lunedì 30 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 321° pagina.


Da parte sua, Loraisan non solo era divenuto ancora più curioso e perplesso di fronte alla reazione del suo mentore, ma la sua immaginazione di bambino l’aveva portato a ipotesi oscure.

Da tempo, ormai, serbava dentro di sé il terrificante segreto che non osava confidare a nessuno. Nessuno se ne poteva accorgere, perché era già strano il suo comportamento prima, e non lo era molto di più dopo il fattaccio legato all’edicola sacra di Sethlan.

I grandi avevano cercato di nascondere ai bambini il misterioso suicidio del giovane pellegrino senza nome, ma certe cose non possono essere nascoste in un piccolo paese, e le chiacchiere che riguardavano gli strani eventi di Arethyan erano un torrente in piena che nessun argine può contenere. Un morto suicida nella strada vicino a casa tua, non è una cosa che ti possa essere nascosta.

Quando sua sorella Eukeni gli aveva detto di quella morte misteriosa, Loraisan si era convinto ancora di più che ci doveva essere qualcosa di sbagliato in lui. Qualcosa legato al suo farthankar. Qualcosa che forse offendeva gli Dei. E lui aveva molta paura degli Dei e delle loro punizioni. E quando il dottor Velthur gli aveva detto che non poteva parlare a lui degli Dei perché sua madre glielo aveva proibito, ebbe il sospetto che sua madre avesse capito qualcosa di quello che non andava in lui, o che magari lo avesse sempre saputo, e che volesse nasconderglielo. E se voleva nasconderglielo, doveva essere qualcosa di molto grave.

In fin dei conti, lui si era sempre sentito diverso dagli altri. Ma non che si sentisse semplicemente speciale, si sentiva estraneo a tutto e a tutti, come se fosse piombato da un altro mondo. Ogni volta che aveva a che fare con una persona, con una qualsiasi persona, persino i suoi genitori, sentiva come un muro invalicabile, una sorta di barriera di vetro infrangibile che si poneva fra lui e gli altri. Era come se non ci fosse niente di veramente in comune fra lui e tutti gli altri viventi. Sentiva solo separazione ed estraneità, e questo lo faceva sentire sempre a disagio. Non riusciva ancora a dare un nome a quello che sentiva, né poteva analizzarlo; ma le sue azioni, le sue espressioni parlavano per lui e per la sua consapevolezza che doveva ancora crescere e darsi un nome.

Solo alla sua paura e alla sua angoscia, riusciva a dare un nome e un volto, per il momento.

Dopo quella lezione, Loraisan giurò a se stesso che non avrebbe cercato mai di praticare l’alchimia, sperando così di evitare la punizione divina, che sentiva sospesa su di lui come una spada di Damocle.

Avrebbe voluto anche chiedere a sua madre perché non voleva che il dottor Laran gli parlasse di religione, ma aveva paura della risposta, e anzi si sentiva quasi sicuro che lei non avrebbe voluto rispondergli. Più ci rimuginava sopra, e più si convinceva che sua madre gli nascondesse qualcosa su lui stesso. Forse, era nato con una maledizione, un marchio divino che gli impediva di avere una vita normale e simile a quella degli altri. Avrebbe tanto voluto essere come tutti gli altri bambini, che a lui apparivano tutti uguali.

La gente, il mondo gli appariva tutto uguale, privo di vere differenze. L’unica vera differenza che sentiva, era fra lui e il mondo intero. Una differenza senza nome, senza causa, senza un vero volto. Esisteva e basta, e lo riempiva di infelicità.

Per questo forse voleva sapere, conoscere sempre più. Voleva poter leggere tutte le storie del mondo, ed evadere dalla propria soffocante diversità.

Per questo per lui il doppio appuntamento settimanale dal dottor Laran stava diventando un evento irrinunciabile, atteso con grandi aspettative. Ora che avevano cominciato a leggere insieme il Tinsina Entinaga, voleva scoprire tutto di quel libro. Forse chissà, avrebbe capito il perché della sua sofferenza, del suo sentirsi diverso. Se avesse conosciuto meglio gli Dei, avrebbe forse imparato il giusto modo per entrare in rapporto con loro, e gli Dei gli avrebbero permesso di cambiare, di ottenere una vita più felice e meno tormentata.
La volta seguente, cominciarono a leggere il capitolo in cui si parlava della creazione degli Uomini. Loraisan fu colpito dal fatto che il Tinsina Entinaga non parlava della creazione delle altre stirpi, né delle Fate né dei Sagusei né tanto meno dei Nani o dei Sileni. Anzi, delle Fate, dei Nani, dei Sagusei e dei Sileni manco accennava, come se non esistessero. L’unica stirpe della cui genesi

LOVECRAFT 336: BREVE INTERMEZZO SU UNA QUESTIONE DI COPYRIGHT

domenica 29 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 320° pagina.


«Meglio che cominciamo a conoscere i mari solo sulla carta, poi quando sarai grande vedremo…. Intanto prendi in mano questo libro e comincialo a leggere dalla prima pagina….».

Il Tinsina Entinaga era un tomo non particolarmente grande, ma spesso. Aveva più di seicento pagine. Il primo capitolo narrava della creazione del mondo da parte di Sin, il Toro Celeste.

Loraisan cominciò a leggere con voce insicura.

Lesse il mito della creazione secondo cui in origine c’era solo uno sconfinato oceano di acque, buio e caotico, che si stendeva nello spazio senza fine, in tutte le direzioni. In esso comparve Sin come prima divinità, il quale trattenne le acque con le sue zampe di toro, e poi le fecondò con il suo seme, da cui nacquero numerosi figli, gli Dei Primevi.

Questi divennero ognuno una parte dell’universo: la terra, il mare, il cielo, il giorno, la notte, l’estate, l’inverno, il vento, il fuoco, la neve, la pioggia, il fulmine. Di tutti i suoi figli, la più importante, la più potente e la più bella era Sil, la Dea del Sole.

A Lei il Grande Padre Sin riservò il dominio del giorno, mentre tenne per se stesso il dominio della notte stellata, dove divenne il Dio della Luna. Così fu fatto l’ordine del mondo e delle sue potenze divine.

Alla fine del capitolo, Velthur si accorse che il bambino era stanco di leggere. Ma era curioso di sapere il seguito del racconto cosmogonico. E come al solito aveva un sacco di domande da fare.

«C’è una cosa che non capisco, dottor Laran. In questo libro sacro viene detto che è stato Sin a creare il mondo, e che è lui il padre di Sil, la nostra Dea Suprema, ma… mia madre, e la sacerdotessa di Nethuan, quella che viene a casa nostra…. mi hanno raccontato una storia diversa».

«E cioè? Ti hanno raccontato la storia della creazione in un altro modo?».

«Beh, sì. La sacerdotessa Thanxiel mi ha chiesto se sapevo chi era Sil, io gli ho detto quello che mi aveva detto mia madre, poi lei mi ha spiegato meglio, perché mi ha detto che gli sembro un bambino sveglio, e allora mi ha raccontato che è stata Sil a creare il cielo e la terra, e tutte le cose che ci sono, perché Lei è l’Anima del Mondo, e che il suo spirito è come una fiamma che si trova dappertutto e anima tutte le cose, e che questa Anima del Mondo viene dal Dio Supremo, che non è Sin, ma Volthun, e che abita nel Cielo Etereo, e non sarebbe un Toro, ma un Ariete.

Poi però mi ha detto che l’Ariete è solo un simbolo di Volthun, perché gli Dei hanno un aspetto che gli Uomini non conoscono e non possono neanche immaginare, e che nessuno può rappresentare una divinità in tutta la sua grandezza. Mi ha detto che le statue e le immagini degli Dei sono solo simboli, perché gli Dei sono spiriti, e gli spiriti non sono visibili da occhi di carne e non hanno l’aspetto di ciò che vediamo.

Allora io adesso mi domando: devo credere a quello che mi ha detto la kamethei Thanxiel, o a quello che è scritto nel Tinsina Entinaga?».

«Devi chiederlo a tua madre, o meglio ancora alla kamethei Thanxiel».

«Ma perché? Non potete rispondermi voi? Voi sicuramente sapete la verità».

«Mi spiace, non posso. Ho promesso a tua madre che non ti avrei mai parlato di religione. Posso farti leggere testi religiosi, ma non commentarli. Tua madre non vuole e io rispetto la sua volontà. Non chiedermi più cose di questo tipo».

«E perché???».

 «Anche di questo devi chiedere a tua madre. Se non ti ha spiegato perché, allora non devo spiegartelo neanche io».

Era tale la paura di contrariare Syndrieli, che Velthur non voleva neanche accennare al fatto che lui fosse di un’altra religione e che non credeva a Sil e agli altri Dei della tradizione.

Tra l’altro, questo avrebbe potuto inquietare il bambino, e dargli diffidenza nei suoi confronti.

Ma in lui nacque una nuova speranza. Loraisan si era già accorto delle contraddizioni e dei punti oscuri della religione ufficiale. Non gli sfuggiva niente, aveva un senso della coerenza logica davvero spiccato, che era tutt’uno con la sua passione per la conoscenza e la verità.

Una cosa che un seguace dell’Aventry non poteva non apprezzare, e su cui riporre molte speranze per il futuro.  Un giorno, quando Loraisan fosse diventato adulto, si sarebbe potuto svincolare dalle catene del Nunarsha Silal, il culto di Sil, e apprendere la liberante dottrina dell’Aventry.
Da parte sua, Loraisan non solo era divenuto ancora più curio

LOVECRAFT 335: BLAKE SCOPRE LA CHIESA DE "L'ABITATORE DEL BUIO".

sabato 28 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 319° pagina.


che contrariandola in qualche modo, gli togliesse l’educazione del bambino. Sperava che in futuro Loraisan si rifiutasse di intraprendere la carriera voluta dalla madre. Un presentimento gli faceva pensare che sarebbe stato così. In qualche modo, sentiva che lui era troppo speciale, per limitarsi a un ruolo di prestigio, ma in fin dei conti così ordinario e conformista.

Era da poco passato Tinsi Kerris, quando una mattina il bambino arrivò a casa del medico, e lui gli disse che da quel giorno avrebbero cominciato a leggere il Tinsina Entinaga.

