sabato 30 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" dI Pietro Trevisan: 86° pagina.


Mentre scendeva con cautela, Maxtran notò che i gradini erano perfettamente squadrati, che si trattava di lastre infisse nel sottosuolo, ma che i movimenti del terreno le avevano parzialmente inclinate e rese instabili. Le pareti erano anch’esse fatte di pietre squadrate, in parte corrose dall’umidità, che le aveva rese parzialmente porose.

La scala comunque era ampia, e i gradini erano anch’essi molto grandi, come se fossero stati progettati per persone di statura altissima.

Scese per diversi metri, fino ad arrivare all’imboccatura di una galleria scavata nella roccia.

Una sorta di arco delimitava l’entrata, sulla sua sommità sporgeva la testa di un animale scolpita nella pietra, un animale che sembrava essere un toro, o un bufalo.

Uno scatto di terrore gli fece alzare la spada verso la scultura, quando vide un lampo rosso scaturire dai suoi occhi.

Subito dopo però si accorse che in realtà era il riflesso di due sfere di qualcosa che sembrava vetro rosso incastonate nelle cavità scolpite degli occhi, e che riflettevano la luce della sua lampada in modo sinistro.

Tirò un sospiro di sollievo, ma subito dopo gli venne un brivido alla schiena pensando che probabilmente lui era il primo essere vivente a entrare in quel luogo da prima del Diluvio.

Non era un uomo così rozzo e privo di immaginazione che si sarebbe potuto pensare. Anche lui sentiva il reverente timore per ciò che era antico e misterioso.

Quanti millenni erano passati dal tempo in cui la lastra era stata chiusa e sepolta per sigillarne il segreto? Quanta gente era passata o vissuta nei paraggi, proprio come lui e la sua famiglia, senza rendersi conto del segreto su cui camminavano?

Un altro brivido di paura gli corse lungo la schiena quando gettò uno sguardo in fondo alla galleria, e si rese conto che una luce brillava in fondo, una luce rosso-arancio, tremula, che sembrava illuminare un locale alla fine della galleria. Sembrava quasi la luce di un fuoco. Ma come poteva bruciare un fuoco in quel luogo sotterraneo dimenticato dagli Dei e sconosciuto agli Uomini da interi millenni?

Forse aveva ragione sua moglie, si disse. Forse era meglio aspettare la luce del giorno, forse era meglio chiamare qualcuno in aiuto per non affrontare da soli quella cosa sconosciuta.

Forse davvero un terrificante spirito risvegliato dal suo sonno millenario lo attendeva alla fine della galleria, e forse il dono della Fata era solo un inganno malevolo, una trappola del destino che gli avrebbe portato sciagura.

Forse era il caso di chiamare una strega, o un sacerdote, che esorcizzasse gli spiriti di quella che pareva essere una necropoli antidiluviana, o forse un tempio a una divinità sconosciuta e dimenticata.

E mentre osservava la luce che proveniva da oltre la galleria, gli parve che sullo sfondo luminoso, si stagliasse la figura di un gatto seduto sulle zampe posteriori, in attesa.

Risalì la scala gettando sguardi furtivi dietro di lui, come ad accertarsi che niente e nessuno sbucasse dal buio della galleria.

La luce della luna calante non gli era mai parsa così rassicurante e familiare.

Sua moglie, per fortuna, aveva smesso di urlare.

«Allora, padre? Hai visto qualcosa, là sotto?»

Maxtran non rispose.

«Aspetterò qua di fronte la luce del giorno, come ho detto. Poi tu andrai alla fattoria dei Ferstran e chiederai a Larsin di venire qui, digli che è una cosa importante e che forse c’è da guadagnare parecchi pentacoli».

«E tu, mentre io vado… scenderai da solo?».

«Ci devo ancora pensare…. la galleria là sotto è dritta, e sembra in buono stato. Non ci sono crolli, da quel che ho visto alla luce della lampada. Però potrebbero esserci miasmi irrespirabili. Può succedere nei luoghi sotterranei. Lasciamo che l’aria vi entri per evitare rischi. Quel posto deve essere rimasto chiuso e senz’aria dalla notte dei tempi».

LOVECRAFT 110: AUTOBIOGRAFIA AI CONFINI DELLA REALTÁ NE "LA CHIAVE D'ARG...


LOVECRAFT 110: LA CRITICA ALL'OCCULTISMO NE "LA CHIAVE D'ARGENTO".


venerdì 29 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 85° pagina.


Non c’era niente e nessuno là attorno, c’era solo il gatto che se ne stava seduto sulla lastra a guardarlo. Sembrava che la pesantissima pietra si fosse alzata e rovesciata nella notte, spinta da una forza invisibile.

Cautamente, si avvicinò all’orlo della cavità, e vide alla luce della sua lampada che c’erano dei gradini di pietra che scendevano verso quella che pareva essere una galleria sotterranea, che si spingeva sotto la Polenta Verde.

Tornò indietro, non poteva affrontare da solo quella cosa. A dire il vero, non era sicuro che potesse affrontarla neanche in compagnia.

Nel tornare lungo il sentiero che conduceva dalla Polenta Verde alla sua casa, incontrò suo padre con la spada sguainata e sua madre che reggeva un’altra lampada perenne.

«Hanno aperto la lastra!».

«Perun, sei impazzito? Perché sei corso fuori da solo?».

«Madre, quel maledetto gatto mi ha condotto alla lastra e l’ho trovata aperta! C’è un grande buco, sotto!».

«E chi è stato, ad aprirla?»

«E chi lo sa? Non c’è nessuno, là! O almeno, non ho visto nessuno. Non avete sentito anche voi quel rumore spaventoso?».

«No, nessun rumore. Tuo fratello Haral ci ha tirati giù dal letto dicendoci che tu eri scappato fuori perché avevi visto qualcosa… cosa ti è successo?».

«Ho sentito un rumore spaventoso, come se tutte le sedi dell’Orkhun venissero scoperchiate in un colpo solo. E forse è stato proprio così. Venite! Venite a vedere cosa è successo!».

Li condusse correndo alle pendici della Polenta Verde, e lì Larthi non potè trattenere un gemito di terrore, mentre a Maxtran gli cadde la spada di mano dallo stupore e non riuscì a lanciare neanche un’imprecazione.

Rimase paralizzato mentre la moglie lanciava un’invocazione a Sil, chiedendole protezione dalle divinità infere, dagli spiriti che dimoravano nelle buie profondità dell’Orkhun, la triste dimora delle anime maledette e dei Demoni Oscuri.

Perché per lei solo loro potevano essere stati gli autori di quel prodigio.

«Ho visto quella bestia, quel gatto che accompagnava la Fata ieri sera. È stato lui a condurmi qui, come per mostrarmi quello che è successo. Adesso il gatto non c’è più, ma se ne stava seduto sulla lastra, come se aspettasse che io mi avvicinassi a quella scala…..Io credo che sia stata la fata a fare questo. Ha voluto completare il suo dono, risparmiandoci la fatica di aprirlo».

«Chiunque sia stato, dobbiamo approfittare subito del favore che ci ha fatto. Andiamo a vedere!».

«Maxtran! Vuoi scendere giù adesso?».

«E quando vuoi che vada a vedere? Domani mattina? Quando magari scopriamo che hanno portato già via tutto? Come possiamo essere sicuri di cosa potrebbe succedere ancora, dopo tutto quello che è già successo?».

«Ma vuoi andare là dentro di notte? Non vuoi aspettare di poter chiamare qualcuno, domani mattina? Io non vi lascio, tu e i nostri figli, andare là sotto da soli in piena notte!».

«Allora aspetterò il giorno qui, se vuoi. Veglierò fino a quando sarà sorto il sole e poi scenderò io da solo, se necessario! Non voglio che qualcuno entri là dentro prima di me. Devo sapere io per primo cosa abbiamo trovato».

«Sei ostinato e avido! Non te ne verrà nulla di buono!».

«Puoi dire quello che vuoi! Ho più paura di chi potrebbe rubarci ciò che ci appartiene, di qualsiasi spirito!».

Con un gesto di rabbia, le strappò la lampada perenne e prese a scendere i gradini della scala di pietra.

