nel mare vicino, che
ora invece il deserto aveva fatto ritrarre fin oltre l’orizzonte ad oriente.
Quella era stata la capitale del mondo in quel passato perduto da milioni di
anni, in cui sulla Madre Terra avevano camminato, e volato, solo i Geni
semidivini. E in quella Kellur antica oltre a loro solo i Tritoni antichi
avevano vissuto nelle acque degli oceani, dei fiumi e delle paludi, cedendo il
posto di dominatori del mondo a coloro che vivevano sulla terraferma.
Quanto era durato il
loro dominio, e fin dove si era spinto?L’impero dei Giganti durò ottomila anni,
secondo gli antichi testi sacri, ma il dominio dei Geni deve essere durato
immensamente di più, centinaia di secoli, forse migliaia. Forse milioni di
anni.
E così grande e
splendente, così duratura era stata la gloria di Irhyel, che il tempo non aveva
potuto cancellarla del tutto. Non aveva potuto consumare le sue piramidi, né
abbattere del tutto le sue torri e i suoi colonnati, né le sabbie del deserto
avevano potuto seppellire completamente le sue mura e i suoi palazzi. E sotto
le sabbie, lo sapevo, rimaneva intatto gran parte del suo immenso corpo, nelle
sale catacombali, nei dedali di gallerie in cui uno della stirpe umana potrebbe
solo perdersi per andare incontro a una morte orribile nel buio. Preda di
chissà quali fantasmi.
Ancora adesso che ci
penso, un brivido mi assale pensando alla mia incoscienza temeraria che si era
addentrata in quelle gallerie, e si era persa nella contemplazione delle
immense sale sotterranee dove giacevano gli antichi sovrani e nobili del popolo
dei Geni, sotto le enormi statue d’oro e di platino che li rappresentavano.
I predoni del deserto
non erano stati capaci di raggiungerle, a causa dei terrori superstiziosi che
avvolgevano le rovine come un eterno bozzolo protettivo.
Forse, la fine di
Kellur avrebbe sorpreso le catacombe di Irhyel come le avevo viste io, intatte
e perenni.
Ora che vedevo Irhyel
com’era, comprendevo molte più cose del suo passato. Le antiche leggende
misteriche dicevano che i Geni avevano avuto commercio con l’Altrove, prima di
giungere alla loro finale rovina. Ma ora vedevo che quei rapporti erano stati
immensamente più intensi di quanto io avrei mai potuto immaginare.
L’intera megalopoli
era stata una gigantesca porta sull’Altrove, su infiniti mondi ignoti.
Un’immensa struttura
alchemica che era un porto verso l’ignoto infinito. Il segreto che avevo
cercato invano fra le sue rovine, e della cui esistenza ero convinto, ora mi
appariva nella sua verità. E tale mistero infatti aveva la sua chiave non nei
sotterranei, ma proprio in superficie, fra le rovine che emergevano dalle
sabbie.
Dovevo solo osservare
meglio quelle porte triangolari, capire come fossero fatte, di quali sostanze
erano composte, come venivano costruite, come funzionavano, e il potere
assoluto sarebbe stato mio!
Ma mentre osservavo
una di esse, una delle più grandi, un altro essere prodigioso sorse da essa,
distraendomi con la sua magnificente apparizione. Era il più stupefacente di
tutti, avvolto di uno splendore e bellezza indescrivibili.
Aveva l’aspetto di un
uccello, ma che uccello! Pareva una sorta di incrocio fra un ‘aquila, un pavone
e un fenicottero, e splendeva di luce propria come una fiamma vivente. La luce
promanva dalle sue piume, dalle sue ali e dalla sua coda come un manto di
fiamme bianche. Anzi, era il manto delle sue piume che pareva fatto di fiamme.
Una cresta di fiamme
più lunghe usciva dalla sommità della sua testa. Il becco ricurvo, simile a
qullo di un’aquila ma più sottile e gli artigli parevano fatti di oro
purissimo, il piumaggio di fiamme bianche, mutava sugli orli frastagliandosi in
mille piccole iridi multicolori. I suoi occhi, invece, erano grandi pozzi neri.
Rotondi, immensi, completamente neri come due sfere di lucido giaietto
La sua coda sembrava
la scia di una cometa o di una meteora, fatta di lunghissime piume ondeggianti,
come serpenti di fuoco, ognuna delle quali terminava con una punta a forma di
foglia multicolore, in cui compariva un grande occhio di un nero lucente. E
quegli occhi non erano semplicemente un disegno del piumaggio, erano occhi
veri, che sbattevano le palpebre, e sembravano guardare in tutte le direzioni.
Dovevano essercene una dozzina.
Nessun commento:
Posta un commento