mercoledì 25 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 316° pagina.


Fu quel pensiero, che mi fece gelare ulteriormente il sangue. Stavo udendo un grido che varcava gli abissi del tempo, un grido che era stato lanciato non solo innumerevoli anni prima che io nascessi, ma prima che nascesse tutto ciò che conoscevo.

Ma ancora più impressionante fu quello che seguì dopo. La Fenice prese a cantare, con una voce che non era una voce, era una melodia prodotta da uno strumento sconosciuto, anzi, da più strumenti sconosciuti. E nello stesso tempo, era formata da parole.

Non capivo cosa cantava, ma quella melodia arrivava al cuore dritta come una freccia, e lo faceva sanguinare.

Non ho mai ascoltato niente di più bello, perché quella musica aveva il potere di evocare sentimenti, ricordi, emozioni come non aveva mai potuto farlo nessuna melodia umana, e nemmeno fatata.

Un’antica leggenda del regno di Khaam diceva che il mondo era cominciato quando la Fenice, posandosi su di una collina emersa dall’Abisso delle acque originarie, dall’Oceano del Caos infinito, aveva cominciato a cantare, e con la sua canzone aveva creato la luce e la vita dove prima c’era solo buio e fango che affiorava dalle acque oscure.

E forse era proprio così, perché quel canto era così potente, così bello e seducente, che piegò il mio volere senza possibilità di scampo.

Quella melodia, ascoltata nello splendido scenario dell’arcaica megalopoli, suscitò in me un sentimento nuovo e potentissimo, un’emozione senza nome. Cosa fosse esattamente, non lo so dire neanche adesso. Era una specie di dolcissima malinconia, che dava sofferenza e gioia immense allo stesso tempo. E insieme era una struggente nostalgia di qualcosa di antico e perduto, qualcosa che mi chiamava con voce imperiosa, inappellabile.

Fui assalito dai ricordi della mia infanzia, i molti dolorosi e i pochi felici, pieni di speranza per un futuro migliore che non era mai arrivato. Mi sentii tornare bambino, mi sembrava di provare gli stessi sogni, le stesse ingenue aspirazioni dell’infanzia, e sentii uno struggente desiderio di tornare alle mie origini, a quell’infanzia perduta e improvvisamente ritrovata.

La Fenice aveva usato su di me un incantesimo a cui non avevo potuto resistere.

Fu la stessa forza del mio cuore che mi riportò indietro, al mio corpo visibile e al mio mondo, fu il desiderio di tornare dentro me stesso, o meglio di ritrovare il nucleo primo del mio essere. Almeno, solo così posso descrivere quel sentimento indefinibile che provai in quei pochi istanti.

 Il piccolo Uomo che ero io e nient’altro, questo volevo essere. Eppure in quei momenti mi sembrava di essere l’universo intero, come se racchiuso dentro il mistero del mio cuore ci fosse tutto quello che avrei dovuto cercare e possedere.

Mi sentii trasportare in una galleria buia a grandissima velocità, come attratto da un vortice, da una corrente velocissima. Non vidi niente del mio viaggio di ritorno, anche se mi parve di scorgere, in rapidissima successione e  a ritroso, tutti i luoghi che avevo visto in volo.

Mi ritrovai sull’erba del campo con i morenti fuochi del belk, mentre comparivano le prime luci dell’alba. Mi sentivo malissimo, debole come un neonato, non riuscivo neanche a muovere le braccia e le gambe, tantomeno ad alzarmi in piedi. I miei compagni di orgia se ne stavano anch’essi distesi, nudi ed inerti, alcuni abbracciati in coppia, altri da soli, sparpagliati in tutto il campo. Le Fate se ne erano andate, e anche i Sileni. Rimanevano solo i bianchi corpi degli Uomini, maschi e femmine, mentre le  ultime fiamme morivano, forse ancora persi nelle loro visioni notturne.

Il sacerdote e la sacerdotessa invece se ne stavano seduti insieme sull’erba, rivestiti delle loro tuniche nere e dorate, accanto alla panchina di legno che era servita da altare per la cerimonia della Cena Sacra. Aspettavano il risveglio dei partecipanti per dare loro il commiato, con l’ingiunzione di non parlare a nessuno di quello che era avvenuto durante il rito.

Ma a me non me ne importava niente né degli altri, né dei sacerdoti. Sentivo solo questa struggente nostalgia, questo dolore senza fine e questa brama altrettanto infinita di rivedere lo splendore e la gloria inimmaginabili di Irhyel, l’ebbrezza esaltante della libertà, che avevo goduto per un periodo che mi pareva sia infinito che brevissimo.

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