lunedì 23 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 314° pagina.


L’essere emerse dalla porta fluttuando lentamente, in un modo in cui nessun uccello conosciuto avrebbe potuto fare. La sua era la lentezza di un vapore che si sparge nell’aria. Planava, non sbatteva le ali. Persino i suoi movimenti sembravano appartenere a un altro mondo, dove le cose avvengono in modo diverso da qui.

Emerse nella vasta piazza di fronte a una delle grandi piramidi al limitare della città, e la gente elfica che si trovava a passare di là o saliva sulle immense gradinate della gigantesca struttura, alzò tutta quanta le braccia in segno di saluto.

Guardando i suoi occhi, mi resi conto che l’uccello di fuoco bianco era un essere senziente, pensante come e più di me.

Sapevo cosa era dagli antichi testi di Edan Synair e del lontano Oriente. Si trattava dell’immortale Fenice, l’Uccello di Fuoco. La Signora della Rinascita.

Non potei trattenermi dall’osservarla nel suo lento, irreale volo, o meglio fluttuazione luminoso a mezz’aria. Fu allora che successe qualcosa che mi sconcertò e mi terrorizzò più di tutto il resto.

Da quando ero giunto tra le rovine della città perduta e le avevo viste animarsi, mi ero convinto che stavo solo guardando un passato defunto, che stavo visitando un regno di fantasmi, la visione di un passato che non esiste più, e con il quale non potevo più interferire, perché il passato è passato.

Vedevo la gente e la città come era stata, ma i Geni e gli altri esseri misteriosi non potevano vedere me, perché io appartenevo ad un’altra epoca. Tutti, immancabilmente, mi erano passati accanto senza vedermi, perché per loro io non esistevo ancora.

Tutti fuorché la Fenice.

Planando lentamente nella piazza, voltò la testa e lo sguardo proprio verso di me, come se mi vedesse. Con uno scatto improvviso atterrò, divenendo rapida quanto prima era lenta, in un solo istante.

Stando proprio di fronte alla mia eterea figura fluttuante, mi parlò nell’antica lingua dei Geni, che avevo appreso dai sacerdoti di Edan Synair, che conservano nei loro monasteri ciò che resta dell’antico sapere. La sua voce era vibrante, profonda, quasi cantilenante, e non aveva nulla di somigliante alla voce umana.

«Chi sei tu?» mi chiese.

Risposi d’istinto, senza neanche pensarci.

«Mi chiamo Aralar Alpan, della città di Prini, nel lontano regno del Veltyan. Appartengo al popolo dei Thyrsenna e sono della stirpe degli Uomini».

«Non conosco né il tuo popolo né la tua stirpe. A che mondo appartieni?».

«A questo mondo. Kellur, la Madre Terra. O almeno, il mio popolo la chiama così».

«Questo mondo per i suoi abitanti si chiama Adkin, e non vi esiste nessuna stirpe degli Uomini, né vi è mai esistita. Tu vieni dall’avvenire?Perché sei qui?».

«Sì, io vengo da un’epoca a venire, un mondo che per voi deve ancora sorgere, mentre per noi il vostro mondo è tramontato da molte ere. Sono venuto per apprendere, perché la mia epoca ha dimenticato i segreti del passato».

«Se li ha dimenticati, ci sarà senz’altro una buona ragione. Non è questo il tuo posto. Devi tornare indietro, e rimanere nel tuo mondo».

«Sono venuto per imparare il segreto delle porte verso l’Altrove, che non è più conosciuto nella nostra epoca. La mia stirpe è giovane e desiderosa di conoscere i misteri del cielo e della terra, e di ciò che vi sta oltre. Se il popolo di Irhyel ha potuto conquistare questo segreto, allora possiamo conquistarlo anche noi».

«L’ha conquistato e un giorno lo perderà, sembra, se davvero nella tua epoca lo si è dimenticato. Come vivono i Geni nel tuo remoto avvenire? Sono più felici che in questa, o lo sono di meno?».

«Nella mia epoca, non si sa neanche se esistono ancora. Alcuni dicono che siano estinti, altri che alcuni di loro vivano ancora nascosti nel deserto e sulle isole dell’oceano. La grande Irhyel è un cumulo di colossali rovine perse in mezzo a un grande deserto, ed è così da innumerevoli secoli».

«E come mai? Sai il perché di questa triste fine?».

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