La moglie gli urlò dietro, in preda a una scenata isterica in cui invocava la protezione divina contro gli spiriti dei defunti.

«Sta zitta! Voglio solo vedere dove arriva la scala! Rimango qua in vista, accidenti a te!».

Perun si sporse sui gradini per tenere d’occhio il padre, mentre la madre lo tratteneva per la tunica.

LOVECRAFT 109: LE DIFFERENZE FRA CARTER E LOVECRAFT IN "THE SILVER KEY"


giovedì 28 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 84° pagina.


Quella sera, a cena, parlò di nuovo con sua moglie e con i figli, raccomandando a tutti loro di non parlare con nessuno della loro scoperta, almeno per il momento.

Una tempesta di emozioni si agitava fra gli Akapri,  i figli erano emozionati ed agitati all’idea dei tesori che sicuramente dovevano celarsi sotto la lastra, mentre il padre cercava di raffreddare il loro entusiasmo, dicendo loro di non farsi troppe favolose aspettative su quello che avrebbero trovato, per non correre il rischio di rimanere delusi.

La madre, dal canto suo, diceva loro che la cosa più importante era ricordarsi la misteriosa frase della Fata, che sicuramente indicava che quello era un luogo sacro, e che non dovevano mancare di rispetto alle forze spirituali che lo custodivano.

Perun, quella notte, non riuscì a dormire. Continuava a pensare a come essere sicuri di riuscire a sollevare la pesante lastra incisa senza romperla a colpi di mazza. Temeva che si sarebbe dovuto chiedere l’aiuto di qualche nobile signore o di qualche potente sacerdote per ottenere una leva abbastanza potente, al quale poi si sarebbe dovuto essere riconoscenti dandogli una parte delle loro scoperte, prima ancora di sapere cosa si sarebbe potuto trovare.

Rimuginando nel proprio giaciglio, ascoltava i rumori della notte e ripensava alla Fata che era venuta a fargli quel dono ignoto, la rivelazione di un segreto che rimaneva ancora tale. Avrebbe voluto poterla cercare per chiederle di dirgli cosa c’era sotto quella maledetta lastra così antica.

Fu proprio pensando alla misteriosa Fata senza nome, che sentì in lontananza un suono che gli fece gelare il sangue.

A che cosa somigliasse, non lo avrebbe saputo dire. Sembrava un po’ l’urlo di un forte vento che uscisse da una profonda caverna o da una gola rocciosa, il rombo di un tuono, il crollo di un edificio sotto la vibrazione di un terremoto. Cominciò con un lento crescendo finché riempì l’aria, e non si riusciva a capire se fosse vicino o lontano. Poi si arrestò bruscamente, con una sorta di tonfo.

Si precipitò alla finestra, mentre anche il fratello si era svegliato. Oltre la zanzariera la luce della luna calante non mostrava assolutamente niente di diverso dal solito, anche se i due cani da guardia avevano cominciato ad ululare.

Ma anche i loro ululati erano strani, non erano i soliti latrati di rabbia, erano una sorta di lungo lamento di dolore.

Poi alla fine qualcosa di strano Perun lo notò, e lo riconobbe subito: il bagliore verdazzurro degli occhi innaturalmente fosforescenti del gatto selvatico di ieri sera, che rifletteva la luce della lampada perenne appesa sopra l’entrata di casa. Splendevano oltre la pergola delle viti dall’altra parte del cortile, e rimanevano immobili.

A quel punto, Perun disse a suo fratello di andare a svegliare i genitori mentre lui andava a prendere una lampada perenne e a correre fuori, convinto che, se c’era di nuovo lo strano gatto selvatico, doveva esserci anche la sua inquietante padrona nei paraggi.

Ma quando uscì fuori, vide il gatto allontanarsi con rapidi balzi, poi fermarsi e voltarsi verso di lui, come per vedere se lo stesse seguendo.

A piedi nudi, il ragazzo gli si avvicinò di corsa, e il gatto si allontanò di nuovo e di nuovo si fermò per guardarlo. Sembrava proprio che volesse farsi seguire. E non ci volle molto, per capire che lo stava dirigendo proprio verso la Polenta Verde.

Perun non seppe trattenersi e aspettare i familiari, e si mise a correre dietro il gatto.

Mentre correva, gli parve di sentire le grida di suo padre che lo chiamava, ma ormai tutta la sua mente era occupata solo dall’ansia di sapere se fosse successo qualcosa alla Polenta Verde.

Il gatto si fermò proprio vicino alla lastra, ma questa non si trovava più nello stesso posto in cui Perun l’aveva dissepolta quella mattina.

Era letteralmente rovesciata, accanto alla buca che aveva scavato, sulla destra. Qualcuno prima di loro l’aveva sollevata e aveva aperto la cavità sottostante.

Prima, quello che aveva provato nel sentire quel rumore era spavento, e quello che aveva sentito nel seguire il gatto era ansia, ma ora, nel vedere la lastra rovesciata, era terrore.

LOVECRAFT 108: "LA CHIAVE D'ARGENTO" COME CATARSI PSICOLOGICA


mercoledì 27 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 83° pagina.


Non aveva mai visto fiori del genere da quelle parti, e gli tornarono alla mente le misteriose parole del Saguseo che avevano incontrato nel fiume.

I fiori rossi poi gli fecero ritornare in mente i grossi gatti selvatici di Monte Leccio e in particolar modo quello che aveva accompagnato la Fata quando era giunta a casa loro, come un cane segue il suo padrone. Lei li aveva definiti i loro “guardiani”, ma non doveva trattarsi di qualcosa come dei normali cani da guardia. Anche il Saguseo aveva detto qualcosa riguardo i “guardiani”, associandoli ai fiori rossi. Doveva esserci un legame fra lui e le Fate di Monte Leccio, altrimenti non sarebbe comparso in quel momento e in quel luogo, dicendo quelle cose. Ma Maxtran non sapeva nulla riguardo i rapporti fra i Sagusei e le Fate. Sua moglie avrebbe potuto parlargliene, ma non aveva voglia di sentire le sue storie stregonesche. Ne aveva già avuto abbastanza con la faccenda di quel maledetto scialle verde.

Dopo aver dato un’occhiata intorno, anche per assicurarsi che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, cominciò a scavare per finire di disseppellire la lastra. Gli sembrava strano che un oggetto tanto antico fosse a una profondità di solo un metro. Aveva già visto, in altre lontane regioni del paese, rovine dissepolte dell’era antidiluviana, ed erano tutte sotto un profondo strato di terra pieno di detriti, perché le città e gli edifici antidiluviani erano stati sepolti da una marea di fango dopo che le terre erano riemerse dalla grande ondata di acqua marina.

Ma che si trattasse di un’opera dell’antica Età dell’Oro, prima del Diluvio, non c’era alcun dubbio. Riconosceva lo stile delle incisioni. Doveva essere la tomba di un antico re, o di un nobile guerriero, che sicuramente si era fatto seppellire con i suoi tesori.

La collina stessa doveva essere un monumento funebre a quell’antico personaggio senza nome, la cui storia doveva essere narrata sulla lastra, e che solo i  più sapienti uomini e donne del Veltyan avrebbero potuto sperare di decifrare, perché la conoscenza dell’Antica Lingua era andata in gran parte persa ancora alcuni secoli prima della fondazione del Veltyan.

Una fessura di pochi millimetri separava il bordo della lastra dalla cornice di pietra. Con il coltello che portava alla cintola, provò a scavare la terra infilata nella fessura, per rendersi conto di quanto fosse spessa la lastra. Gli parve che non lo fosse tanto, forse meno di dieci centimetri.

Con gli strumenti adatti, forse sarebbero riusciti a sollevarla e a spostarla quel tanto che bastava per entrare nel sotterraneo che sicuramente si trovava sotto. Battendola con il badile, si sentiva il vuoto sotto.

Non aveva leve adatte a quel lavoro nella sua fattoria, ma Hermen il fabbro forse avrebbe potuto fornirgliene una. Nell’esercito aveva visto adoperare le leve di rame e acciaio azzurro alchemico, che con i loro dischi di rame si attaccavano letteralmente alla roccia o ad altri materiali pesanti come potenti magneti ed erano in grado poi di sollevarli con le loro aste e catene d’acciaio duro come il diamante.