«Oh sì, mi piacciono le storie antiche! Soprattutto la storia del Diluvio! Prukhu me l’ha raccontata una volta…. il re Manowa, l’Arca… i Giganti!».

«Non c’è solo la storia del Diluvio, nel Tinsina Entinaga, ma anche quello che è avvenuto prima e dopo di esso, fino alla nascita del Regno Aureo».

«E a me interessa tutto! Voglio sapere tutto del passato!».

Velthur rise.

«Allora ne avrai tante, di cose da leggere! Ce ne sono tanti, di libri di storia! Guarda qua questo scaffale della mia libreria! Sono tutti libri di storia, narrano le vicende del nostro paese dalle origini fino ai nostri giorni».

«E…. ce ne sono anche di storia degli altri paesi?».

«Qualcuno…. Ma non esistono molti libri che parlino dei paesi stranieri e delle loro vicende, perché gli altri paesi non hanno storia».

«Come sarebbe a dire, che non hanno storia???».

«Beh, il fatto è che negli altri paesi non succedono molte cose degne di nota. Non c’è niente, là, ecco il fatto. Non ci sono città, non ci sono monumenti, non ci sono arte, cultura, alchimia, saperi elevati. Tutti gli altri popoli non sono altro che tribù nomadi, che vivono in accampamenti temporanei, senza case, senza campi, senza leggi. Oppure si tratta di piccoli villaggi di contadini e pastori, o pescatori.

Tu ne sai più del più sapiente degli stranieri, dato che sai già leggere e scrivere. Gli altri popoli, nella maggior parte, non hanno neanche la scrittura. Né quelli vicini, né quelli lontani. A parte quelli di Edan Synair, che sono imparentati con noi. E poi anche alcuni popoli nordici, che hanno imparato alcune cose da noi. Capisci, è stato il Diluvio a distruggere tutto, a far sprofondare tutto nella notte della barbarie, solo i nostri antenati hanno potuto conservare qualcosa dell’antica saggezza».

«Ma proprio niente, niente? Nessun altro popolo civile si è salvato dal Diluvio? In nessuna parte del mondo?».

«A dire il vero non possiamo esserne del tutto sicuri, perché gran parte di Kellur è ancora inesplorata. Le nostre navi si sono avventurate parecchie volte oltre l’oceano, soprattutto ad oriente, ma ci sono tante terre che ancora non conosciamo, soprattutto nell’Estremo Meridione, da dove guarda caso sono venuti proprio i nostri antenati quando è avvenuto il Diluvio».

«E allora, dite, potrebbe esistere ancora qualche altro popolo con grandi città, in qualche paese lontano e sconosciuto?».

«Sì, è possibile, ma io non mi faccio tante speranze che ci sia davvero. Penso che se ci fosse, ne avremmo già sentito parlare».

«Da grande mi piacerebbe diventare marinaio ed esplorare paesi lontani!».

«Prima cerca di imparare ciò che ti insegno, poi deciderai cosa fare!».

«Ma io non riesco a levarmi dalla testa le illustrazioni di quel libro che mi avete mostrato qualche mese fa…. quello con le rovine e il tempio della Dea-Serpente….».

«Ho fatto male a fartelo vedere…. e poi tu non hai mai neanche visto il mare, come puoi dire di voler diventare marinaio? Non hai la minima idea di cosa significhi diventare marinaio».

«Prukhu mi ha raccontato alcune storie di viaggi per mare, storie sull’isola di Edan Synair, l’antica città di Iubar…. mi piacerebbe vedere quei posti, nel lontano Oriente…lui ha detto che ha conosciuto dei marinai, che hanno viaggiato ad Oriente. Mi ha detto che anche i suoi antenati sono venuti dall’Oriente, dalle Montagne Celesti….».

LOVECRAFT 334: ROBERT BLAKE CERCA LA CHIESA DI FEDERAL HILL

venerdì 27 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 318° pagina.


Velthur cominciò a fare una serie di collegamenti e di rianalisi di tutti i suoi ricordi, in base a quello che aveva appreso dalle pagine del diario.

Si chiese se le misteriose Porte delle Fate di cui aveva narrato Kernon avessero dei collegamenti con i portali triangolari di Irhyel. Non poteva essere una coincidenza. Le Tre Madri del Fato avevano detto che quelle porte non erano create dalle Fate nordiche, ma solo sorvegliate da esse.

Ma le Fate discendevano dai Geni, almeno da quel che dicevano le antiche cronache antidiluviane. Esse venivano da un piccolo gruppo di Geni che dopo la fine del loro impero si erano rifugiati nei boschi delle montagne, cambiando completamente stile di vita e aspetto. Ma forse qualcosa della sapienza dei loro antichi antenati potevano averlo conservato.

Gli tornarono in mente anche le parole delle Tre Madri del Fato riguardo Horyel e le Fate ribelli alleate di Aralar, che cercavano di ripristinare la gloria di un passato perduto. Le Tre Regine avevano detto che le Fate un tempo conoscevano il segreto della Soglia dell’Altrove e del sentiero verso la Terra delle Fate che ora era perduto.

Con tutta probabilità quelle parole erano legate a quello che Aralar aveva visto, o aveva creduto di vedere,  nella perduta Irhyel.

Ora aveva anche la certezza che il Reverendo Padre Aralar Alpan avesse partecipato al belk. Certo, c’erano già prima tutti gli indizi in proposito, ma non ne aveva mai avuto la prova conclusiva e diretta, anche se aveva rapporti con le Fate.

Chissà perché, proprio in quel momento gli venne in mente una cosa che non tornava, in proposito. Gli tornò alla memoria la conversazione che aveva avuto con Aralar quel mattino in cui era andato nel suo eremo e l’aveva visto letteralmente impazzire mentre leggeva Le Dottrine Misteriche di Cthuchulcha ad altra voce.

Aralar gli aveva detto, sorprendentemente, che non sapeva nulla della razza a cui apparteneva la sua gatta Ashtair. E si ricordò anche di quando le Tre Madri del Fato gli avevano detto che non potevano dirgli cosa fossero veramente i gatti della Valle dei Gigli, perché era una conoscenza che faceva parte dei Misteri del belk.

Ma allora perché Aralar aveva detto di non sapere nulla di loro, se era uno dei seguaci del belk? Forse esistevano diversi gradi di iniziazione, con diversi livelli di conoscenza, e Aralar non aveva raggiunto i gradi più alti. Forse era addirittura rimasto ai livelli inferiori.

In fin dei conti, se era vero quello che aveva raccontato, aveva trasgredito alle regole allucinanti che dovevano seguire gli iniziati fin dalla prima volta. Nel suo volo visionario, si era allontanato dalla Società di Ianarthi e aveva seguito un suo cammino, pericoloso e remoto, fino a raggiungere un’altra epoca.

Per la prima volta nella sua vita, Velthur sentì il desiderio di partecipare anche lui al belk, per scoprire se quello che aveva visto Aralar era vero. Un desiderio che lo spaventava ancora più dei demoni che ormai stavano infestando invisibilmente la pacifica Arethyan.





CAP. XXVI: I MITI DEL DILUVIO

  

Velthur non aveva molte occasioni per essere felice in quei giorni, ma ce n’era una che lo riempiva totalmente di soddisfazione e di speranza.

Loraisan era davvero eccezionale, veniva regolarmente a lezione due volte alla settimana e s’impegnava al massimo. Syndrieli aveva chiesto al medico che gli facesse leggere il Tinsina Entinaga, il Libro dei Giorni Antichi, perché lo imparasse e potesse poi mostrare alla sua amica Thanxiel, la sacerdotessa di Nethuan, quanto era diventato bravo e come conosceva gli antichi testi sacri.

Sperava che la kamethei rimanesse impressionata dalla sua bravura, e favorisse un giorno la sua consacrazione come sacerdote della plebe.
Certo, Velthur non poteva approvare in cuor suo che la madre di Loraisan lo volesse sacerdote, ma capiva che da lei non si poteva chiedere di meglio, e quindi la assecondava, anche perché temeva

LOVECRAFT 333: LA CHIESA MISTERIOSA NE "L'ABITATORE DEL BUIO"

giovedì 26 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 317° pagina.


Sono fermamente deciso a ripetere l’esperienza più e più volte. Parteciperò a ogni belk, e ogni volta cercherò di raggiungere Irhyel e i suoi segreti, fino a quando sarò riuscito a scoprire come venivano fabbricati i portali triangolari.

Tutto quello in cui credo, tutto quello che faccio dipende solo da questo.



Velthur richiuse il diario. Aveva letto a sufficienza per rimanere perplesso e sconcertato come poche altre volte. Il racconto era ancora più incredibile di tutti gli altri che aveva ascoltato dai suoi compaesani. Più della figura nera nello specchio, più del mostruoso essere con la testa a occhio e la processione di misteriosi monaci ultraterreni, più della porta fantasma aperta su di un mondo di crepuscolo verde. Incredibile quasi come le paurose leggende intorno alla Valle dei Gigli.

Cercava di dirsi che probabilmente si era trattato solo dell’allucinata visione di un pazzo pieno di droghe di ogni tipo, ma c’erano altre cose che lo inquietavano.

«È stato ad Irhyel, quel maledetto….. ha trovato Irhyel e ne è tornato vivo! Non ci posso credere! È riuscito nell’impresa che tanti viaggiatori hanno fallito».

Disse rivolto alle pagine, pentendosi di non aver voluto leggere prima quel diario maledetto.

Forse il viaggio onirico era stato solo un miraggio, ma non per questo poteva essere sicuro che lo fosse stato anche il viaggio reale nella mitica città morta avvenuto anni prima, a cui Aralar aveva accennato qua e là.

Indubbiamente la profezia delle Tre Madri del Fato si stava realizzando. Dentro le pagine del diario stava trovando le risposte alle domande che l’avevano assillato sette anni prima e che poi aveva cercato di dimenticare assieme a chi le aveva suscitate.

Irhyel era un’antica leggenda che i mercanti navigatori del Veltyan avevano portato dalle coste occidentali di Edan Synair.

La gente dei villaggi di pescatori e di pastori, stretti fra il mare e le montagne che confinavano con il Deserto Rosso, conservava religiosamente il ricordo di un passato remoto, splendido e perduto, che aveva suggestionato anche i navigatori e i mercanti, i quali avevano sognato di poter ritrovare le rovine di Irhyel, la Città dei Geni, perduta tra le sabbie del deserto. Ma le tribù di nomadi che sapevano qualcosa della sua ubicazione si erano sempre rifiutate di condurre qualsiasi straniero a tali rovine, poiché erano considerate maledette e proibite dai superstiziosi locali.

