domenica 22 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 313° pagina.


nel mare vicino, che ora invece il deserto aveva fatto ritrarre fin oltre l’orizzonte ad oriente. Quella era stata la capitale del mondo in quel passato perduto da milioni di anni, in cui sulla Madre Terra avevano camminato, e volato, solo i Geni semidivini. E in quella Kellur antica oltre a loro solo i Tritoni antichi avevano vissuto nelle acque degli oceani, dei fiumi e delle paludi, cedendo il posto di dominatori del mondo a coloro che vivevano sulla terraferma.

Quanto era durato il loro dominio, e fin dove si era spinto?L’impero dei Giganti durò ottomila anni, secondo gli antichi testi sacri, ma il dominio dei Geni deve essere durato immensamente di più, centinaia di secoli, forse migliaia. Forse milioni di anni.

E così grande e splendente, così duratura era stata la gloria di Irhyel, che il tempo non aveva potuto cancellarla del tutto. Non aveva potuto consumare le sue piramidi, né abbattere del tutto le sue torri e i suoi colonnati, né le sabbie del deserto avevano potuto seppellire completamente le sue mura e i suoi palazzi. E sotto le sabbie, lo sapevo, rimaneva intatto gran parte del suo immenso corpo, nelle sale catacombali, nei dedali di gallerie in cui uno della stirpe umana potrebbe solo perdersi per andare incontro a una morte orribile nel buio. Preda di chissà quali fantasmi.

Ancora adesso che ci penso, un brivido mi assale pensando alla mia incoscienza temeraria che si era addentrata in quelle gallerie, e si era persa nella contemplazione delle immense sale sotterranee dove giacevano gli antichi sovrani e nobili del popolo dei Geni, sotto le enormi statue d’oro e di platino che li rappresentavano.

I predoni del deserto non erano stati capaci di raggiungerle, a causa dei terrori superstiziosi che avvolgevano le rovine come un eterno bozzolo protettivo.

Forse, la fine di Kellur avrebbe sorpreso le catacombe di Irhyel come le avevo viste io, intatte e perenni.

Ora che vedevo Irhyel com’era, comprendevo molte più cose del suo passato. Le antiche leggende misteriche dicevano che i Geni avevano avuto commercio con l’Altrove, prima di giungere alla loro finale rovina. Ma ora vedevo che quei rapporti erano stati immensamente più intensi di quanto io avrei mai potuto immaginare.

L’intera megalopoli era stata una gigantesca porta sull’Altrove, su infiniti mondi ignoti.

Un’immensa struttura alchemica che era un porto verso l’ignoto infinito. Il segreto che avevo cercato invano fra le sue rovine, e della cui esistenza ero convinto, ora mi appariva nella sua verità. E tale mistero infatti aveva la sua chiave non nei sotterranei, ma proprio in superficie, fra le rovine che emergevano dalle sabbie.

Dovevo solo osservare meglio quelle porte triangolari, capire come fossero fatte, di quali sostanze erano composte, come venivano costruite, come funzionavano, e il potere assoluto sarebbe stato mio!

Ma mentre osservavo una di esse, una delle più grandi, un altro essere prodigioso sorse da essa, distraendomi con la sua magnificente apparizione. Era il più stupefacente di tutti, avvolto di uno splendore e bellezza indescrivibili.

Aveva l’aspetto di un uccello, ma che uccello! Pareva una sorta di incrocio fra un ‘aquila, un pavone e un fenicottero, e splendeva di luce propria come una fiamma vivente. La luce promanva dalle sue piume, dalle sue ali e dalla sua coda come un manto di fiamme bianche. Anzi, era il manto delle sue piume che pareva fatto di fiamme.

Una cresta di fiamme più lunghe usciva dalla sommità della sua testa. Il becco ricurvo, simile a qullo di un’aquila ma più sottile e gli artigli parevano fatti di oro purissimo, il piumaggio di fiamme bianche, mutava sugli orli frastagliandosi in mille piccole iridi multicolori. I suoi occhi, invece, erano grandi pozzi neri. Rotondi, immensi, completamente neri come due sfere di lucido giaietto

La sua coda sembrava la scia di una cometa o di una meteora, fatta di lunghissime piume ondeggianti, come serpenti di fuoco, ognuna delle quali terminava con una punta a forma di foglia multicolore, in cui compariva un grande occhio di un nero lucente. E quegli occhi non erano semplicemente un disegno del piumaggio, erano occhi veri, che sbattevano le palpebre, e sembravano guardare in tutte le direzioni. Dovevano essercene una dozzina.

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