giovedì 19 gennaio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 310° pagina.


come più leggere. Non saprei dire esattamente come, ma mi sembrava come se vedessi e sentissi i miei pensieri dall’esterno, come se li guardassi dentro un riflesso sull’acqua, dentro uno specchio.

Mi diressi deciso verso sud-est, verso il mare. Il mio senso dell’orientamento, già così allenato quando facevo il marinaio, si era acuito. Mi sentivo consapevole del mondo intero. Sapevo dove dovevo dirigermi per raggiungere quell’antica terra di incanto e di misteri che mi aveva tanto affascinato, e che già avevo esplorato per conoscerne i terrificanti segreti antidiluviani.

La distesa del mare meridionale sfrecciò sotto di me a una velocità spaventosa. Non sentivo niente, neanche il vento sul mio corpo umbratile. Attraversavo il mondo materiale come si attraversa un miraggio, perché le distanze e il mondo stesso erano diventati nebbia e miraggi, per il mio libero spirito.

E poi la vidi, la grande isola di Edan Synair, la più grande isola del mondo, quasi come un continente, separata da noi dal Mare Tritonico, con le sue coste dalle aride montagne rosse, muraglie di confine del grande Deserto Rosso che si stende aldilà.

Sorvolai la Terra di Khaam e le sue rovine, e passai sopra le sue grandi Piramidi, edificate dagli antichi Giganti antidiluviani, almeno settemila anni fa. Vederle dall’alto fu un’emozione ancora più grande di quando per la prima volta mi trovai a sollevarmi in volo. Ma l’emozione più grande la provai dopo. Dall’alto, si poteva vedere il disegno geometrico che le loro posizioni componevano nell’arida valle in cui erano state costruite, quando ancora era verde e fertile. La costellazione del Vegliante, detto anche il Gigante Cacciatore, risultava evidente sotto di me, sotto la luce della luna. Le stelle erano state scolpite nelle pietre della Madre Terra da un popolo che aveva voluto sfidare il tempo e gli Dei, e che in certo modo, anche se era scomparso da tempo, era riuscito nel suo intento.

I Giganti avevano preso l’immagine della costellazione che li rappresentava per trasporla in modo colossale su Kellur, per indicare che erano simili agli Dei, e che per loro il Padre Cielo non era meno accessibile della Madre Terra.

A sud delle Piramidi, si stendeva il Grande Lago Salato, privo di vita come le terre che lo circondano, incrostate di sale e di sabbia rossa, e più in là ancora, oltre una catena di basse montagne vulcaniche, si stendeva il Deserto Rosso, che occupava la maggior parte del territorio dell’isola, costellato qua e là da alcune oasi, dove si potevano vedere i fuochi degli accampamenti delle tribù nomadi che vivevano là dai tempi in cui Manowa era approdato sull’isola, sfuggendo alle acque del Diluvio.

E più in là ancora, al centro del Deserto Rosso, in un luogo dove non c’erano né oasi e nemmeno passavano le carovane dei nomadi, sia per la troppa lontananza da ogni luogo abitato, sia per paura degli spiriti che popolavano quel luogo, si ergevano le rovine della città maledetta di Irhyel, che erano già vecchie ancora prima del Diluvio, e ancora prima della nascita del dominio dei Giganti, e ancora prima che nascessero gli Uomini, e persino i Sileni.

Le rovine più antiche del mondo, che il Diluvio non aveva potuto seppellire sotto le sue ondate, poiché la leggenda diceva che persino le acque del Diluvio le avevano evitate, dicevano le vecchie che raccontavano le antiche leggende nelle tende dei nomadi davanti ai fuochi della sera, che dicevano anche che, se tutti temono la morte, la morte teme le rovine di Irhyel, poiché di fronte ad esse anche la morte può morire.

Irhyel, la città più grande e magnificente che sia mai sorta sulla Madre Terra dalla notte dei tempi, capitale dei Geni, gli Elfi della Luce, il cui potere e la cui saggezza furono più grandi ancora di quelli dei Giganti.

Irhyel, dalle mille torri d’argento e cristallo, dalle colossali statue di giada e dai balconi di smeraldo, dalle terrazze con lastre a scacchi di alabastro e ametista, dai grandi giardini pensili ornati di statue d’oro e di platino, e dalle fontane di acquamarina, costellate di statue scolpite nello zaffiro.
Irhyel dalle vetrate di rubino e ambra, dalle cupole di turchese e lapislazzuli, dalle colonne di cristallo luminoso verde, azzurro, violetto e rosa, dalle mille bolle d’oro trasparente che illuminavano la città di notte, sospese nell’aria. Irhyel, dalle cascate di fiori di ogni tipo che

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