Perun Oyarsun aveva narrato tali leggende in uno dei suoi libri, accennando agli spiriti demoniaci che infesterebbero ancora le rovine, e che sorveglierebbero i suoi immensi tesori nascosti nelle grandi catacombe sotto le sabbie del Deserto Rosso.

Non pochi viaggiatori del Veltyan si erano persi nel deserto, alla ricerca di quel regno favoloso. Altri erano tornati senza aver trovato nulla. Uno però, da quel che ricordava, era riuscito a tornare dicendo di aver trovato la città maledetta,  ma era completamente impazzito, forse per il sole implacabile del deserto.

E quel pazzo assassino perverso di Aralar Alpan raccontava nel suo diario di averla trovata e di essersi pure avventurato nei suoi sotterranei. Sicuramente non mentiva, dato che era il suo diario segreto. Certo, poteva essere che anche quello fosse il parto malato della sua mente folle, e che lui semplicemente si fosse convinto di aver trovato la mitica Irhyel. Forse il sole del deserto aveva fatto impazzire anche lui.

Ma ora era più chiaro cosa veramente aveva voluto fare l’eremita. Aveva desiderato di avere il dominio assoluto dei passaggi all’Altrove, il potere di aprire porte verso mondi sconosciuti dovunque, e di averne l’assoluto controllo. Un tale potere certamente l’avrebbe reso l’essere più potente di Kellur.

Voleva il potere che era stato degli antichi Geni, per essere uguale a loro. Essere uguale a un Dio. I portali triangolari dei Geni erano la vera Soglia dell’Altrove, e permettevano a intere schiere di esseri di passare da un mondo all’altro tutte le volte che volevano.

C’era da chiedersi, adesso, se avesse davvero scoperto il potere dei portali triangolari che aveva descritto, e se davvero tali portali erano mai esistiti, o erano solo frutto del suo delirio di onnipotenza. Ma se erano esistiti, forse erano stati quelli la causa della sua morte.

LOVECRAFT 332: IL PANORAMA DI PROVIDENCE NE "L'ABITATORE DEL BUIO"

mercoledì 25 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 316° pagina.


Fu quel pensiero, che mi fece gelare ulteriormente il sangue. Stavo udendo un grido che varcava gli abissi del tempo, un grido che era stato lanciato non solo innumerevoli anni prima che io nascessi, ma prima che nascesse tutto ciò che conoscevo.

Ma ancora più impressionante fu quello che seguì dopo. La Fenice prese a cantare, con una voce che non era una voce, era una melodia prodotta da uno strumento sconosciuto, anzi, da più strumenti sconosciuti. E nello stesso tempo, era formata da parole.

Non capivo cosa cantava, ma quella melodia arrivava al cuore dritta come una freccia, e lo faceva sanguinare.

Non ho mai ascoltato niente di più bello, perché quella musica aveva il potere di evocare sentimenti, ricordi, emozioni come non aveva mai potuto farlo nessuna melodia umana, e nemmeno fatata.

Un’antica leggenda del regno di Khaam diceva che il mondo era cominciato quando la Fenice, posandosi su di una collina emersa dall’Abisso delle acque originarie, dall’Oceano del Caos infinito, aveva cominciato a cantare, e con la sua canzone aveva creato la luce e la vita dove prima c’era solo buio e fango che affiorava dalle acque oscure.

E forse era proprio così, perché quel canto era così potente, così bello e seducente, che piegò il mio volere senza possibilità di scampo.

Quella melodia, ascoltata nello splendido scenario dell’arcaica megalopoli, suscitò in me un sentimento nuovo e potentissimo, un’emozione senza nome. Cosa fosse esattamente, non lo so dire neanche adesso. Era una specie di dolcissima malinconia, che dava sofferenza e gioia immense allo stesso tempo. E insieme era una struggente nostalgia di qualcosa di antico e perduto, qualcosa che mi chiamava con voce imperiosa, inappellabile.

Fui assalito dai ricordi della mia infanzia, i molti dolorosi e i pochi felici, pieni di speranza per un futuro migliore che non era mai arrivato. Mi sentii tornare bambino, mi sembrava di provare gli stessi sogni, le stesse ingenue aspirazioni dell’infanzia, e sentii uno struggente desiderio di tornare alle mie origini, a quell’infanzia perduta e improvvisamente ritrovata.

La Fenice aveva usato su di me un incantesimo a cui non avevo potuto resistere.

Fu la stessa forza del mio cuore che mi riportò indietro, al mio corpo visibile e al mio mondo, fu il desiderio di tornare dentro me stesso, o meglio di ritrovare il nucleo primo del mio essere. Almeno, solo così posso descrivere quel sentimento indefinibile che provai in quei pochi istanti.

 Il piccolo Uomo che ero io e nient’altro, questo volevo essere. Eppure in quei momenti mi sembrava di essere l’universo intero, come se racchiuso dentro il mistero del mio cuore ci fosse tutto quello che avrei dovuto cercare e possedere.

Mi sentii trasportare in una galleria buia a grandissima velocità, come attratto da un vortice, da una corrente velocissima. Non vidi niente del mio viaggio di ritorno, anche se mi parve di scorgere, in rapidissima successione e  a ritroso, tutti i luoghi che avevo visto in volo.

Mi ritrovai sull’erba del campo con i morenti fuochi del belk, mentre comparivano le prime luci dell’alba. Mi sentivo malissimo, debole come un neonato, non riuscivo neanche a muovere le braccia e le gambe, tantomeno ad alzarmi in piedi. I miei compagni di orgia se ne stavano anch’essi distesi, nudi ed inerti, alcuni abbracciati in coppia, altri da soli, sparpagliati in tutto il campo. Le Fate se ne erano andate, e anche i Sileni. Rimanevano solo i bianchi corpi degli Uomini, maschi e femmine, mentre le  ultime fiamme morivano, forse ancora persi nelle loro visioni notturne.

Il sacerdote e la sacerdotessa invece se ne stavano seduti insieme sull’erba, rivestiti delle loro tuniche nere e dorate, accanto alla panchina di legno che era servita da altare per la cerimonia della Cena Sacra. Aspettavano il risveglio dei partecipanti per dare loro il commiato, con l’ingiunzione di non parlare a nessuno di quello che era avvenuto durante il rito.

Ma a me non me ne importava niente né degli altri, né dei sacerdoti. Sentivo solo questa struggente nostalgia, questo dolore senza fine e questa brama altrettanto infinita di rivedere lo splendore e la gloria inimmaginabili di Irhyel, l’ebbrezza esaltante della libertà, che avevo goduto per un periodo che mi pareva sia infinito che brevissimo.

LOVECRAFT 331: IL PERSONAGGIO DI ROBERT BLAKE NE "L'ABITATORE DEL BUIO".

martedì 24 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 315° pagina.


«Le antiche leggende degli Uomni di Edan Synair raccontano che i Geni si ribellarono al loro Dio Supremo e furono sterminati con una guerra celeste che distrusse la loro grande capitale e tutte le altre loro città sparse nel mondo, e costrinse i superstiti a rifugiarsi in luoghi reconditi ed isolati».

«Quale fu la causa di tale ribelliione?».

«Non ne sono sicuro. Qualcuno mi ha raccontato che essi si rivoltarono contro il fatto che il loro Dio Supremo aveva creato gli Uomini, che loro consideravano esseri di molto inferiori a loro. Altri dicono che volevano conquistare il cielo e sconvolgere l’ordine del mondo».

«Allora, Aralar Alpan, della città di Prini nel regno del Veltyan, della sconosciuta stirpe degli Uomini, non sembra che i Geni abbiano avuto molta simpatia per voi. Io li conosco da molto tempo, e vedo bene qual è la strada che hanno intrapreso. Una strada pericolosa che tu, dal futuro, mi confermi essere tale. Essi sono superbi e temerari e all’occorrenza anche spietati e crudeli. Su di loro pesa l’ombra della rovina. E anche su tutti coloro che gli si avvicinano.

Tu, che vuoi indagare nei loro segreti, rischi di essere portato sulla stessa strada. Se il tuo spirito ha il potere di viaggiare nel tempo, usalo per fini migliori. Non avvicinarti a segreti che è meglio che rimangano sepolti.

Io non so cosa succederà in futuro, perché esso ha troppi volti per me. Potrei continuare a chiederti del tuo mondo dell’avvenire, ma so che sarebbe solo uno dei tanti mondi a venire che si profilano di fronte a me, e in fin dei conti non ha molta importanza, per chi vive da ere immemorabili e continuerà a vivere ancora, forse anche quando tu sarai morto e dimenticato e il tuo futuro sarà un altro remotissimo passato.

Quindi ti dico di nuovo: torna indietro! Non avventurarti in luoghi che non comprenderesti, non intraprendere imprese troppo grandi per te. Ritorna al tuo presente e se hai sete di conoscenza, cerca di capire meglio il mondo in cui vivi, prima di voler conoscere i reami altrui».

Le sue parole restano scolpite in me. Non so come sia possibile, ma ricordo ogni singola parola che uscì dal suo becco proprio come se la sentissi in questo momento.

Il ricordo della Fenice è inciso profondamente nella mia memoria, e ha cambiato la mia anima.

Un’improvvisa angoscia sostituì l’esaltazione mista a terrore che prima mi aveva dominato, fin da quando mi ero allontanato dal mio corpo fisico. Avevo compiuto un viaggio incredibile, bellissimo e terrificante, e ora scoprivo di non essere il benvenuto proprio là dove volevo arrivare.

Ero angosciato di non poter raggiungere lo scopo tanto agognato, ma non temevo per la mia vita. Nessuno poteva farmi del male. Il mio corpo giaceva al sicuro, addormentato sull’erba attorno al falò del belk, e il mio spirito non poteva venire ferito. Vedevo il passato, e il passato ora mi vedeva, ma non mi poteva raggiungere. Io non ero veramente là, quell’essere divino e prodigioso mi parlava attraverso migliaia di secoli come se urlassimo da due sponde di un fiume invalicabile, e il vento portasse le parole dell’uno all’altro.