Eppure, avrebbe preferito non far sapere a nessuno della loro scoperta fino a quando non avesse capito cosa si nascondeva sotto la lastra..

Il suo terrore era di venire derubato o imbrogliato sul valore di ciò che avrebbe trovato. Il dottor Laran, con la sua grande cultura, sarebbe stata la persona adatta con cui consigliarsi. La sua onestà e la sua dirittura morale erano fuori discussione, ma l’alkati Ennari Kaper, la vecchia matriarca-borgomastrodi Arethyan, non godeva della sua fiducia.

La vecchia avida avrebbe sicuramente cercato di appropriarsi della sua scoperta, qualunque essa fosse, magari con la scusa che un ritrovamento così antico era un bene che doveva appartenere a tutta la comuinità del villaggio, e non a una singola famiglia. 

Finito di dissotterrare la lastra, ricoprì la buca con della paglia di mais, per nasconderla, e tornò a casa per riprendere la sua vita come se niente fosse, con il proposito di andare il giorno dopo dal dottor Laran a parlargliene.

In fin dei conti, riteneva giusto raccontare al dottore dello strano incontro della sera prima con la misteriosa Fata, e sentire il suo parere al riguardo.

Sperava che, con la sua grande cultura, potesse consigliarlo nel modo giusto, e magari anche valutare meglio tutta quella stranissima situazione.

LOVECRAFT 107: IL RIFIUTO DELLA MODERNITÁ NE "LA CHIAVE D'ARGENTO".


martedì 26 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 82° pagina.


S’immaginava che Larthi avrebbe di nuovo proferito qualcosa sulle sue credenze stregonesche, che avrebbe parlato di malefici e di moniti vari, e sarebbe stata l’occasione di altri litigi. Meglio ritardare il più possibile quel momento.

Quando fu l’ora di pranzo, Perun era riuscito a raggiungere il bordo della lastra, che appariva ampia all’incirca tre metri per cinque, circondata da una cornice larga una trentina di centimetri. Aveva tutta l’aria di una sorta di pietra tombale, o di una sorta di gigantesca botola per entrare in una cripta sotterranea.

Le iscrizioni sconosciute si trovavano incise soprattutto nella parte inferiore della lastra, mentre nella parte superiore c’era l’immagine di una figura umana maschile, un disegno come Perun non aveva mai visto.

Il ragazzo aveva visto gli affreschi nei tempi di Sil e degli altri Dei, una volta aveva visto i fregi di una villa nobiliare dove aveva fatto lo stalliere per qualche tempo, ma il disegno che era inciso sulla pietra era in uno stile e aveva un soggetto che non aveva niente a che fare con l’arte dei Thyrsenna.

La figura era seminuda, e appariva armata, con un elmo in testa, da cui spuntavano due corna di toro, che ricordavano una falce di luna.

Un po’ ricordava i guerrieri del nord di cui suo padre gli aveva narrato tante volte.

Ormai era ora di pranzo, e prima di tornare a casa si spogliò e si buttò nell’acqua del fiume che scorreva là accanto, per togliersi fango e sudore.

Quando la famiglia si ritrovò insieme a tavola, si parlò di cosa fare con quello che ormai veniva chiamato “il dono della Fata”.

«Sicuramente sotto la lastra si cela un tesoro. Mi sembra incredibile che solo per averle restituito lo scialle, la fata ci abbia fatto un regalo del genere».

«Sì, padre. È una storia incredibile davvero. Sia perché mi domando come abbia fatto a sapere che il suo scialle l’avevi preso tu, sia per il fatto che abbia potuto dare un segreto che forse ha un grandissimo valore, anziché tenerlo per sé».

«Le Fate non hanno il nostro stesso senso del valore delle cose», intervenne Larthi. «Loro non conoscono il valore dell’oro e delle gemme, né di tutto quello a cui noi attribuiamo tanto valore. E se vi domandate come abbia fatto a sapere che lo scialle ce l’avevamo noi, vi ricordo che le Fate sono le Custodi del Destino, nulla può rimanere nascosto su questa terra ai loro occhi, poiché tutte loro possiedono il potere di vedere ogni cosa lontana nel tempo e nello spazio come se l’avessero di fronte agli occhi».

«Vuoi dire che per quella fata il suo bel scialle verde aveva più valore di una collana d’oro e gioielli?».

«Eh sì. Cosa vuoi che se ne facciano delle nostre ricchezze, là nella foresta? Cosa se ne può fare di oro e gioielli e altri orpelli un popolo che vive in case fatte di alberi vivi e illuminate da stormi di lucciole? Le Fate sono tutt’uno con le forze e gli elementi della Natura, parlano con gli Dei tutti i giorni, non hanno bisogno di nessuna delle cose di cui abbiamo bisogno noi. I loro bisogni sono altri».

«Beh, in ogni caso non sappiamo neanche cosa ci sia sotto quella lastra. Magari non c’è niente. E non so neanche se riusciremo a sollevarla. Mi sa che dovremo spaccarla!».

«Non dire idiozie, marito mio! La lastra non va infranta! È di valore anche quella! E ricordati cosa ci ha detto la Fata: di non toccare assolutamente quello che troveremo dietro l’altare! Deve essere l’entrata di un tempio sotterraneo che si trova sotto la Polenta Verde. Dobbiamo stare attenti a non offendere la divinità a cui è dedicato il tempio».

«Sollevare quella lastra potrebbe essere un bel problema… beh, vedremo come si potrà fare. Questo pomeriggio vado io a scavare, e vediamo cosa riusciamo a scoprire».

Quando Maxtran andò a sostituire il figlio nello scavo, scoprì infatti subito qualcosa che lo colpì, e che già la sera prima aveva notato sua figlia.

Attorno alla buca c’erano alcuni gigli rossi come il sangue, ma anche più in là, nei vigneti che crescevano sulla china della collina, se ne vedevano spuntare parecchi.

LOVECRAFT 106: IL TEMA DELL'ATEISMO NE "LA CHIAVE D'ARGENTO"


lunedì 25 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 81° pagina.


Per l’incolto Perun, la cosa appariva sconcertante. Gli era stato insegnato che solo i Thyrsenna avevano una scrittura, fra tutti i popoli degli Uomini di tutta Kellur, perché tutti gli altri erano selvaggi e barbari, e non avevano nessun segno di civiltà. Solo i Nani e le Fate avevano la loro scrittura, che però tenevano segreta, nascosta agli Uomini, affinché non potessero conoscere i loro segreti.

A meno che non si trattasse di una scrittura di un passato remoto ormai scomparso, di un’epoca prima del grande Diluvio che aveva devastato la terra intera più di quattromila anni prima, cancellando regni e città e sommergendo tutto sotto strati di fango, a parte le cime delle montagne. Aveva sentito dire infatti che ogni tanto, quando si scavavano le fondamenta di case e palazzi, riemergessero antiche rovine e reperti di quel passato remoto, lontano migliaia di anni.

Reperti e rovine che erano considerate preziose da nobili e sacerdoti, che davano lustro e prestigio se conservate dentro le loro ville e i loro palazzi, o dentro i templi sia piccoli che grandi, o nei parchi nobiliari.

I contadini, invece, li consideravano in genere dei potenti talismani, e l’occasione di guadagnare un bel po’ di soldi.

Se era così, quella lastra poteva essere un oggetto di grande valore, che magari si sarebbe potuta vendere persino a uno degli Shepenna della regione, o a qualche nobile patrizio.

Quando ebbe scoperto un tratto di due metri, in modo che si potessero vedere le strane iscrizioni e anche un tratto di quello che pareva un bassorilievo inciso, corse a chiamare il padre e il fratello minore Holeis.

Quando Maxtran giunse ai piedi della Polenta Verde, era ancora scettico, ma appena vide la lastra che affiorava dentro la buca e osservò le iscrizioni, si convinse del tutto.

