venerdì 20 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 311° pagina.


tracimavano dai balconi e dai ponti splendenti, e riempivano l’aria di mille profumi, mentre la musica si propagava dalle ampie piazze cristalline.

Irhyel, sulla cui gloria perduta piange la stessa Madre Terra, di cui andava orgogliosa più di ogni altra sua bellezza.

Irhyel, che era sorta superba e magnificente nei tempi remotissimi di ere interminabili, quando il Deserto Rosso era stato una pianura fiorente e piena di vita, e le rive del mare ne avevano sfiorato i palazzi e le vie piene di gente felice ed altera.

Irhyel, il sogno di ogni sognatore, poiché ogni sognatore vorrebbe poterla rivedere come era un tempo. E lo sognavo anche io, ma il mio sogno era ancora più ambizioso. Perché io sogno di ricostruire una nuova Irhyel nella gloria che fu, e che sarà ancora un giorno.

E volando sopra il deserto, l’ho vista avvicinarsi all’orizzonte, come uno scheletro abbandonato sulle sabbie così come mi è apparsa tanti anni fa.

Eppure, nello stesso tempo, mi è apparsa diversa da quella prima volta che, condottovi là dai nomadi del deserto, l’ho vista dall’alto di una collina, campo sterminato di rovine incolori sepolte dalla sabbia rosso-rosata. Ora vedevo il suo lato invisibile, il lato che non avevo potuto contemplare, ma solo udire, durante la mia prima visita.

E questa volta, il reverente timore che avevo provato con gli occhi del corpo fisico, divenne subito terror panico, paura di ciò che stavo scoprendo.

La prima volta avevo vagato fra le rovine nella luce del giorno, e mi ero spinto con un coraggio che rasentava l’incoscienza nelle sterminate catacombe nascoste sotto la città proibita. Credo che in quel giorno la passione per la scoperta mi ha reso inconsapevole dei rischi che correvo ad avventurarmi nel buio millenario delle gallerie e delle sale sotterranee di quel luogo dimenticato dagli Dei.

La prima volta, io avevo solo avvertito le Presenze, che per me erano state invisibili, ora invece non erano più tali.

Ora io li vedevo. Coloro che avevo solo percepito nel buio, nei sussurri del vento intriso di sabbia rossa, nei bisbiglii che mi era parso di ascoltare nelle nere gallerie, nei misteriosi bagliori verdazzurri che avevo scorto in fondo a profonde gallerie dove mi era sembrato di vedersi agitare delle misteriose ombre nere.

Ora li vedevo, sotto la luce della luna piena, vagare tra le rovine, come mostruosi fantasmi evanescenti, eppure non certo nebulosi. Li vedevo molto chiaramente nei loro particolari.

Se fossero spiriti non so dirlo, se appartenessero al presente o solo a un lontano passato nemmeno, ma erano esseri reali. Spaventosamente reali, ed alieni a tutto il nostro mondo. Ed erano schiere innumerevoli, inconcepibilmente numerosi in quelle sterminate rovine.

Inoltre, erano di molte varietà e forme. C’erano gli antichi Elfi della Luce, i Geni, che prima non avevo mai avuto il privilegio di poter vedere se non in qualche antico affresco o miniatura del lontano Oriente, perché forse nel nostro mondo non esistono più. Alti, imponenti, possenti e superbi, sia maschi che femmine, dalle chiome di fiamma e dagli occhi lucenti come monete d’oro e smeraldo, dalle vesti ingioiellate e diademi a forma di serpenti d’argento sul capo, ben diversi dai loro umili cugini di oggi: i bassi e tozzi Elfi delle Tenebre, cioè i Nani e le fragili Fate, gli Elfi del Crepuscolo.

Credo di averli visti com’erano quando la città era viva e vitale, avanzare alteri e primevi in quelli che erano stati i loro palazzi.

Discendendo in volo sulla città, mi avvicinavo a loro, li seguivo nel loro camminare, o nel loro levitare sopra le strade e i grandi edifici, nel tentativo di poter parlare con loro, anche se mi davano una soggezione e un timore che non credo sarei mai riuscito a superare.

Ma loro nemmeno si accorsero di me. Non sapevano che io fossi là. Un abisso temporale ci separava, di migliaia e migliaia di secoli. Loro vivevano nell’Era Mediana, io nel presente. Lo spazio non esisteva più per me, ma la barriera del tempo sembrava ancora, almeno in parte, invalicabile. Potevo vedere il passato, ma non parlare con esso, tantomeno interferirvi.

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