Non dovevo temere nulla per me, ma colei che se ne stava sull’altra sponda del fiume poteva alzare un velo sul suo orizzonte, affinché non ne potessi vedere i particolari.

«Io non me ne andrò, Fenice! Rimarrò qua e guarderò queste porte spalancate sull’ignoto, per scoprirne i segreti. Come me lo impedirai, se io non sono veramente qui?».

«Sì, è vero… ci sei eppure non ci sei…. Anche io però qui ci sono eppure non ci sono…tu stai parlando di ciò di cui non conosci, perché in realtà non sai dove ti trovi veramente.».

La Fenice non disse più niente, e inarcò la sua bella testa di aquila verso l’alto, torcendo indietro il suo collo lungo e sinuoso, ma possente.

Lanciò un grido, un grido acutissimo, che sembrava una via di mezzo fra l’urlo di un uccello e quello di una donna. Un grido che mi fece raggelare il sangue, e che non udii solo io. Perché la gente della piazza si voltò spaventata verso la Fenice, che prima aveva salutato come si saluta un personaggio elevato e importante.

Era un grido che era stato emesso in un passato remotissimo, ma che era diretto a me, attraverso l’abisso dei millenni.

LOVECRAFT 330: "OUVERTURE" DE "L'ABITATORE DEL BUIO"

lunedì 23 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 314° pagina.


L’essere emerse dalla porta fluttuando lentamente, in un modo in cui nessun uccello conosciuto avrebbe potuto fare. La sua era la lentezza di un vapore che si sparge nell’aria. Planava, non sbatteva le ali. Persino i suoi movimenti sembravano appartenere a un altro mondo, dove le cose avvengono in modo diverso da qui.

Emerse nella vasta piazza di fronte a una delle grandi piramidi al limitare della città, e la gente elfica che si trovava a passare di là o saliva sulle immense gradinate della gigantesca struttura, alzò tutta quanta le braccia in segno di saluto.

Guardando i suoi occhi, mi resi conto che l’uccello di fuoco bianco era un essere senziente, pensante come e più di me.

Sapevo cosa era dagli antichi testi di Edan Synair e del lontano Oriente. Si trattava dell’immortale Fenice, l’Uccello di Fuoco. La Signora della Rinascita.

Non potei trattenermi dall’osservarla nel suo lento, irreale volo, o meglio fluttuazione luminoso a mezz’aria. Fu allora che successe qualcosa che mi sconcertò e mi terrorizzò più di tutto il resto.

Da quando ero giunto tra le rovine della città perduta e le avevo viste animarsi, mi ero convinto che stavo solo guardando un passato defunto, che stavo visitando un regno di fantasmi, la visione di un passato che non esiste più, e con il quale non potevo più interferire, perché il passato è passato.

Vedevo la gente e la città come era stata, ma i Geni e gli altri esseri misteriosi non potevano vedere me, perché io appartenevo ad un’altra epoca. Tutti, immancabilmente, mi erano passati accanto senza vedermi, perché per loro io non esistevo ancora.

Tutti fuorché la Fenice.

Planando lentamente nella piazza, voltò la testa e lo sguardo proprio verso di me, come se mi vedesse. Con uno scatto improvviso atterrò, divenendo rapida quanto prima era lenta, in un solo istante.

Stando proprio di fronte alla mia eterea figura fluttuante, mi parlò nell’antica lingua dei Geni, che avevo appreso dai sacerdoti di Edan Synair, che conservano nei loro monasteri ciò che resta dell’antico sapere. La sua voce era vibrante, profonda, quasi cantilenante, e non aveva nulla di somigliante alla voce umana.

«Chi sei tu?» mi chiese.

Risposi d’istinto, senza neanche pensarci.

«Mi chiamo Aralar Alpan, della città di Prini, nel lontano regno del Veltyan. Appartengo al popolo dei Thyrsenna e sono della stirpe degli Uomini».

«Non conosco né il tuo popolo né la tua stirpe. A che mondo appartieni?».

«A questo mondo. Kellur, la Madre Terra. O almeno, il mio popolo la chiama così».

«Questo mondo per i suoi abitanti si chiama Adkin, e non vi esiste nessuna stirpe degli Uomini, né vi è mai esistita. Tu vieni dall’avvenire?Perché sei qui?».

«Sì, io vengo da un’epoca a venire, un mondo che per voi deve ancora sorgere, mentre per noi il vostro mondo è tramontato da molte ere. Sono venuto per apprendere, perché la mia epoca ha dimenticato i segreti del passato».

«Se li ha dimenticati, ci sarà senz’altro una buona ragione. Non è questo il tuo posto. Devi tornare indietro, e rimanere nel tuo mondo».

«Sono venuto per imparare il segreto delle porte verso l’Altrove, che non è più conosciuto nella nostra epoca. La mia stirpe è giovane e desiderosa di conoscere i misteri del cielo e della terra, e di ciò che vi sta oltre. Se il popolo di Irhyel ha potuto conquistare questo segreto, allora possiamo conquistarlo anche noi».

«L’ha conquistato e un giorno lo perderà, sembra, se davvero nella tua epoca lo si è dimenticato. Come vivono i Geni nel tuo remoto avvenire? Sono più felici che in questa, o lo sono di meno?».

«Nella mia epoca, non si sa neanche se esistono ancora. Alcuni dicono che siano estinti, altri che alcuni di loro vivano ancora nascosti nel deserto e sulle isole dell’oceano. La grande Irhyel è un cumulo di colossali rovine perse in mezzo a un grande deserto, ed è così da innumerevoli secoli».

«E come mai? Sai il perché di questa triste fine?».

LOVECRAFT 329: LA DICOTOMIA LETTERARIA DI LOVECRAFT.

domenica 22 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 313° pagina.


nel mare vicino, che ora invece il deserto aveva fatto ritrarre fin oltre l’orizzonte ad oriente. Quella era stata la capitale del mondo in quel passato perduto da milioni di anni, in cui sulla Madre Terra avevano camminato, e volato, solo i Geni semidivini. E in quella Kellur antica oltre a loro solo i Tritoni antichi avevano vissuto nelle acque degli oceani, dei fiumi e delle paludi, cedendo il posto di dominatori del mondo a coloro che vivevano sulla terraferma.

Quanto era durato il loro dominio, e fin dove si era spinto?L’impero dei Giganti durò ottomila anni, secondo gli antichi testi sacri, ma il dominio dei Geni deve essere durato immensamente di più, centinaia di secoli, forse migliaia. Forse milioni di anni.

E così grande e splendente, così duratura era stata la gloria di Irhyel, che il tempo non aveva potuto cancellarla del tutto. Non aveva potuto consumare le sue piramidi, né abbattere del tutto le sue torri e i suoi colonnati, né le sabbie del deserto avevano potuto seppellire completamente le sue mura e i suoi palazzi. E sotto le sabbie, lo sapevo, rimaneva intatto gran parte del suo immenso corpo, nelle sale catacombali, nei dedali di gallerie in cui uno della stirpe umana potrebbe solo perdersi per andare incontro a una morte orribile nel buio. Preda di chissà quali fantasmi.

Ancora adesso che ci penso, un brivido mi assale pensando alla mia incoscienza temeraria che si era addentrata in quelle gallerie, e si era persa nella contemplazione delle immense sale sotterranee dove giacevano gli antichi sovrani e nobili del popolo dei Geni, sotto le enormi statue d’oro e di platino che li rappresentavano.

I predoni del deserto non erano stati capaci di raggiungerle, a causa dei terrori superstiziosi che avvolgevano le rovine come un eterno bozzolo protettivo.

Forse, la fine di Kellur avrebbe sorpreso le catacombe di Irhyel come le avevo viste io, intatte e perenni.

Ora che vedevo Irhyel com’era, comprendevo molte più cose del suo passato. Le antiche leggende misteriche dicevano che i Geni avevano avuto commercio con l’Altrove, prima di giungere alla loro finale rovina. Ma ora vedevo che quei rapporti erano stati immensamente più intensi di quanto io avrei mai potuto immaginare.

L’intera megalopoli era stata una gigantesca porta sull’Altrove, su infiniti mondi ignoti.

Un’immensa struttura alchemica che era un porto verso l’ignoto infinito. Il segreto che avevo cercato invano fra le sue rovine, e della cui esistenza ero convinto, ora mi appariva nella sua verità. E tale mistero infatti aveva la sua chiave non nei sotterranei, ma proprio in superficie, fra le rovine che emergevano dalle sabbie.

Dovevo solo osservare meglio quelle porte triangolari, capire come fossero fatte, di quali sostanze erano composte, come venivano costruite, come funzionavano, e il potere assoluto sarebbe stato mio!

Ma mentre osservavo una di esse, una delle più grandi, un altro essere prodigioso sorse da essa, distraendomi con la sua magnificente apparizione. Era il più stupefacente di tutti, avvolto di uno splendore e bellezza indescrivibili.

Aveva l’aspetto di un uccello, ma che uccello! Pareva una sorta di incrocio fra un ‘aquila, un pavone e un fenicottero, e splendeva di luce propria come una fiamma vivente. La luce promanva dalle sue piume, dalle sue ali e dalla sua coda come un manto di fiamme bianche. Anzi, era il manto delle sue piume che pareva fatto di fiamme.

Una cresta di fiamme più lunghe usciva dalla sommità della sua testa. Il becco ricurvo, simile a qullo di un’aquila ma più sottile e gli artigli parevano fatti di oro purissimo, il piumaggio di fiamme bianche, mutava sugli orli frastagliandosi in mille piccole iridi multicolori. I suoi occhi, invece, erano grandi pozzi neri. Rotondi, immensi, completamente neri come due sfere di lucido giaietto

La sua coda sembrava la scia di una cometa o di una meteora, fatta di lunghissime piume ondeggianti, come serpenti di fuoco, ognuna delle quali terminava con una punta a forma di foglia multicolore, in cui compariva un grande occhio di un nero lucente. E quegli occhi non erano semplicemente un disegno del piumaggio, erano occhi veri, che sbattevano le palpebre, e sembravano guardare in tutte le direzioni. Dovevano essercene una dozzina.

LOVECRAFT 328: INTRODUZIONE A "L'ABITATORE DEL BUIO".

sabato 21 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 312° pagina.


Ma poi vidi loro, gli Altri. Coloro che non hanno nome. Seguivano anche loro le superbe figure degli Elfi della Luce, come sinistri guardiani del passato.