«Hai ragione, Perun. Io ho già visto questo tipo di scrittura, nella fortezza a nord dove ho prestato servizio per tanti anni. Il mio comandante aveva un cimelio dei tempi antichi trovato in una grotta delle Montagne Albine. Un antico vaso di bronzo che apparteneva ai tempi prima del Diluvio, forse portato lassù da qualche superstite di quell’era remota, e aveva lo stesso tipo di scrittura.

Era la Lingua Antica che ormai più nessuno parla e comprende, e che un tempo si parlava in tutto il mondo e univa tutti gli Uomini, prima che venissero divisi in molte nazioni. Era la lingua dei Giganti che conquistarono il mondo intero e lo unificarono in un unico grande impero che sfidava il dominio degli Dei. Ogni tanto affiorano reperti di quell’era antica, un po’ dappertutto, e una di questi è proprio nel nostro terreno! Per la legge ci appartiene, e possiamo venderlo per chissà quanti pentacoli d’oro!»

«Questa lastra di pietra? Non pensi che magari possano esserci cose molto più preziose sotto?».

«Speriamo! Tu continua a scavare, e per fortuna che ci troviamo in un punto lontano dalla strada, così forse nessuno ti nota mentre scavi. Di questa storia nessuno deve sapere niente, per il momento. Non vorrei che venissero a rubarci quello che potremmo trovare».

«Magari è la tomba di un antico re antidiluviano….».

«Speriamo. Una volta, uno dei miei commilitoni mi raccontò di un tumulo, una collina artificiale simile alla Polenta Verde, in una lontana regione ad occidente, che aveva una galleria che conduceva fino al centro della base, dove c’era un sarcofago, che però era vuoto, ed un altare. Diceva che chi aveva scoperto il passaggio doveva aver depredato i tesori che sicuramente si erano trovati un tempo là. Sperava di poter trovare un giorno un tumulo dello stesso tipo. E pensare che ce l’avevo io nella mia proprietà, e non ho mai pensato che potesse essere la stessa cosa di cui mi avevano narrato!».

«Se per entrare bisognerà sollevare questa lastra di pietra, non so se ce la faremo da soli….».

«Staremo a vedere. Tu continua a scavare, poi magari questo pomeriggio verrò io a darti il cambio. Questa cosa non ci deve impedire di continuare il nostro lavoro normalmente. Continueremo a vivere e lavorare come abbiamo sempre fatto, nessuno deve accorgersi di niente, intesi? Eventualmente, copriremo la buca con dei rami».

Perun riprese lo scavo, mentre il padre e il fratello tornarono al lavoro. Non andò subito da sua moglie a raccontare cosa aveva scoperto il figlio.

LOVECRAFT 105: IL TEMA DELLA RELIGIONE NE "LA CHIAVE D'ARGENTO"


LOVECRAFT 104: ANCORA RIFLESSIONI SU "LA CHIAVE D'ARGENTO"


domenica 24 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 80° pagina.


«Qui. Il mio dono è qui. È qui che dovete cercare domani mattina. Segnate il punto, e domani scavate con le vostre vanghe e i vostri picconi;  troverete una cosa che vi renderà ricchi e famosi fra gli Uomini. Ma quando sarete divenuti ricchi, vendete la terra e andate a vivere lontano da qui, e soprattutto non toccate ciò che troverete dietro l’altare per nessun motivo. È importante».

Gli Akapri si avvicinarono al punto del terreno indicato dalla Fata, e Maxtran si inginocchiò per vedere se quel punto avesse qualcosa di particolare, ma non videro niente, solo un leggero avvallamento di qualche metro di diametro.

«E cosa ci sarebbe qua sotto? Un tesoro?».

Si voltò verso la Fata, ma si accorse che era sparita. La cercarono con lo sguardo tutt’attorno, ma di lei e del suo grosso gatto selvatico non era rimasta traccia. E sì che nel buio della notte, la sua bianca figura sembrava quasi emanare un leggero chiarore. Ma né tra i vigneti, né nei campi di mais si scorgeva niente, e nemmeno si erano uditi rumori tra le pannocchie.

«Le Fate sanno rendersi invisibili quando vogliono, e fanno apparire reale qualsiasi illusione, e illusorie tutte le realtà» commentò Larthi.

Il figlio maggiore, Perun, sembrò smuovere la terra nel piccolo avvallamento, come nella speranza di trovare una traccia del segreto indicato dalla misteriosa visitatrice.

«Forse ci ha preso in giro, ma vale la pena di cercare, domani mattina….ci metto alcuni sassi per indicare il posto, così siamo sicuri di non sbagliare».

«Credi davvero di poter trovare un tesoro?».

«Qualcosa di valore, chissà…. tentar non nuoce».

«Magari invece è una trappola. Se è vero che le Fate sono le custodi del fato, esso non sempre è favorevole».

Perun continuava a guardare intorno sul terreno, quando sua sorella Ramthi, la figlia minore degli Akapri, lanciò un’esclamazione per qualcosa che aveva notato là accanto, nell’erba.

«Guarda che bei gigli rossi! Non ne ho mai visti così rossi e belli!».

Infatti, là accanto al punto indicato dalla fata, ai piedi di un albero, erano fioriti parecchi gigli rossi, che alla luce del sole sarebbero apparsi probabilmente scarlatti come il sangue, ma alla luce azzurrina della lampada perenne sembravano di un colore purpureo.

 

 

 

CAP.  IX: RELIQUIA ANCESTRALE

 

 

La mattina dopo Perun andò a scavare nel punto indicato dalla Fata, da solo, perché suo padre e suo fratello dovevano continuare a mietere il campo di mais e raccogliere le pannocchie.

Suo padre si era dimostrato abbastanza scettico, e lui gli aveva promesso che non avrebbe perso troppo tempo dietro a quella cosa. Avrebbe scavato una buca profonda un metro, e se non avesse trovato nulla, avrebbe lasciato perdere.

Durante la notte c’era stato un gran temporale, e la terra bagnata era abbastanza facile da scavare.

Dopo tre ore di lavoro, stava quasi per abbandonare l’impresa, quando la sua vanga toccò qualcosa che sembrava una lastra di pietra liscia.

Dopo un’altra mezz’ora aveva dissepolto la lastra abbastanza per capire senza ombra di dubbio che si trattava di un’opera artificiale. La cosa era dimostrata dal fatto che sulla lastra apparivano delle incisioni.

Perun sapeva leggere, anche se con fatica. Suo padre, sperando che un giorno volesse arruolarsi anche lui nell’esercito, glielo aveva insegnato, perché diceva che gli sarebbe servito per la sua carriera. Ma quelle scritte non le conosceva, sembravano appartenere a un’epoca e a una cultura sconosciute. Avevano qualche somiglianza con l’alfabeto sillabico-letterale dei Thyrsenna, ma tanti segni erano del tutto inidentificabili.

LOVECRAFT 103: I CONFLITTI INTERIORI DI H.P.L. VISTI ATTRAVERSO "LA CHIA...


LOVECRAFT 102: REALTÁ E SOGNO NE "LA CHIAVE D'ARGENTO"


sabato 23 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 79° pagina.


Lo scialle era ancora dentro la bisaccia, dove Maxtran l’aveva rimesso dopo aver litigato con la moglie.

Quando lo tirò fuori, ne rimirò per una volta gli strani, bellissimi arabeschi verdi, e non poté fare a meno di pensare alla situazione in cui si trovava.

«È assurdo…. è tutto così assurdo! Maledetto il momento in cui mi sono lasciato convincere da quello stupido di Larsin Arayan! In che razza di incubo da favola mi sono lasciato coinvolgere?».

E mentre ci rimuginava sopra, si accorse che non poteva fare a meno di pensare allo sguardo della Fata, a quegli inquietanti occhi neri in cui sembrava di sprofondare nel buio della notte.

Pensò a quello che gli avevano raccontato sulle Fate, sul fatto che leggevano nelle anime degli Uomini così come leggevano nel loro fato. L’idea che quell’essere potesse leggere nei suoi pensieri come in un libro aperto lo fece sentire nudo ed indifeso.

A quel pensiero, scattò verso il filare d’alberi, sperando che la Fata sparisse nella notte subito come era venuta. E ai demoni degli inferi il suo dono.

