Fu quel pensiero, che
mi fece gelare ulteriormente il sangue. Stavo udendo un grido che varcava gli
abissi del tempo, un grido che era stato lanciato non solo innumerevoli anni
prima che io nascessi, ma prima che nascesse tutto ciò che conoscevo.
Ma ancora più
impressionante fu quello che seguì dopo. La Fenice prese a cantare, con una
voce che non era una voce, era una melodia prodotta da uno strumento
sconosciuto, anzi, da più strumenti sconosciuti. E nello stesso tempo, era
formata da parole.
Non capivo cosa
cantava, ma quella melodia arrivava al cuore dritta come una freccia, e lo
faceva sanguinare.
Non ho mai ascoltato
niente di più bello, perché quella musica aveva il potere di evocare
sentimenti, ricordi, emozioni come non aveva mai potuto farlo nessuna melodia
umana, e nemmeno fatata.
Un’antica leggenda del
regno di Khaam diceva che il mondo era cominciato quando la Fenice, posandosi
su di una collina emersa dall’Abisso delle acque originarie, dall’Oceano del
Caos infinito, aveva cominciato a cantare, e con la sua canzone aveva creato la
luce e la vita dove prima c’era solo buio e fango che affiorava dalle acque
oscure.
E forse era proprio
così, perché quel canto era così potente, così bello e seducente, che piegò il
mio volere senza possibilità di scampo.
Quella melodia,
ascoltata nello splendido scenario dell’arcaica megalopoli, suscitò in me un
sentimento nuovo e potentissimo, un’emozione senza nome. Cosa fosse
esattamente, non lo so dire neanche adesso. Era una specie di dolcissima
malinconia, che dava sofferenza e gioia immense allo stesso tempo. E insieme
era una struggente nostalgia di qualcosa di antico e perduto, qualcosa che mi
chiamava con voce imperiosa, inappellabile.
Fui assalito dai
ricordi della mia infanzia, i molti dolorosi e i pochi felici, pieni di
speranza per un futuro migliore che non era mai arrivato. Mi sentii tornare
bambino, mi sembrava di provare gli stessi sogni, le stesse ingenue aspirazioni
dell’infanzia, e sentii uno struggente desiderio di tornare alle mie origini, a
quell’infanzia perduta e improvvisamente ritrovata.
La Fenice aveva usato
su di me un incantesimo a cui non avevo potuto resistere.
Fu la stessa forza del
mio cuore che mi riportò indietro, al mio corpo visibile e al mio mondo, fu il
desiderio di tornare dentro me stesso, o meglio di ritrovare il nucleo primo
del mio essere. Almeno, solo così posso descrivere quel sentimento indefinibile
che provai in quei pochi istanti.
Il piccolo Uomo che ero io e nient’altro,
questo volevo essere. Eppure in quei momenti mi sembrava di essere l’universo
intero, come se racchiuso dentro il mistero del mio cuore ci fosse tutto quello
che avrei dovuto cercare e possedere.
Mi sentii trasportare
in una galleria buia a grandissima velocità, come attratto da un vortice, da
una corrente velocissima. Non vidi niente del mio viaggio di ritorno, anche se
mi parve di scorgere, in rapidissima successione e a ritroso, tutti i luoghi che avevo visto in
volo.
Mi ritrovai sull’erba
del campo con i morenti fuochi del belk,
mentre comparivano le prime luci dell’alba. Mi sentivo malissimo, debole come
un neonato, non riuscivo neanche a muovere le braccia e le gambe, tantomeno ad alzarmi
in piedi. I miei compagni di orgia se ne stavano anch’essi distesi, nudi ed
inerti, alcuni abbracciati in coppia, altri da soli, sparpagliati in tutto il
campo. Le Fate se ne erano andate, e anche i Sileni. Rimanevano solo i bianchi
corpi degli Uomini, maschi e femmine, mentre le
ultime fiamme morivano, forse ancora persi nelle loro visioni notturne.
Il sacerdote e la
sacerdotessa invece se ne stavano seduti insieme sull’erba, rivestiti delle
loro tuniche nere e dorate, accanto alla panchina di legno che era servita da
altare per la cerimonia della Cena Sacra. Aspettavano il risveglio dei
partecipanti per dare loro il commiato, con l’ingiunzione di non parlare a
nessuno di quello che era avvenuto durante il rito.
Ma a me non me ne
importava niente né degli altri, né dei sacerdoti. Sentivo solo questa
struggente nostalgia, questo dolore senza fine e questa brama altrettanto
infinita di rivedere lo splendore e la gloria inimmaginabili di Irhyel,
l’ebbrezza esaltante della libertà, che avevo goduto per un periodo che mi
pareva sia infinito che brevissimo.
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