Vidi Quelli dalle Ali Nere, che seminano un invincibile terrore in chiunque li veda o anche solo ne avverta la presenza. Volavano sopra la città come stormi di giganteschi uccelli neri, simbolo di morte e di rovina.

Come potessero essere là, e fare parte di tutto quello splendore come se non fossero estranei, ma abitanti come gli altri, non so ancora dire.

E poi vidi altri esseri demoniaci, anche più spaventosi, e di alcuni di essi avevo già sentito parlare nei libri di stregoneria nera. Altri invece mi erano del tutto sconosciuti.

Li vedevo apparire e scomparire da strane porte triangolari che avevo già notato fra le rovine durante la mia prima visita.

Avevo già intuito la prima volta che si trattava di porte dalla funzione sacra, dato che non portavano apparentemente da nessuna parte. Erano semplicemente delle alte aperture a triangolo isoscele, dentro delle mura di blocchi di quarzo purissimo, costruite in mezzo a grandi piazze, o in fondo a viali di ampi giardini che ora erano coperti solo di sabbia.

Mi posai fluttuando accanto a una di quelle porte, e vidi improvvisamente uscire da essa una lunga fila di giganti mostruosi, con il corpo simile a quello umano, ma coperto di squame grigio argenteo, come quelle di certi pesci, e una testa con un unico grande occhio rosso e privo di pupilla, una bocca mostruosa dai denti aguzzi, e una capigliatura fatta di antenne o tentacoli che sembravano un groviglio di serpenti bianco-azzurri. Credo che fossero quegli esseri che secondo i Misteri di Cthuchulcha sono i Ciclopi, una delle progenie di Enkean, il Dio dell’Abisso, il Serpente Antico che è chiamato anche Sogar. I Ciclopi erano detti essere i più mostruosi dei suoi figli.

Comparivano dal nulla, dal vuoto stesso della porta, come se fosse spalancata su di un mondo invisibile, e in seguito scoprii che era davvero così.

Il tempo sembrava non scorrere, e la notte di luna piena pareva infinita. Volai sopra un’altra porta, che emergeva a malapena dalle sabbie, e attraverso di essa vidi uscire un essere prodigioso ed enorme: un lunghissimo serpente con una cresta di piume colorate, tinte di fiamma. E anche il suo corpo era interamente coperto di piume di tutti i colori dell’arcobaleno. Era seguito da un essere ancora più prodigioso: un cavallo nero dalle sei zampe e dagli occhi a forma di rombi splendenti di luce verde, con il manto tutto trapunto di stelle bianco-azzurre. Mentre avanzava, il suo manto da nero divenne blu zaffiro e infine viola. La sua criniera e la coda erano azzurre come le stelle che splendevano sul suo corpo, che scoprii essere semitrasparente. Infatti, le stelle non erano sul suo manto, ma sotto la sua pelle. Gli zoccoli parevano di zaffiro.

Rimasi incantato dalla bellezza di quelle due magnificenti creature che mi parvero immagini di Dei, e che forse lo erano.

Mentre guardavo quei due prodigi, mi resi conto che le immagini del passato si facevano più nette e presenti. Mentre i due esseri divini avanzavano tra le rovine, vidi lentamente la città rinascere e rifiorire, riprendere il volto che aveva avuto nel passato remoto. E vidi che non solo le rovine, ma neanche le antiche leggende, potevano minimamente rendere l’idea della grandezza e della gloria che aveva raggiunto quell’immensa metropoli nella notte dei tempi, uno splendore che era aldilà dell’immaginazione umana, perché era stata opera di mani non umane.

Le torri di Irhyel erano state enormi, adamantine, più alte delle Piramidi dei Giganti, così imponenti che ti schiacciavano sotto la loro mole, abbacinanti nel fulgore delle loro vetrate di cristallo azzurro e le loro innumerevoli placche d’argento che le rivestivano dalle fondamenta alla cima. Le sue cupole di turchese e lapislazzuli altrettanto imponenti e splendide, come gioielli incastonati nella Madre Terra. Le terrazze dei suoi giardini pensili erano state esplosioni di colori che sembravano un infrangersi ed incrociarsi di mille arcobaleni che ubriacavano la vista.

I suoi colonnati di cristallo erano interminabili attorno a piazze sterminate rivestite di mosaici di mattonelle esagonali che disegnavano misteriose figure simboliche e scene di antiche storie.
E io la contemplavo nei giorni della sua pienezza, gemma splendente in mezzo a una terra verdissima, con un ampio fiume che scendeva dalle lontane montagne ad occidente,, per sfociare

COMPLOTTISMI 53: CONCLUSIONI SUL TERRAPIATTISMO

venerdì 20 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 311° pagina.


tracimavano dai balconi e dai ponti splendenti, e riempivano l’aria di mille profumi, mentre la musica si propagava dalle ampie piazze cristalline.

Irhyel, sulla cui gloria perduta piange la stessa Madre Terra, di cui andava orgogliosa più di ogni altra sua bellezza.

Irhyel, che era sorta superba e magnificente nei tempi remotissimi di ere interminabili, quando il Deserto Rosso era stato una pianura fiorente e piena di vita, e le rive del mare ne avevano sfiorato i palazzi e le vie piene di gente felice ed altera.

Irhyel, il sogno di ogni sognatore, poiché ogni sognatore vorrebbe poterla rivedere come era un tempo. E lo sognavo anche io, ma il mio sogno era ancora più ambizioso. Perché io sogno di ricostruire una nuova Irhyel nella gloria che fu, e che sarà ancora un giorno.

E volando sopra il deserto, l’ho vista avvicinarsi all’orizzonte, come uno scheletro abbandonato sulle sabbie così come mi è apparsa tanti anni fa.

Eppure, nello stesso tempo, mi è apparsa diversa da quella prima volta che, condottovi là dai nomadi del deserto, l’ho vista dall’alto di una collina, campo sterminato di rovine incolori sepolte dalla sabbia rosso-rosata. Ora vedevo il suo lato invisibile, il lato che non avevo potuto contemplare, ma solo udire, durante la mia prima visita.

E questa volta, il reverente timore che avevo provato con gli occhi del corpo fisico, divenne subito terror panico, paura di ciò che stavo scoprendo.

La prima volta avevo vagato fra le rovine nella luce del giorno, e mi ero spinto con un coraggio che rasentava l’incoscienza nelle sterminate catacombe nascoste sotto la città proibita. Credo che in quel giorno la passione per la scoperta mi ha reso inconsapevole dei rischi che correvo ad avventurarmi nel buio millenario delle gallerie e delle sale sotterranee di quel luogo dimenticato dagli Dei.

La prima volta, io avevo solo avvertito le Presenze, che per me erano state invisibili, ora invece non erano più tali.

Ora io li vedevo. Coloro che avevo solo percepito nel buio, nei sussurri del vento intriso di sabbia rossa, nei bisbiglii che mi era parso di ascoltare nelle nere gallerie, nei misteriosi bagliori verdazzurri che avevo scorto in fondo a profonde gallerie dove mi era sembrato di vedersi agitare delle misteriose ombre nere.

Ora li vedevo, sotto la luce della luna piena, vagare tra le rovine, come mostruosi fantasmi evanescenti, eppure non certo nebulosi. Li vedevo molto chiaramente nei loro particolari.

Se fossero spiriti non so dirlo, se appartenessero al presente o solo a un lontano passato nemmeno, ma erano esseri reali. Spaventosamente reali, ed alieni a tutto il nostro mondo. Ed erano schiere innumerevoli, inconcepibilmente numerosi in quelle sterminate rovine.

Inoltre, erano di molte varietà e forme. C’erano gli antichi Elfi della Luce, i Geni, che prima non avevo mai avuto il privilegio di poter vedere se non in qualche antico affresco o miniatura del lontano Oriente, perché forse nel nostro mondo non esistono più. Alti, imponenti, possenti e superbi, sia maschi che femmine, dalle chiome di fiamma e dagli occhi lucenti come monete d’oro e smeraldo, dalle vesti ingioiellate e diademi a forma di serpenti d’argento sul capo, ben diversi dai loro umili cugini di oggi: i bassi e tozzi Elfi delle Tenebre, cioè i Nani e le fragili Fate, gli Elfi del Crepuscolo.

Credo di averli visti com’erano quando la città era viva e vitale, avanzare alteri e primevi in quelli che erano stati i loro palazzi.

Discendendo in volo sulla città, mi avvicinavo a loro, li seguivo nel loro camminare, o nel loro levitare sopra le strade e i grandi edifici, nel tentativo di poter parlare con loro, anche se mi davano una soggezione e un timore che non credo sarei mai riuscito a superare.

Ma loro nemmeno si accorsero di me. Non sapevano che io fossi là. Un abisso temporale ci separava, di migliaia e migliaia di secoli. Loro vivevano nell’Era Mediana, io nel presente. Lo spazio non esisteva più per me, ma la barriera del tempo sembrava ancora, almeno in parte, invalicabile. Potevo vedere il passato, ma non parlare con esso, tantomeno interferirvi.

COMPLOTTISMI 52: IL TERRAPIATTISMO COME "PROTESTA CONTRO UN MONDO DELUDE...

giovedì 19 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 310° pagina.


come più leggere. Non saprei dire esattamente come, ma mi sembrava come se vedessi e sentissi i miei pensieri dall’esterno, come se li guardassi dentro un riflesso sull’acqua, dentro uno specchio.

Mi diressi deciso verso sud-est, verso il mare. Il mio senso dell’orientamento, già così allenato quando facevo il marinaio, si era acuito. Mi sentivo consapevole del mondo intero. Sapevo dove dovevo dirigermi per raggiungere quell’antica terra di incanto e di misteri che mi aveva tanto affascinato, e che già avevo esplorato per conoscerne i terrificanti segreti antidiluviani.

La distesa del mare meridionale sfrecciò sotto di me a una velocità spaventosa. Non sentivo niente, neanche il vento sul mio corpo umbratile. Attraversavo il mondo materiale come si attraversa un miraggio, perché le distanze e il mondo stesso erano diventati nebbia e miraggi, per il mio libero spirito.

E poi la vidi, la grande isola di Edan Synair, la più grande isola del mondo, quasi come un continente, separata da noi dal Mare Tritonico, con le sue coste dalle aride montagne rosse, muraglie di confine del grande Deserto Rosso che si stende aldilà.