Rivedere il suo sguardo di pozzi neri con quelle stelle dorate in mezzo, gli procurò un tuffo al cuore peggiore della prima volta. E tra l’altro, c’era quel maledetto gatto selvatico al suo fianco.

«Ecco, Mia Signora Custode del Fato! Il tuo scialle, e che tu possa non ricomparire mai presso la mia casa!».

La Fata gli sorrise, con quella piccola bocca dalle labbra sottili, mostrando una fila di piccoli denti che sembravano quasi trasparenti, madreperlacei. Gli ricordarono il colore dei denti del Saguseo del fiume, anche se la loro forma era ben diversa.

«Ti ringrazio, Uomo. Ora posso darti il mio dono. Venite con me, e portatevi dietro le vostre lampade perenni, affinché possa mostrarvelo».

«Cosa? E dove ci vuoi portare?».

«Qui, nei vostri campi. È lì che si trova il dono per voi!».

«L’hai lasciato in mezzo ai campi? Ma che razza di regalo è?».

«È una cosa che è sempre stata là, solo che voi non lo sapevate. Il mio dono, è il farvi vedere dove si trova».

Si voltò indietro decisa e indicò con il braccio la direzione dove dovevano andare.

«Lascia venire anche le tue figlie, Uomo. Il dono è per tutti voi, ed è giusto che ci siano anche loro».

In quel momento Maxtran e la sua famiglia poterono vedere che il grosso gatto selvatico si affiancava alla Fata, strusciandole contro, e seguendola come un cane.

A circa duecento metri dalla casa degli Akapri, c’era una collinetta dove avevano piantato un vigneto.

La collinetta aveva una forma particolare; era una cupola schiacciata, perfettamente rotonda. Maxtran aveva sempre avuto il sospetto che fosse artificiale, anche se non riusciva ad immaginare chi e perché avrebbe dovuto costruire un’opera del genere.

Gli Akapri l’avevano battezzata “la Polenta Verde”, proprio perché la sua forma ricordava una polenta appena versata sul tagliere, prima di essere divisa a fette, ma verde per il colore intenso dell’erba, colore che però cambiava sul lato sud, dove crescevano le viti. Un nome che era parso quanto mai adatto anche perché circondato dai campi di mais.

Quella collina, quando lui era arrivato in quell’area incolta che nessuno prima aveva mai abitato, aveva avuto la strana caratteristica di essere del tutto priva di alberi. Vi crescevano solo erba e fiori di campo, come se nel terreno non potesse attecchire nient’altro. Solo le viti era riuscito a farci crescere, e solo sul lato meridionale.

Mentre la Fata si avviava , si era messa lo scialle sulla testa, e alla luce delle lampade perenni, parve agli attoniti contadini che quel velo in testa alla fata emanasse una vaga fluorescenza verde.

Li condusse attraverso il campo di mais che era stato appena falciato, e poi attraverso quelli dove ancora non era passata la mietitura, fino ai piedi della Polenta Verde.

Si fermò proprio al limitare del vigneto, dove cominciava il crinale, ed indicò un punto vicino ai suoi piedi.

LOVECRAFT 101: INTRODUZIONE A "LA CHIAVE D'ARGENTO"


venerdì 22 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 78° pagina.


con il candore azzurrino dei suoi capelli le dava l’aspetto di un essere dell’oltretomba, che rendeva ancora più inquietanti i suoi grandi occhi simili a pozzi neri.

A vederla, non si poteva dubitare che, come dicevano le tradizioni popolari, quell’essere avesse dimestichezza con il mondo degli spiriti e con i misteri del destino.

La Fata avanzò ancora verso di loro, e al suo fianco comparve ciò che all’inizio aveva spaventato i figli di Maxtran: uno dei grossi gatti grigio scuro di Monte Leccio.

«Non temete, è il mio gatto. È un gatto delle Fate, ed è diverso dai vostri gatti, ma è innocuo, se nessuno lo aggredisce, o non aggredisce uno dei miei».

Larthi avanzò verso di lei, sorridendo.

«È da quando ero bambina, che non vedevo una Fata. Mia madre era una loro amica, e le incontrava spesso nel bosco vicino a casa mia».

«Ricordo bene tua madre, e ricordo anche te. Una mia cugina profetizzò a tua madre che avresti fatto un buon matrimonio, e che non saresti stata più povera. Ma ora tu possiedi una cosa che appartiene a me, e che ho perduto».

«Sì, e sarò felice di restituirtela, affinché possa allontanare le disgrazie dalla mia casa!».

Maxtran, che era rimasto fino ad allora quasi paralizzato dallo stupore, si volse di scatto verso la moglie.

«Un momento! Vuoi dire che questa Fata è venuta qui solo per riprendere lo scialle che ho trovato sul monte?».

«Esattamente, Uomo. Ti ho visto prendere il mio scialle e portarlo nella tua casa. Prima, non potevo trovarlo, perché Monte Leccio ora per noi è contaminato, e in esso i nostri poteri sono limitati. Non osavo recarmi là per riprenderlo. Ma tu l’hai recuperato, e io adesso posso richiedertelo, in cambio di un favore che vi posso fare».

«Il favore che potresti farmi, è spiegarmi cosa sta succedendo. Cosa avete combinato, lassù sul monte? Cosa è successo?».

«Non ve lo posso dire. È una cosa che riguarda solo noi, di cui ci dobbiamo occupare da soli».

«Per la Luce di Sil, che io sia maledetto se la cosa non riguarda anche noi. Sono vostre, quelle bestie grige? Ci hanno fatto prendere un colpo, a me e ai miei compagni, quando siamo saliti sul monte oggi! Li avete mandati voi, ad inseguirci?».

«Non erano lì a farvi del male, loro erano lì a sorvegliare…. loro sono i nostri guardiani!».

«I guardiani di cosa? Cosa sorvegliano?».

«Non ve lo posso dire… è uno dei nostri segreti. Non dovete avere paura di loro…. Non sono loro il pericolo».

«E qual è allora, il pericolo? Quello che Hermen il fabbro ha visto qualche notte fa, forse? Perché tu sai cosa ha visto, vero?»

«Maxtran, smettila! Non puoi rivolgerti così a una Fata! Non te ne verrà niente di buono! Vuoi attirare il destino avverso su di noi?».

«Voglio sapere la verità! Lei la sa, la verità! A costo di far guerra al suo popolo, io la saprò!».

«Se insisterai, dovrò andarmene. E non potrò farvi il mio dono. Voglio solo il mio scialle, quello che ho perso all’ultimo belk, e poi vi farò il mio dono e non tornerò più a disturbarvi, a meno che non lo vogliate voi».

«Maxtran, vai a prendere lo scialle, ti prego. È l’unica cosa saggia da fare. Hai sentito? Vuole farci un dono… non avrai a pentirtene».

Il vecchio soldato lanciò un paio di imprecazioni, e si avviò verso l’entrata di casa, mentre le figlie non avevano potuto fare a meno di avvicinarsi, appena si erano rese conto della misteriosa presenza comparsa dalla notte.

«Voi state indietro!» le apostrofò.

«Padre, è una Fata! Ti prego, lascia che ci predica il futuro!».

«Non se ne parla neanche! Chi può desiderare di sapere il futuro, se può portarci disgrazie? Meglio non saperne niente, no?».

LOVECRAFT 100: IL FINALE DE "IL MODELLO DI PICKMAN"


mercoledì 20 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 77° pagina.


E quando alla fine il regno del Veltyan si era saturato di lampade perenni, i mercanti avevano cominciato a esportarle nei paesi barbari, oltre la catena delle Montagne Albine a nord, o aldilà del mare, nelle grandi isole a sud, in mezzo al Grande Oceano Meridionale.

Tanto che, a quel che si diceva, anche negli oscuri villaggi di legno del più lontano nord, in mezzo a popolazioni selvagge, brillavano nella notte le lampade perenni dei Thyrsenna, come splendenti emblemi dell’unica civiltà umana rinata su Kellur dopo che il grande Diluvio aveva sommerso tutte le terre del mondo, lasciando emergere solo le cime delle montagne.

