«Ci sto provando. Quando sono venuto a vivere qui, sono
riuscito a smettere. Ma dopo quello che ho visto stasera….. ho paura di
ricominciare».
«Benissimo. Allora, un motivo di più per non parlarne.
Parlane con me, se vuoi, ma cerca, almeno cerca,
di non parlarne con nessun altro, se possibile. Te la senti di tornare a casa,
adesso?».
«Vive con me e con la mia donna, per il momento. Ci penso io
a lui».
«Bene, ma domani cercate di tornare da me. Voglio andare a
fondo di questa faccenda».
«Se qualcun altro ha visto quello che abbiamo visto noi,
domani lo sapranno anche le galline nei pollai!».
Li congedò seguendoli con lo sguardo per le vie del paese, e
non poté fare a meno di guardare verso l’alto, e poi di guardare verso il
Tempio di Sil, dietro il quale si trovava la casa dei Kalpur, prima di
rientrare.
In quel momento, avrebbe tanto voluto rivedere Prukhu.
Avrebbe mandato lui, in cima al Monte Leccio, a fare un sopralluogo, ma forse
anche Prukhu non avrebbe avuto il coraggio di farlo. Forse sarebbe stato più
spaventato di quei due.
Non poté fare a meno di pensare a quello che gli aveva detto
prima di sparire nella notte, forse per sempre. Aveva commesso la colpa di
nominare Loro, Quelli dalle Ali Nere. Quelli di cui non aveva voluto mai
parlare neanche con lui, in tutti quegli anni dal momento in cui si erano
conosciuti, e lui era un giovane studente di alchimia medica, che ogni tanto
veniva a trovare i parenti del paesino di campagna.
Quelli che per Prukhu non solo non bisognava nominarli, ma
neanche descriverli, o citarne le oscure imprese, perché dovevano essere
lasciati fuori da questo mondo, e parlare di loro era già un modo per farli
avvicinare alla vita della quotidianità.
Occhi rossi, nel buio. Finché ne parlava una ragazzina
problematica, non era il caso di prendere la cosa sul serio. Non era il caso di
prendere poi sul serio un’altra ragazza, che parlava in trance di cervi bianchi
con occhi e corna rosse, che trascinava la gente in fondo ad un lago.
Ma ora c’erano due uomini che dicevano di avere visto
qualcosa di mostruoso non in sogno o in trance, e non era stato solo per un
attimo, come per Kai Ellavor, per la quale si poteva pensare a un’allucinazione.
Sdraiato nel suo letto, non poteva fare a meno di guardare
verso la finestra, nella calda notte d’estate, dove la luce dei lampioni da cui
pendevano le cilindriche lampade perenni illuminavano tutto di una fredda luce
pallida e azzurrina.
Non poté fare a meno di domandarsi cosa avrebbe fatto se,
oltre la finestra, fosse spuntata una nera figura dagli occhi rossi. E si
addormentò così.
CAP. VII: IL MISTERO DI MONTE LECCIO
La mattina dopo, si recò di buonora di nuovo dai Ferstran,
sperando di non ricevere brutte notizie.
Con sua grande gioia, vide che il bambino di Thymrel
sembrava stare meglio.
Era un bambino bellissimo, e non piangeva quasi mai. La
madre riuscì ad allattarlo senza problemi.
«Allora, lo chiamerai Loraisan, come avevi pensato?».
«Sì, Loraisan. Credo che fosse anche il nome di mio
fratello. Cioè… non sono sicura. È un nome che mi colpisce, che mi sembra sia
stato importante per me. Così gliel’ho dato».
Loraisan, che in lingua thyrsen significava “fiore divino”,
era un nome sia maschile che femminile. Veniva in genere dato ai bambini che
parevano essere particolarmente belli. E il figlio di Thymrel era davvero
bello.
«Forse invece era anche il nome di suo padre… chissà!».
A quelle parole Thymrel si rabbuiò, sembrò guardare lontano.
«Di suo padre non mi ricordo assolutamente nulla. Non glielo
saprei dire».
Perché forse non hai mai neanche saputo chi fosse, si disse
Velthur.
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