Sorvolai la Terra di Khaam e le sue rovine, e passai sopra le sue grandi Piramidi, edificate dagli antichi Giganti antidiluviani, almeno settemila anni fa. Vederle dall’alto fu un’emozione ancora più grande di quando per la prima volta mi trovai a sollevarmi in volo. Ma l’emozione più grande la provai dopo. Dall’alto, si poteva vedere il disegno geometrico che le loro posizioni componevano nell’arida valle in cui erano state costruite, quando ancora era verde e fertile. La costellazione del Vegliante, detto anche il Gigante Cacciatore, risultava evidente sotto di me, sotto la luce della luna. Le stelle erano state scolpite nelle pietre della Madre Terra da un popolo che aveva voluto sfidare il tempo e gli Dei, e che in certo modo, anche se era scomparso da tempo, era riuscito nel suo intento.

I Giganti avevano preso l’immagine della costellazione che li rappresentava per trasporla in modo colossale su Kellur, per indicare che erano simili agli Dei, e che per loro il Padre Cielo non era meno accessibile della Madre Terra.

A sud delle Piramidi, si stendeva il Grande Lago Salato, privo di vita come le terre che lo circondano, incrostate di sale e di sabbia rossa, e più in là ancora, oltre una catena di basse montagne vulcaniche, si stendeva il Deserto Rosso, che occupava la maggior parte del territorio dell’isola, costellato qua e là da alcune oasi, dove si potevano vedere i fuochi degli accampamenti delle tribù nomadi che vivevano là dai tempi in cui Manowa era approdato sull’isola, sfuggendo alle acque del Diluvio.

E più in là ancora, al centro del Deserto Rosso, in un luogo dove non c’erano né oasi e nemmeno passavano le carovane dei nomadi, sia per la troppa lontananza da ogni luogo abitato, sia per paura degli spiriti che popolavano quel luogo, si ergevano le rovine della città maledetta di Irhyel, che erano già vecchie ancora prima del Diluvio, e ancora prima della nascita del dominio dei Giganti, e ancora prima che nascessero gli Uomini, e persino i Sileni.

Le rovine più antiche del mondo, che il Diluvio non aveva potuto seppellire sotto le sue ondate, poiché la leggenda diceva che persino le acque del Diluvio le avevano evitate, dicevano le vecchie che raccontavano le antiche leggende nelle tende dei nomadi davanti ai fuochi della sera, che dicevano anche che, se tutti temono la morte, la morte teme le rovine di Irhyel, poiché di fronte ad esse anche la morte può morire.

Irhyel, la città più grande e magnificente che sia mai sorta sulla Madre Terra dalla notte dei tempi, capitale dei Geni, gli Elfi della Luce, il cui potere e la cui saggezza furono più grandi ancora di quelli dei Giganti.

Irhyel, dalle mille torri d’argento e cristallo, dalle colossali statue di giada e dai balconi di smeraldo, dalle terrazze con lastre a scacchi di alabastro e ametista, dai grandi giardini pensili ornati di statue d’oro e di platino, e dalle fontane di acquamarina, costellate di statue scolpite nello zaffiro.
Irhyel dalle vetrate di rubino e ambra, dalle cupole di turchese e lapislazzuli, dalle colonne di cristallo luminoso verde, azzurro, violetto e rosa, dalle mille bolle d’oro trasparente che illuminavano la città di notte, sospese nell’aria. Irhyel, dalle cascate di fiori di ogni tipo che

COMPLOTTISMI 51: LE MOTIVAZIONE DEI TERRAPIATTISTI NON-BIBLICI

mercoledì 18 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 309° pagina.


Di fronte a me, come un lungo serpente argenteo di schiere innumerevoli, si stendeva nel cielo notturno la Società di Ianarthi, che comprendeva tutti coloro che in quella notte, in tutto il Veltyan e oltre, praticavano il belk.

In quella notte di plenilunio, come in tutti i pleniluni, migliaia di persone praticavano il sacro rito nei boschi e nelle valli più isolate, e facevano sì che le loro anime si staccassero temporaneamente dai corpi, per vagare al seguito dei due grandi Dei, e delle anime che nei secoli e nei millenni li avevano preceduti nella pratica di quel culto.

E io ero in mezzo a loro, e volavo con loro, ma non mi accontentavo di vagare e guardare il mondo dall’alto. Io volevo di più. Io volevo andare oltre al mondo degli Uomini.

Per questo ho fatto proprio quello che mi era stato detto di non fare, quando mi fossi trovato libero del mio corpo: allontanarmi dalla schiera della Società di Ianarthi, e librarmi per conto mio negli spazi notturni. I sacerdoti dei misteri del belk mi avevano insegnato che se l’avessi fatto, avrei rischiato di perdermi. Ma era esattamente quello che volevo fare. Per poter trovare la Verità, bisogna rischiare di perdersi. Ogni conquista richiede un sacrificio, e un grande rischio.

Così, concentrai tutte le mie forze sul mio desiderio di andare lontano, verso orizzonti non sconosciuti, di ritornare in quei luoghi considerati maledetti e proibiti che già avevo visitato anni fa, molto lontano da qui, oltre i mari e le terre.

Cercai di contrastare con la sola forza della volontà la corrente che mi trascinava fra la terra e il cielo, verso il luogo segreto in cui vengono riunite le anime di tutte le congreghe stregonesche, di tutte le comunità fatate e di tutte le piccole tribù sileniche, perché possano trovare la risposta alle piccole, meschine domande della loro piccola e meschina vita, cose che riguardavano il raccolto, l’amore, i figli,  le malattie, il commercio, i rapporti con amici e parenti. Domande di chi non può guardare più in là di queste piccole, insignificanti cose consumate nell’irrilevante. Oppure per poter trovare un momento di magia e di esaltazione in una vita grigia e noiosa, o per sfuggire per poche ore alla propria povertà, o alla solitudine, o alla disperazione e al dolore, così come ci si ubriaca con il vino.

Ma io non avevo piccole, egoistiche domande da fare agli Dei, io avevo solo grandi interrogativi, a cui non avrebbero voluto o potuto rispondere. Perché gli Dei non rispondono sui misteri dell’esistenza, rispondono solo su ciò che non ha vera importanza. Perciò dovevo cercare per conto mio le risposte.

All’inizio dovetti divincolarmi, facendo vibrare e ondulare la corrente attorno a me, scuotendo me stesso e i miei compagni di viaggio più prossimi. In qualche modo, sentivo di avere ancora un corpo, anche se non un corpo di carne. Era come se fossi fatto di una sorta di gelatina rarefatta, mi sentivo quasi un ammasso di liquido vibrante. Sentivo una sensazione simile a quella che si prova immergendo una mano dentro una forte corrente d’acqua.

Quando alla fine riuscii a staccarmi dalla corrente del fiume di spiriti, lanciai un urlo di vittoria. Quelli che mi stavano vicino sembrarono agitarsi un attimo, ma non mi trattennero. Forse neanche si resero conto che mi ero allontanato da loro.

Non riuscivo bene a comprendere come fosse quella strana condizione che pareva immateriale, ma non incorporea. Le anime sono anch’esse corpi, ma diversi da quelli che abbiamo sulla Madre Terra. Corpi in qualche modo simili a quelli degli Dei, anche se molto meno potenti.

Eppure, abbastanza potenti da poterci svincolare dal loro dominio quando lo desideriamo veramente.

Corpi fatti di etere luminoso, e non di carne.

Mi lanciai libero nel volo della notte, mentre prima, me ne accorgevo solo allora, ero attirato solamente dal potere trascinante dei Due Grandi Dei del belk, fin dal momento in cui ero uscito dal mio corpo fisico.
Non c’erano più limiti di spazio, i luoghi più lontani divenivano vicini a un solo gesto della mia volontà. Bastava volerlo. Se qualcuno mi chiedesse se mi sentivo lucido, potrei rispondere che lo ero, ma non come lo si è da svegli. Sentivo che i miei pensieri, le mie emozioni erano tutte diverse,

COMPLOTTISMI 50: IL DEMONIO COME AUTORE DEL "COMPLOTTO DELLA TERRA TONDA"

martedì 17 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 308° pagina


l’esaltazione della danza mi invadevano e cominciavo a perdere coscienza di dove mi trovavo. I suoni, la luce del fuoco, si alteravano sempre più e persino il tempo sembrava scorrere in modo diverso.

La paura, l’ansia, il dolore di vivere si allontanavano sempre più, si sollevavano dalla mia anima e la lasciavano libera da ogni pena. Mi sentivo felice.

Non ricordo il momento esatto in cui sono caduto per terra, né se davvero l’ho fatto, perché semplicemente non ho sentito più il mio corpo e mi è sembrato di librarmi in volo.

Ho sentito di spiccare il volo e planare nell’aria come un uccello, a una velocità straordinaria. La musica e il falò mi sono sembrati allontanarsi nel buio, e io mi sono trovato a volare nel silenzio della notte sopra la terra, più veloce di qualsiasi uccello.

Vedevo il mondo sotto di me scorrere a grande velocità, come non l’avevo mai visto prima. Guardavo i boschi, il fiume, le fattorie e le luci della città lontana all’orizzonte. E sopra di me la luna e le stelle, che mi apparivano fulgenti come non mai, di una luce intensa e vivida come non l’avevo mai vista. La luce della luna non nascondeva più la luce delle stelle. Brillavano assieme e illuminavano il cielo in modo che mi appariva innaturale. Perciò anche il cielo mi appariva di un colore più chiaro, come di uno strano viola anch’esso straordinariamente intenso, che si rifletteva sui boschi e i campi sottostanti.

All’inizio, mi sentii come trascinato in una corrente, come se il vento mi trasportasse alla deriva, e io non potessi fare niente per cambiare la mia direzione.

Dopo, li vidi. Gli altri. Quelli che volavano assieme a me, i miei compagni di danza, che si erano librati come me, e venivano trascinati anch’essi dal vento, ombre bianche e nude, anch’essi spiriti della notte vaganti in preda alle loro visioni, che si aggiungevano ancora ad altre ombre volanti.

Mi mancò il respiro per un attimo, nel vedere chi conduceva la gigantesca scia di creature della notte di cui ormai facevo parte.