E mentre le pannocchie venivano sgranate, Larthi narrava alla sua ultimogenita le storie antiche e di paesi lontani e mitici, leggende mescolate con la storia e oggetti, persone ed eventi reali troppo lontani nello spazio per non essere deformati dal mito.

Le narrava le storie apprese da sua madre e dalle altre donne nelle sere d’inverno, quando si filava nelle stalle, o dai Sileni amici dei contadini e dei pastori, custodi delle antiche tradizioni.

Ad un tratto, però, mentre ormai fuggivano gli ultimi bagliori del crepuscolo, Larthi sentì alcune esclamazioni dei due figli maschi, che si trovavano in quel momento presso il pollaio.

«Una volpe grigia! Maledetta!».

«Macché volpe! È troppo grosso, per essere una volpe!».

Anche Maxtran sentì le grida dei figli, e corse fuori. Si sentì sprofondare sotto i piedi, quando vide quello che i ragazzi indicavano, nel filare di ciliegi oltre il pollaio, dove si vedeva il bagliore verdazzurro di due occhi che riflettevano la luce delle lampade perenni. Un bagliore che riconobbe subito.

«L’abbiamo vista vicino al pollaio, e sul momento mi è sembrata una volpe! Che cos’è, padre?».

«Andate a prendere i forconi, e dite a vostra madre e alle vostre sorelle di chiudersi in casa. E vedete di prendere anche la mia spada!».

Non aveva ancora finito di parlare, che si accorse che dietro gli occhi luminescenti c’era un’esile figura, una silhouette nera che si stagliava accanto agli alberi, sullo sfondo degli ultimi bagliori del cielo sulla pianura.

Una voce femminile, dal timbro stranissimo e vibrante, si fece udire dal buio.

«Per favore, non abbiate paura».

In quel momento, giunse anche Larthi, che aveva ordinato alle figlie di restare presso l’entrata della casa.

Fu la prima ad accorgersi che anche nella figura nera brillavano due piccole pupille fosforescenti, ma di colore dorato. Lanciò un’esclamazione di sorpresa.

«Una Fata!».

Solo allora la figura avanzò verso la luce delle lampade perenni.

Era una donna piccola ed esile, con lunghissimi e ondulati capelli argentei, dai riflessi azzurrini, forse dovuti alla luce delle lampade. Portava una semplice tunica verde bosco senza maniche e ai piedi aveva dei sandali di legno con lacci di corda grigia, mentre al collo gli pendeva un amuleto di legno colorato, appeso a una catenina di perline colorate.

Vista di spalle sarebbe sembrata una ragazza qualunque, se non fosse stato per il colore dei capelli, ma il suo volto aveva lineamenti singolari, e i suoi occhi non avevano nulla di umano.

Erano grandi, inumanamente grandi, due enormi mandorle nere, completamente nere come lucido giaietto, in cui le pupille brillavano come due piccole monete d’oro.

Non solo nessun essere umano aveva occhi come quelli, ma neanche nessun animale.

A Maxtran tornarono in mente gli spaventosi occhi rossi e da rettile del Saguseo, che aveva visto quel pomeriggio, e pensò che neanche lo sguardo mostruoso dell’essere acquatico  riusciva ad essere inquietante come gli occhi della Fata.

Il bello è che, in tutta la sua vita, non aveva mai visto né il volto di un Saguseo, né quello di una Fata. E ora aveva visto entrambi nel giro di poche ore.
Per il resto, la Fata non aveva un aspetto particolarmente strano, a parte le orecchie, che avevano dei lobi straordinariamente allungati. La sua pelle era di un pallore spettrale, quasi bianco panna, che

LOVECRAFT 99: ANCORA SULL'ORRIDO NELL'ARTE DI PICKMAN


lunedì 18 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 76° pagina.


del Veltyan aveva sempre prevalso con la loro spietata concretezza su ogni oscuro segreto che i guerrieri thyrsen avevano incontrato, e Maxtran non sopportava che le invocazioni a oscuri malefici gettassero quella stessa ombra sulla sua tranquilla vecchiaia, che lui aveva conquistato così duramente.

Sua moglie invece si spaventava per ogni più piccolo fatto strano che succedeva in casa o nei dintorni, e questo lo irritava enormemente. Quasi malediceva il momento in cui lui e Larsin avevano parlato di quello che aveva visto dal cortile di casa sua  in quella notte di plenilunio, e l’amico gli aveva chiesto di venire con lui in cima a Monte Leccio.

Ma quando le ombre della sera erano ormai calate, anche la sua irritazione si era sbollita, e decise di rientrare in casa quando ormai la sua famiglia aveva già cenato.

Sua moglie gli aveva lasciato qualcosa in tavola, sapendo che lui, come altre volte quando litigavano, avrebbe mangiato più tardi, da solo.

Si vedevano ancora i chiarori del crepuscolo ad occidente, mentre Maxtran mangiava da solo la sua zuppa di legumi e cereali , e il suo pane di segale con il formaggio fresco di capra, i piatti più comuni sulla tavola dei contadini del Veltyan, alla luce azzurrina di una fredda lampada perenne, mentre all’esterno, alla luce di altre lampade perenni, Larthi e i suoi figli svolgevano gli ultimi compiti della fattoria prima di andare a riposare.

Per i Thyrsenna contadini, il giorno finiva quando il sole tramontava, e quindi il riposo dell’usiltin, il giorno del sole, era da considerarsi anch’esso finito. Si poteva lavorare nelle ore serali senza tema di offendere i comandamenti di Sil.

Sedute sulle panchine del cortile di fronte all’entrata, alla luce della lampada perenne appesa sopra la porta, Larthi e le due figlie sgranavano le pannocchie di mais appena raccolte, e la madre raccontava alla figlia più piccola l’antica leggenda che narrava che i primi semi di mais erano stati portati dai Giganti, venuti a bordo di una grande nave dalle lontane terre d’occidente di là dal Grande Oceano, molti secoli prima. E che quegli stessi Giganti erano gli ultimi resti degli antichi Giganti che dominavano tutta Kellur, la Madre Terra, prima del Diluvio.

Sempre secondo l’antica leggenda, la Kyrenni, la Grande Regina del Veltyan, li aveva accolti benevolmente e aveva concesso loro di vivere sulla montagna di Tituan, un antico vulcano spento, che d’allora in poi fu chiamata Montagna dei Giganti, ai confini orientali del Veltyan, ai cui piedi avevano piantato grandi campi di mais.

E ancora adesso i Giganti vivevano là, coltivando il mais e rimanendo fedeli cittadini del Regno Verde.

Quella storia Larthi l’aveva raccontata innumerevoli volte a sua figlia, la quale ogni sera pretendeva infatti che la madre gliela raccontasse di nuovo. E ogni volta la bambina diceva che un giorno, quando fosse diventata grande, sarebbe partita per la montagna di Tituan, per incontrare i Giganti.

Nel frattempo, i due figli maschi si occupavano del bestiame, e controllavano che le bestie fossero ben protette nei loro recinti e nella stalla, aggirandosi con le loro lampade perenni in mano.

Che fortuna che erano le lampade perenni, soprattutto per chi viveva in luoghi isolati. Da quando erano state introdotte più di cinque secoli prima dagli alchimisti, avevano portato un immenso beneficio a tutto il Regno Verde.

Le lampade perenni non bruciavano nessun carburante, e splendevano per secoli e secoli, anzi per millenni, senza mai esaurirsi. Infatti, pareva che nessuna lampada perenne si fosse ancora spenta, da quando erano state fabbricate le prime.

E la fonte di quella luce azzurrina e costante era semplicemente una lamina di piombo avvolta attorno a un cilindro di vetro e rame alchemici, che trasformavano la sostanza del piombo in parte in pura luce, mentre ciò che ne restava diventava particelle d’oro, con un processo lentissimo che sarebbe durato appunto millenni, finché alla fine tutte le lampade perenni si sarebbero spente non appena il piombo fosse diventato tutto oro. In quei giorni, l’oro non sarebbe costato più niente. In compenso, anche i più poveracci avrebbero potuto possedere ornamenti d’oro, perché ormai erano state prodotte così tante lampade perenni che anche la più misera fattoria nell’angolo più depresso e solitario del regno, aveva le sue lampade perenni, magari vecchie di secoli.

