L’essere emerse dalla porta
fluttuando lentamente, in un modo in cui nessun uccello conosciuto avrebbe
potuto fare. La sua era la lentezza di un vapore che si sparge nell’aria. Planava,
non sbatteva le ali. Persino i suoi movimenti sembravano appartenere a un altro
mondo, dove le cose avvengono in modo diverso da qui.
Emerse nella vasta
piazza di fronte a una delle grandi piramidi al limitare della città, e la
gente elfica che si trovava a passare di là o saliva sulle immense gradinate
della gigantesca struttura, alzò tutta quanta le braccia in segno di saluto.
Guardando i suoi
occhi, mi resi conto che l’uccello di fuoco bianco era un essere senziente,
pensante come e più di me.
Sapevo cosa era dagli
antichi testi di Edan Synair e del lontano Oriente. Si trattava dell’immortale Fenice,
l’Uccello di Fuoco. La Signora della Rinascita.
Non potei trattenermi
dall’osservarla nel suo lento, irreale volo, o meglio fluttuazione luminoso a
mezz’aria. Fu allora che successe qualcosa che mi sconcertò e mi terrorizzò più
di tutto il resto.
Da quando ero giunto
tra le rovine della città perduta e le avevo viste animarsi, mi ero convinto
che stavo solo guardando un passato defunto, che stavo visitando un regno di
fantasmi, la visione di un passato che non esiste più, e con il quale non
potevo più interferire, perché il passato è passato.
Vedevo la gente e la
città come era stata, ma i Geni e gli altri esseri misteriosi non potevano
vedere me, perché io appartenevo ad un’altra epoca. Tutti, immancabilmente, mi
erano passati accanto senza vedermi, perché per loro io non esistevo ancora.
Tutti fuorché la
Fenice.
Planando lentamente
nella piazza, voltò la testa e lo sguardo proprio verso di me, come se mi
vedesse. Con uno scatto improvviso atterrò, divenendo rapida quanto prima era
lenta, in un solo istante.
Stando proprio di
fronte alla mia eterea figura fluttuante, mi parlò nell’antica lingua dei Geni,
che avevo appreso dai sacerdoti di Edan Synair, che conservano nei loro
monasteri ciò che resta dell’antico sapere. La sua voce era vibrante, profonda,
quasi cantilenante, e non aveva nulla di somigliante alla voce umana.
«Chi sei tu?» mi
chiese.
Risposi d’istinto,
senza neanche pensarci.
«Mi chiamo Aralar
Alpan, della città di Prini, nel lontano regno del Veltyan. Appartengo al
popolo dei Thyrsenna e sono della stirpe degli Uomini».
«Non conosco né il tuo
popolo né la tua stirpe. A che mondo appartieni?».
«A questo mondo.
Kellur, la Madre Terra. O almeno, il mio popolo la chiama così».
«Questo mondo per i
suoi abitanti si chiama Adkin, e non vi esiste nessuna stirpe degli Uomini, né
vi è mai esistita. Tu vieni dall’avvenire?Perché sei qui?».
«Sì, io vengo da
un’epoca a venire, un mondo che per voi deve ancora sorgere, mentre per noi il
vostro mondo è tramontato da molte ere. Sono venuto per apprendere, perché la
mia epoca ha dimenticato i segreti del passato».
«Se li ha dimenticati,
ci sarà senz’altro una buona ragione. Non è questo il tuo posto. Devi tornare
indietro, e rimanere nel tuo mondo».
«Sono venuto per
imparare il segreto delle porte verso l’Altrove, che non è più conosciuto nella
nostra epoca. La mia stirpe è giovane e desiderosa di conoscere i misteri del
cielo e della terra, e di ciò che vi sta oltre. Se il popolo di Irhyel ha
potuto conquistare questo segreto, allora possiamo conquistarlo anche noi».
«L’ha conquistato e un
giorno lo perderà, sembra, se davvero nella tua epoca lo si è dimenticato. Come
vivono i Geni nel tuo remoto avvenire? Sono più felici che in questa, o lo sono
di meno?».
«Nella mia epoca, non
si sa neanche se esistono ancora. Alcuni dicono che siano estinti, altri che
alcuni di loro vivano ancora nascosti nel deserto e sulle isole dell’oceano. La
grande Irhyel è un cumulo di colossali rovine perse in mezzo a un grande
deserto, ed è così da innumerevoli secoli».
«E come mai? Sai il
perché di questa triste fine?».
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