Alla testa di questa innumerevole schiera di figure nude e volteggianti come un turbine serpentino di fiocchi di neve nella tormenta, cavalcava una donna splendente di luce bianca, anch’essa nuda, a cavallo di un caprone nero dalle corna d’oro, con il nero manto trapunto di stelle, in folle corsa nel cielo, e gli occhi bianchi che brillavano anch’essi come enormi stelle.

 La donna aveva una testa con tre volti: uno bianco, uno nero e uno rosso, e la sua chioma pareva una coda di verdi fili d’erba che ondeggiavano come alghe nella corrente. I tre volti avevano anch’essi occhi brillanti, che splendevano dome sei stelle di smeraldo. Lei e il caprone nero formavano una combinazione spaventosa, terrificante e allo stesso tempo bellissima. Veramente divina. Per la prima volta vedevo in vita mia almeno due degli Dei. Un privilegio che non è normalmente concesso neanche ai più alti vertici della teocrazia del Veltyan, e che era a disposizione dei più umili e dei più poveri, a patto che divenissero servi del belk.

Cioè, li vedevo come si manifestavano agli occhi delle genti di Kellur. Sapevo, da quello che era stato rivelato nei Misteri del belk, che quello non era il loro vero aspetto, o meglio il loro aspetto pieno. Quella era una delle loro innumerevoli manifestazioni, perché la divinità non può avere un solo volto e un solo nome, né un solo corpo.

Si sa, gli Dei si manifestano in molti modi, ogni divinità ha diverse immagini con cui viene rappresentata, ma gli Uomini in genere non sanno perché. Pensano semplicemente che sia prerogativa degli Dei assumere qualsiasi forma, oppure pensano che le immagini dei Signori e delle Signore siano i simboli di qualcosa che trascende la nostra immaginazione e la nostra comprensione.

E senz’altro questo è vero, ma è solo una parte della verità, perché gli Uomini in genere non vedono più in là di ciò che gli appare in superficie. Io invece adesso vedevo, vedevo.

Vedevo ciò che stava aldilà delle immagini che ci facciamo degli Dei, o meglio delle immagini che crediamo di farci. Vedevo la tremenda, immensa realtà che si nasconde dietro le nostre preghiere.
Ianarthi Trimusiakh e Fuflun Baker Belz erano di fronte a me, nella loro gloria, o meglio in una parte di essa, e adempivano al loro compito: guidare le anime dei loro seguaci nella notte, attraverso le frontiere dell’Ignoto.

COMPLOTTISMI 49: DAL TERRAPIATTISMO RELIGIOSO A QUELLO DI ALTRO TIPO.

lunedì 16 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 307° pagina.


Poiché il belk mi ha fatto viaggiare unicamente con la mente, mentre prima avevo viaggiato innanzitutto con il mio corpo, per raggiungere i lontani misteri perduti del nostro mondo.

Horyel mi ha spiegato che il belk ha effetti più o meno potenti in base alla potenza della mente del partecipante, e mi ha detto che una mente come la mia ne avrebbe tratto risultati molto più grandi di qualsiasi altro Uomo.

E infatti è stato così. Sono andato al primo plenilunio di primavera, che per le Fate e i Sileni ha una particolare importanza, e abbiamo danzato e cantato nudi sotto la luna. Il cerimoniale è molto semplice. La sacerdotessa e il sacerdote che officiano il rito, per prima cosa accendono il falò fatato, che sprigiona una strana fiamma di un colore intenso, simile al turchese, mentre la gente si riuscisce attorno e si spoglia. I suonatori cominciano a suonare i flauti, i corni, i tamburi, le lire, le cetre e a intonare il canto, mentre i partecipanti umani più esperti si spalmano l’Unguento delle Streghe su tutto il corpo. È una mistura fatta di stramonio, aconito, belladonna, pestati assieme e mescolati con olio di oliva.

Fu inventato dalle streghe molto tempo fa, e con il tempo è entrato a far parte del rito del belk, anche se in origine non era così, e le uniche droghe che venivano usate erano il fumo aromatico dei falò fatati, e il vino fatato, fatto con i frutti di bosco e drogato con erbe misteriose.

Infatti solo le streghe e gli stregoni più esperti usano l’Unguento.

Il sacerdote porta una maschera nera a forma di testa di caprone, con delle corna d’oro, dall’aspetto terrificante.

La sacerdotessa porta invece una maschera con tre facce di donna, che rappresentano i tre aspetti della luna: luna crescente, luna piena e luna calante. Essi infatti sono considerati l’immagine carnale del Grande Dio Cornuto e della Grande Dea Trifronte durante il rito. Lei è la Luna, e Lui è la Notte Stellata. Essi rappresentano  le Tenebre e la Luce che splende nelle Tenebre. Essi, insieme, portano l’illuminazione alle creature in carne ed ossa, siano esse Fate, Sileni o Uomini.

Essi guidano la via di chi cammina nelle tenebre di questo mondo, verso la Luce piena.

Quando il rito comincia, i due sacerdoti cominciano a narrare i misteri tramandati dai tempi antichi,

È stata un’esperienza meravigliosa per me. Le cose che hanno narrato i sacerdoti mi hanno aperto un nuovo mondo. Hanno confermato i miti che ho appreso in Edan Synair, e che ci possono portare ad aprire e dominare le Porte dell’Altrove.

Mentre ascoltavo, tutto tornava al suo posto, la Verità mi appariva chiara e precisa nel suo disegno meraviglioso e terrificante.

Poi, finita la narrazione dei misteri, è cominciato il rito della Cena Sacra. A ognuno dei partecipanti veniva offerto un piccolo  pane non lievitato piatto, nero e di forma triangolare, e una piccola coppa di vino fatato, a parte a quelli che si avevano già spalmato addosso l’Unguento delle Streghe. Pane e vino vanno consumati subito, prima che comincino le danze.

Non so cosa succederebbe se una persona, anche esperta e assuefatta alle droghe, assumesse sia l’Unguento che il vino fatato. Forse morirebbe, o forse impazzirebbe in modo inguaribile.

Quando il rito della Cena Sacra è finito, i due sacerdoti si tolgono anch’essi la tunica cerimoniale, ma non le maschere, e giacciono assieme sull’erba, all’interno del cerchio di pietre attorno al falò, e compiono il rito matrimoniale sacro.

Il sacerdote monta la sacerdotessa da dietro, a imitazione degli animali, e durante l’atto rivolgono il volto verso la luna piena, invocando i Due Dei.

Mentre i due officianti copulano, le danze e le musiche cominciano a svolgersi tutt’attorno al falò, in un grande cerchio; alcuni dei danzatori si tengono per mano, altri piroettando e saltano per conto proprio, non pochi cominciano ad agitarsi in preda a strane convulsioni ed emettendo urla bestiali. La musica diventa sempre più frenetica e vivace, man mano che gli effetti dell’unguento e del vino si fanno sentire sempre più.
Si tratta di melodie stranissime, dolci ma inquietanti, fatte di flauti, lire, cetre e corni, che suscitano emozioni intense e sconosciute. Mentre danzavo con gli altri partecipanti, esseri umani, fatati e silenici, sentivo che il mio corpo diventava sempre più leggero, fin quasi a non sentirlo. La musica,

COMPLOTTISMI 48: ANCORA SUL FONDAMENTALISMO EVANGELICO AMERICANO

domenica 15 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 306° pagina.


Ho chiesto a T.A. come mai quelle Fate siano venute a vivere da queste parti, e perché lei le conosca. Mi ha risposto che nel loro popolo è nato un dissidio. Alcune di loro si sono avvicinate di più al mondo degli Uomini, e hanno cominciato a rifiutare certe antiche leggi e costumanze che seguivano ormai da molti millenni. Perciò hanno voluto allontanarsi e andare a vivere in una regione molto distante dal loro luogo di origine, dove le Fate non hanno mai vissuto dai tempi del Diluvio.

Non sono molte. Una trentina al massimo, da quel che mi ha detto. Sono interessate all’alchimia, e vogliono conoscerne i segreti, per scambiare con noi alcune conoscenze.

Ho parlato a lungo con H. e si è dimostrata molto interessata ai viaggi che ho fatto per mare. Soprattutto quando le ho parlato di Irhyel, la città morta nel Deserto Rosso di Edan Synair, e poi quando le ho parlato delle terre dell’Estremo Sud e della ricerca della Terra Santa e del Monte Kadatlas.

Ma soprattutto, si è dimostrata molto interessata alla ricerca della Pietra Radiante, il fiore di cristallo a cinque petali che noi alchimisti misterici cerchiamo disperatamente. Mentre le altre Fate la temono, e sperano che essa rimanga sempre sepolta e nascosta dovunque sia, lei spera di poterci aiutare a trovarla, usando la capacità di visione a distanza che possiede ogni Fata. Mi ha detto persino che dobbiamo cercare dalle parti delle Montagne della Luna, sul bordo orientale della grande catena delle Albine.

Non ho potuto trattenermi dal chiederle se per caso bisognava cercarla nella famosa Valle dei Gigli, il luogo maledetto che tutti evitano, ma lei mi ha risposto che non è là, ma ai piedi delle montagne, nascosta in un luogo sotterraneo. Un luogo che può essere trovato, ma che appartiene a persone ignare di quello che possiedono.

Non so come abbia potuto saperlo, dato che la Pietra Radiante proviene dall’Altrove, e in quanto tale non dovrebbe essere vista in alcuna visione delle Fate. Ma voglio crederle.

Sono quasi svenuto dall’emozione. Non mi lascio impressionare da nulla ormai, ma quando H. ha parlato concretamente della possibilità di recuperare il più grande tesoro dell’universo mondo, ho quasi perso la testa. Giuro che se ci sta prendendo in giro, la ucciderò con le mie mani, ma se davvero mi farà trovare la Pietra Radiante, la farò Regina di tutte le Fate.

D’altra parte, credo che sia proprio quella, la sua ambizione.

Avendo compreso la mia grande sete di sapere, mi ha invitato a partecipare una volta al belk, per entrare nella congrega stregonesca dei suoi amici umani, e apprendere così i misteri iniziatici della loro antica religione. La cosa mi attira molto, infatti…



Velthur questa volta rimase veramente stupito. Era chiaro che H. non era altri che Horyel, la Fata alleata di Aralar, che aveva fatto trovare agli Akapri il Santuario d’Ambra. Quello era il racconto del loro primo incontro e del perché si erano alleati.