LOVECRAFT 98: IL MITO DEI GHOUL NE "IL MODELLO DI PICKMAN"


domenica 17 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 75° pagina.


portico! Vi ho ascoltati parlare del Saguseo che avete incontrato nel fiume, e di quello che ha detto! Ha parlato dello stare attenti ai fiori rossi, e ha parlato anche dei guardiani…. Voi non potevate sapere niente di essi, perché non avete mai avuto a che fare con i segreti delle streghe. Ma io sì! Devi tornare su Monte Leccio e portare un talismano con te, che ti protegga dai demoni dell’ombra! E se non lo farai tu, lo farò io domattina! Costi quel che costi!».

Rimasero a litigare per diversi minuti. Più Maxtran cercava di farsi spiegare di cosa stesse parlando sua moglie, più lei si mostrava evasiva. Faceva capire che aveva paura di qualcosa che non poteva rivelare pienamente, qualcosa che riguardava i segreti iniziatici delle streghe, qualcosa che non doveva rivelare perché sarebbe venuta meno a un giuramento fatto a sua madre.

Alla fine Maxtran si stancò.

«Su quel maledetto colle non ci risalirò né io, né tu, né nessun altro della nostra famiglia! Almeno fino a quando quelle maledette bestie bazzicheranno quel posto! E siccome ho trovato io quel pezzo di stoffa, decido io cosa farne! Come per tutto quello che riguarda  le cose che sono mie».

Larthi non provò più a supplicarlo. Sapeva che non ci sarebbe riuscita. Quando parlava delle “cose sue”, diveniva di un’ostinazione assoluta, invincibile, che rasentava la violenza. In quei momenti, spesso, le faceva paura.

Per tutti gli anni di matrimonio, lui le aveva fatto pesare, in tutte le discussioni, il fatto che la loro casa e il loro terreno, fossero proprietà innanzitutto sue, e non di lei, contrariamente alla stragrande maggioranza delle famiglie contadine del Veltyan. Così come le aveva fatto sempre pesare il fatto che lei non avesse beni propri, perché veniva da una famiglia poverissima. La loro, si poteva dire, era una delle poche famiglie in certo modo patriarcali del paese.

Ciò che dava qualche diritto anche a lei, era solo il loro matrimonio legale, una cosa che lui aveva voluto concederle dicendo che era per dimostrare la sua magnanimità e il suo rispetto per il ruolo tradizionale della donna.

In realtà, lui aveva sempre saputo che nessuna donna avrebbe accettato di vivere in una casa in cui, per la legge, era solo un’ospite, con il rischio che qualche parente donna venisse da lontano e facesse in modo di buttarla fuori di casa. Quindi, il matrimonio era l’unico modo per lui per poter avere una donna in casa.

Ma proprio per questo fatto, appena lei cercava di opporsi in qualche modo al marito, lui le rinfacciava ciò che aveva fatto per lei, tutto ciò che le aveva dato, e senza il quale lei sarebbe rimasta una nullatenente, costretta a fare la serva nella fattoria di qualcun altro.

E quando questo succedeva, lei si ritirava in un angolo della casa e praticava i riti e gli scongiuri che la madre le aveva insegnato. Era il suo modo per reagire al senso di impotenza, e a volte otteneva il suo risultato, perché, che ci si credesse o no, avvenivano a volte delle cose, apparentemente casuali, che mutavano la bilancia in suo favore.

Le prime volte  Maxtran aveva reagito infuriandosi per le sue strane pratiche magiche, ora invece si rassegnava. La mandava ai demoni oscuri, e andava a fare qualcosa fuori, nel fienile o nella capanna degli attrezzi dietro casa.

Quella volta, lei si ritirò in cucina e tirò fuori un amuleto lasciatogli da sua madre: uno strano ciondolo a medaglione di ceramica dipinta di verde, che da un lato aveva l’immagine di una civetta, e sull’altro quella di un gatto, entrambi considerati animali sacri dalle streghe.

Quella sera, Maxtran non volle venire a cena, rimanendo presso il fienile, esercitandosi al tiro con l’arco. Segno che era davvero infuriato.

Non era tanto il fatto che sua moglie avesse rifiutato il suo dono ad averlo reso furioso, quanto piuttosto il sentirsi impotente di fronte a qualcosa che non capiva.

Nella sua lunga carriera di soldato, aveva visto molte cose strane, sorvegliando i confini del Veltyan dalle fortezze delle montagne settentrionali, che separavano il Regno Verde dai paesi barbari del nord.
Le oscure e feroci leggende dei selvaggi popoli settentrionali avevano fatto sentire la loro ombra in quei luoghi agli estremi confini della civiltà, dove sinistri sacerdoti dalle lunghe barbe bianche praticavano culti spaventosi nel profondo di antri sotterranei. Ma la forza delle spade e degli archi

LOVECRAFT 97: "IL MODELLO DI PICKMAN" OVVERO L'ORRORE NELL'ARTE


sabato 16 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 74° pagina.


«Vorrà dire che rimarremo a pescare sul fiume io e te, Hermen, mentre loro due andranno dall’eremita. Li aspetteremo sul tratto di fronte al monte, e controlleremo se per caso non tornerà il Saguseo».

«Va bene… ma secondo me dovremmo avvertire i gendarmi».

«Per che cosa? Per dirgli che sul Monte Leccio c’è una strana invasione di gatti selvatici?».

«Io veramente volevo dirgli che si svolgeva il belk, su Monte Leccio».

«Il sistema migliore per spaventarli e convincerli a starne lontani. I nostri gendarmi appena sentono parlare delle Fate se la fanno sotto dalla paura».

«Io credo che se la farebbero sotto anche se vedessero quei maledetti gatti….».

Quando se ne furono andati, Maxtran mostrò a sua moglie Larthi lo strano scialle fatato, dicendole dove l’aveva trovato, ma senza fornirle troppi particolari.

Larthi lo guardò dapprima esterrefatta, poi lo prese in mano e ne osservò i complessi e delicati arabeschi verdi e motivi di foglie di vite e grappoli, soffermandosi sui giochi di cerchi intersecantisi.

«Maxtran, noi non possiamo tenere questa roba! E tanto meno io e le mie figlie possiamo indossarla! È un oggetto fatato, e porta sventura se non ci è stato donato espressamente da una Fata!».

«E allora lo venderò!».

«Ma neanche per sogno! Faresti ancora peggio, perché poi non potresti riparare al danno! Devi portarto prima possibile dove l’hai trovato e lasciarlo là!».

«Non farò una stupidaggine del genere! Le Fate l’hanno lasciato nel bosco, potevano fare a meno di abbandonarlo! Non l’ho mica rubato!».

Larthi gli avvicinò lo scialle, mostrandogli gli strani cerchi intersecantisi.

«Li vedi questi cerchi? Sono una specie di scrittura…. scrittura fatata. Scrittura magica. Mia madre era una strega. Era povera e non aveva niente, neanche un uomo che la proteggesse, ma non ne aveva bisogno perché era amica delle Fate e conosceva bene molti dei loro segreti. Qualcuno l’ha insegnato a me, anche se io non ho voluto imparare tutte le arti stregonesche.

Questi cerchi sono come una firma. Significa che questo scialle è fatto per una persona precisa, la sua proprietaria, e solo per lei. Crea un legame indissolubile fra la proprietaria e lo scialle, per cui questo oggetto, prima o poi, tornarà alla proprietaria, e tutti quelli che hanno cercato di impedire questo ricongiungimento la pagheranno cara.

Nessuno può possederlo, altrimenti non ne verrà niente di buono. Devi restituirlo, Maxtran. E l’unico modo è rimetterlo dove l’hai trovato».

A quel punto Maxtran non si tenne più e cominciò a gridare raccontandogli dove l’aveva visto, e di come lui e i suoi compagni fossero sfuggiti a una misteriosa orda di stranissimi, enormi gatti grigi, scuri come un cielo in tempesta, che li guatavano e li inseguivano dal bosco.

Larthi, in tutta risposta, si ritrasse mettendosi le mani sulla bocca e scuotendo la testa.

