamba che potessero accettare di lavorare in un
villaggio di una delle provincie più periferiche, depresse ed arretrate del
regno.
Il dottore si era stabilito ad Arethyan quindici anni prima,
con la giustificazione ufficiale di aver scelto quella residenza perché sua
nonna era nata là, e perché non amava le città.
Appena lui era arrivato e si era saputo che era un
convertito all’Aventry, i coniugi Kalpur,
la sacerdotessa Axili e suo marito Atar, avevano cominciato a predicare
contro il pericolo di allontanarsi dal culto degli Dei tradizionali per
volgersi a sette infedeli che predicavano dottrine empie e malvage.
Per tutta risposta, Velthur aveva adottato un’astuta e cauta
strategia di opposizione.
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