Si accorse che in tutti quegli anni dalla morte di Aralar non si era più occupato neanche della misteriosa Horyel, né alcuno gli aveva mai più parlato di lei. Aveva pensato che forse se ne era tornata dai suoi, dovunque si trovassero, ma non ne aveva mai avuto il minimo indizio. Un’altra cosa che aveva pensato, era che potesse vivere ancora sul Monte Leccio, in compagnia di Harali Frontiakh, a custodire l’eredità del defunto amico. E forse, a ben pensarci, poteva essere quella la cosa più probabile. La verità era che, siccome l’aveva ritenuta non particolarmente importante, dopo la morte dell’eremita pazzo, non aveva più pensato a lei. E forse era stato un grosso errore.

Infatti, dal brano che lesse subito dopo, si convinse che Horyel occupava una parte importante nei progetti di Aralar, e che lui aveva sottovalutato la figura della Fata.



V Ariete 3084 d.F.R.A., satrastin

Per la prima volta nella mia vita ho partecipato al rito orgiastico del belk. Credo che sia stata una delle esperienze più straordinarie della mia vita, forse anche di più di quelle vissute nel Deserto Rosso d’Edan Synair o nel grande altipiano di Leng, o sulle Montagne Celesti d’Oriente.

COMPLOTTISMI 47: CAPIRE I LEGAMI FRA FONDAMENTALISMO BIBLICO E TERRAPIAT...

sabato 14 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 305° pagina.


Ma non sarà necessario essere troppo duri con loro. Li faremo deportare in qualche terra lontana e deserta oltre il mare, come avanguardie della nostra grande civiltà. Essi prepareranno il terreno di lontani paesi all’avanzata del nostro impero mondiale.



Velthur rise di piacere e sorpresa nel leggere quel brano. Chiaramente, stava parlando del buon Lusis Erkorekan, il quale ingenuamente era cascato nelle trame di Aralar, che gli aveva dato l’impressione di essere semplicemente un sacerdote riformatore e non un sovvervivo violento e fanatico. Avrebbe voluto poter far leggere a Lusis quel diario, dimostrargli che era stato manipolato, e che per fortuna non era caduto definitivamente nella trappola, solo perché Aralar era morto.

Si accorse di essersi dimenticato del suo collega del Maristevian da lungo tempo.

Dopo quel terribile Tinsi Garpen Silal del 3089, Velthur gli aveva mandato una lettera per avvertirlo della morte di Aralar, e ne aveva ricevuto una pronta risposta, in cui si mostrava sinceramente addolorato della cosa, e pieno di domande su come e perché era avvenuta quella morte misteriosa, su cui Velthur si era mostrato tanto reticente, descrivendola in modo sommario ed evasivo.

Gli aveva però anche detto che non recedeva minimamente dal suo sogno di fondare una colonia aventry nella Valle dei Gigli, e che comunque lui rimaneva in contatto con gli amici di Aralar, con cui condivideva gli stessi obiettivi dell’eremita morto.

Ora Velthur sapeva finalmente qualcosa di quegli amici, e sicuramente Lusis avrebbe potuto rivelargli chi era il misterioso O.M. che aveva messo in contatto per la prima volta il medico con l’eremita.

Ma dopo quella lettera, non si erano più sentiti, e cosa fosse successo nel frattempo al medico del Maristevian gli era del tutto ignoto.

Si maledisse per la sua pigrizia. Avrebbe dovuto mantenere i contatti con Lusis, e pensò che sarebbe stata ora di mandargli un’altra lettera.

Velthur continuò a leggere a caso il diario, e gli sembrò quasi che una mano provvidenziale lo guidasse ad aprire proprio le pagine che gli rivelavano nuovi fatti, e gli presentavano nuovi misteri.



XXI  Pesci 3084 d.F.R.A., turmistin

Sto prendendo sempre più in considerazione la possibilità di farmi sacerdote. Anche se sono figlio di una pescivendola, ho abbastanza agganci per ottenere un ruolo importante nella gerarchia.

Il mio amico P.A., che è un kamethei etariakh, impetrerà a mio favore con la Shepen di P.

Sarà il mezzo con cui potrò reintrodurre il Culto Antidiluviano di Sin nel nostro regno. Da quando ho visitato i sotterranei delle Piramidi e le rovine delle città morte del Deserto Rosso nella lontana isola di Edan Synair, è diventata la mia ossessione.

La scoperta della Rivelazione di Sin nelle rovine delle antiche civiltà antidiluviane e persino pre-umane mi ha fatto comprendere la necessità di far risorgere il passato in una nuova forma.

Il tempo è una spirale, e ogni spirale è simile e dissimile da quella precedente. Dopo l’impero dei Tritoni nella notte dei tempi, quello degli Elfi della Luce nell’Era Mediana, e quello dei Giganti nell’Era Antidiluviana, è ora che giunga l’impero degli Uomini. Sperando che possa durare più a lungo di quanto siano durati i precedenti. I mezzi ci sono. Li ho trovati appunto fra le rovine degli imperi precedenti. Si tratta solo di capire come funzionano, come devono essere applicati.

La mia amica T.A. mi ha fatto conoscere una Fata, una certa H., che proviene da molto lontano, da quella zona delle Montagne Albine che si trova presso la Regione dei Laghi, nel Nord-Ovest del Veltyan, ma che è venuta qui perché si è allontanata dalla sua gente assieme ad altre sue simili. Questa piccola comunità di Fate si è stabilita da alcuni anni in un bosco presso il fiume che sfocia qui a P., e là celebra il belk regolarmente.

Hanno attirato molti contadini a partecipare alle loro feste, anche se dalle nostre parti la stregoneria non è particolarmente diffusa, perlomeno non come in altre province, come quelle di montagna, o dalle parti della grande E..

Chissà, forse è stata proprio la novità di conoscere delle Fate in questa provincia, dove non ci sono mai state, che ha attirato quei bifolchi.

COMPLOTTISMI 46: L'IMPORTANZA DEL FONDAMENTALISMO EVANGELICO .

venerdì 13 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 304° pagina.


una locanda, di un tempio, o di un palazzo, o se di una città o di un villaggio o una collina. Non di rado finiva per essere spaventosamente enigmatico nelle sue narrazioni.

All’inizio pensò che si trattasse di una qualche misura di sicurezza, per coprire eventuali complici se fosse stato scoperto, ma poi scoprì che in realtà non poteva essere per quel motivo, dato che in vari punti del testo aveva scritto che quel diario era la testimonianza storica della sua impresa che, lui era convinto, avrebbe cambiato il Veltyan e poi il mondo. 

Quell’uomo era stato così pieno di assurde contraddizioni che spesso non si riusciava a capire, neanche dal suo diario, quali fossero stati i suoi veri intenti.

O forse, dentro di sé non era stato del tutto convinto di quello che aveva scritto. Forse, la paura di essere scoperto alla fine era stata più forte di ogni sua ambizione.

Passò a un altro brano, e lì scoprì quali erano state le sue reali intenzioni nei confronti degli Avennarna.



VI  Leone 3087 d.F.R.A., larantin

Un paio di giorni fa ho conosciuto un Avennar molto interessante. Un tal L.E. del M., un medico che sembra di larghe vedute. È venuto qui a P. per apprendere nuove tecniche chirurgiche inventate nell’Alta Scuola della città, e ne ha approfittato per frequentare gli ambienti esoterici degli alchimisti locali.

Me l’ha presentato O.M. dicendo che è un grande cultore di esoterismo alchemico. Fra gli Avennarna ce ne sono parecchi.

Mi piacciono gli Avennarna, mi sembrano molto meno incolti ed ottusi di quanto lo siano generalmente i miei stupidi connazionali.

Pensiamo che sarebbero degli ottimi alleati nella conquista del potere, non appena avremo ottenuto i mezzi alchemici per cominciarla. Fingeremo di favorirli in ogni modo, prometteremo loro la possibilità di vendicarsi della classe sacerdotale che per secoli li ha perseguitati o ha limitato i loro diritti. Così li avremo alleati nello sterminio dei nostri avversari.

Abbiamo parlato molto, io e L.E., riguardo il futuro del Veltyan, della possibilità di una rivoluzione religiosa, morale e politica della nostra società. Ovviamente gli ho detto solo le cose che conveniva dirgli. Gli ho raccontato del mio progetto di fondare un monastero di sacerdoti alchimisti nella Valle dei Gigli, con una scuola di alchimia che fosse aperta anche ai seguaci di altre religioni. Lui crede che io sia un seguace della religione ufficiale, perché naturalmente non ho minimamente accennato al Culto Segreto Antidiluviano da me fondato, e non glielo rivelerò a meno che io non scopra in lui la capacità di accogliere i princìpi della nostra dottrina.

Gli ho prospettato la possibilità di creare una colonia aventry nella Valle dei Gigli, dove i seguaci della sua religione potrebbero vivere godendo della totale libertà, ed eventualmente un giorno fondare un piccolo stato indipendente. Gli ho fatto notare come le superstizioni che circondano quel luogo così isolato sarebbero state una valida protezione contro qualsiasi abuso da parte del governo del Veltyan. L’idea lo ha affascinato.

È stato mentre conversavo con lui, che mi è nata l’idea di rendere gli Avennarna nostri alleati quando si tratterà di rovesciare il governo del regno. Anche se non gli ho rivelato i miei progetti di rivoluzione, gli ho fatto capire di far parte di un segreto movimento religioso che aspira a una riforma delle leggi del paese.

Sapendo che sono amico di O.M., che è molto vicino al Magistero, L.E. si è convinto che i miei non sono solo vuoti sogni velleitari.

Quando verrà il nostro momento, troveremo tutti gli Avennarna dalla nostra parte. Sarà facile abbindolarli con false promesse. Poi, quando il nostro potere sarà stato stabilito, ci disferemo di loro come di tutti coloro che seguono idee contrarie alla nostra dottrina di vita.

Certo, sono migliori delle gerarchie del culto di Sil. Non è una virtù da sottovalutare, quella di credere nel potere della ragione e della conoscenza e di opporsi alle superstizioni della religione tradizionale. Ma questa loro esaltazione della pace e della nonviolenza, questo loro considerare l’ambizione terrena come qualcosa di immorale e sbagliato, li rende poi dannosi alla nostra causa.