«Hai detto enormi gatti grigi e scuri? Tanti gatti? Oh no…. no! E dimmi…. C’erano fiori rossi nella radura? Tanti fiori rossi? Gigli rossi?».

«Cosa stai blaterando, donna? Altre favole raccontate da tua madre?».

«Questi gatti li hai visti, no? Erano reali, non fandonie, no?».

Maxtran si bloccò, perplesso. Improvvisamente forse si era reso conto che stava vivendo qualcosa di irreale.

«Io… non lo so. Ripensandoci, mi sono chiesto se quei gatti non fossero un’allucinazione. Non ho mai visto degli animali comportarsi così!».

«Riguarda uno dei segreti del belk, Maxtran! I fuochi del belk che abbiamo visto la notte del plenilunio…. devi scoprire se sono spuntati i gigli rossi….».

«Di quali demoni parli, moglie mia? Ah, maledette le streghe di campagna e i loro malefici! Chissà cosa avresti detto, se fossi venuta anche tu con noi!».
«Se fossi venuta anche io con voi, forse avrei potuto fare qualcosa contro i demoni che si nascondono nell’ombra del bosco! Vi ho sentiti, tu e i tuoi amici, mentre chiacchieravate sotto il

LOVECRAFT 96: "ARIA FREDDA".


LOVECRAFT 95: "THE DESCENDANT" OVVERO "IL SUCCESSORE" O "LA DISCESA"


venerdì 15 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 73° pagina.


perché il loro corpo è simile a quello dell’uomo, e se vogliono possono camminare sulla terraferma per un certo periodo di tempo, ma assomigliano ai pesci perché vivono in acqua, e le loro mani e i loro piedi sono palmati per poter nuotare meglio, e assomigliano ai serpenti perché i loro occhi e il loro volto assomiglia a quello di un rettile, di un serpente. E infini assomigliano sia ai pesci che ai serpenti perché sono interamente ricoperti di squame verdi.

L’avete visto bene, quel Tritone, o Saguseo che dir si voglia. Era terrificante, quasi da non poterlo guardare, ma si tratta di esseri molto antichi e molto saggi, famosi per essere degli ottimi consiglieri, soprattutto per noi Uomini, che invece siamo una stirpe giovane e sventata.

E lo dicono anche le nostre tradizioni che sono sempre stati saggi consiglieri degli Uomini, perché quando stava per arrivare il Diluvio, furono appunto alcuni Tritoni, inviati da Apson, il Dio dell’Abisso, il Serpente Antico, ad avvertire il nostro antenato, il re Manowa, di costruire l’Arca della Salvezza per salvare se stesso e i suoi familiari.

Essi sono la Prima Stirpe, i più antichi di tutti, poiché la vita è nata nell’acqua, e da essa proviene».

«Sarà, ma io preferisco non averci a che fare. Chi vorrebbe aver commercio con qualcuno che ti guarda dall’alto con due occhi rossi come il sangue e grandi come mele, e che tra l’altro puzza orribilmente di pesce? Dei Santissimi, non me li scorderò più quegli occhi!»

«Eppure Larsin, sarei felice di poterlo reincontrare e di poter conquistare la sua amicizia. Sarebbe un portento, se qualche Tritone si stabilisse nel nostro bel fiume e volesse vivere accanto al nostro villaggio. Forse mi rivelerebbe qualcuno dei grandi e antichi segreti di cui il suo popolo è custode da tempi immemorabili. Segreti più grandi e profondi della più antica alchimia dei Nani, che tanta prosperità e benessere ha portato al nostro paese, e persino degli ancor più antichi incantesimi delle Fate, le Custodi del Destino.

Segreti che forse ci aprirebbero alla cura di malattie prima considerate inguaribili…..».

«Difatti si dice: sano come un pesce. Ci si riferisce ai Tritoni, immagino…».

«La loro vita è lunghissima, senz’altro. Più lunga di quella dei Nani, o delle Fate, che pure vivono secoli interi. Alcuni dicono che siano immortali, ma non è vero. Semplicemente, i loro anni non si possono contare. Pensate: il Saguseo che abbiamo visto potrebbe essere così vecchio da aver visto la fondazione del Regno Verde, più di tremila anni fa! Una volta, lessi che la loro vita media dura almeno dodicimila anni! Infatti, la loro stirpe è antica di milioni e milioni di anni, e le loro origini si perdono nella notte dei tempi. Solo Kellur stessa è più antica di loro.

Alcuni, in passato, hanno cercato di carpire ad essi il segreto della loro longevità, invano. E infatti io credo che tale segreto noi non potremmo acquisirlo a nostro vantaggio, perché la loro longevità è frutto solo della loro antica natura, non di qualche segreta alchimia».

«Ma voi pensate che lo rivedremo, dottor Laran?».

«E chi lo sa? Neanche sappiamo perché è arrivato fin qui».

«Dicono anche che il loro regno in fondo al mare sia pieno d’oro….se fosse vero, non sarebbe male divenire suo amico, per quanto spaventosa sia la sua compagnia».

«Dicerie. Nessun uomo può dire di aver visto le loro città marine. E come potrebbe, poi? E in ogni caso, i Tritoni che conosciamo noi, non vivono nelle profondità, ma nelle paludi e nelle lagune, dove non hanno certo città d’oro».

«Io mi accontenterei dell’acciaio adamantino della spada di Hermen…. L’elsa è fatta in lega di rame e argento, vedo»

Maxtran, fin dall’inizio, aveva mostrato di essere ammirato della spada di Hermen, e avrebbe desiderato che gliene forgiasse una uguale, anche se gli fosse costata un occhio della testa.

«Bada, una spada di acciaio adamantino come questa, ti verrebbe a costare più di mille pentacoli!».

«Non ti preoccupare… li avrai! Ma se un giorno dovrò affrontare qualche oscura minaccia alle porte della mia casa, voglio avere una spada come quella, al mio fianco!».

Dopo essere rimasti là a chiacchierare per alcune ore, si lasciarono con la promessa di rivedersi la settimana seguente, sempre nel giorno di usiltin, con il proposito di andare a fare una visita allo strano eremita di Monte Leccio. Hermen, però, non era sicuro di voler venire.

Larsin fece una proposta per trovare un compromesso.

LOVECRAFT 94: DA "NELLA CRIPTA" A "LA DISCESA"


giovedì 14 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" dI Pietro Trevisan: 72° pagina.


«Ah, quello! L’ho trovato su in cima a Monte Leccio, quasi nascosto da un cespuglio. Ho pensato che sarebbe piaciuto alla mia donna. Ma chissà…. forse lo si potrebbe vendere».

Maxtran lo tirò fuori dalla bisaccia. Era quello che sembrava essere uno scialle, di un tessuto finissimo e morbidissimo, che pareva seta, anche se sicuramente non lo era.

Con il fondo di un verde pallido, quasi acquamarina, era decorato da strani grovigli di arabeschi e di spirali di un verde brillantissimo, quasi fosforescente, con file di cerchi intersecantisi sui bordi, secondo uno stile e un disegno sconosciuti all’arte dei Thyrsenna.

«L’avrà perso qualche Fata, come qualcun’altra ha perso la coppa trovata da Larsin. Si devono proprio essere spaventate! Più di quanto ci siamo spaventati noi!».

«Un oggetto del genere in effetti potrei venderlo a un bel prezzo. A ben pensarci, forse potrei vendere anche la mia coppa. Non sono molti, gli oggetti fatati che finiscono in mano umana».

«…. Anche perché si dice che se uno ne viene in possesso in modo non lecito, essi portano disgrazia».

«Ci si recita una preghiera sopra, la si spruzza di acqua consacrata, e il gioco è fatto! E poi anche la tua coppa rischia di portarti disgrazia».

«Staremo a vedere. La preghiera e la spruzzata di acqua consacrata ce la metterò anche io sulla mia coppa. Ma non credo che avremo dei problemi. Potevano fare a meno di lasciare la loro roba per terra, quelle là».

Larsin non era un credulone, ma non era neanche esattamente uno scettico. Le sue superstizioni ogni tanto le aveva anche lui. Era un contadino thyrsen analfabeta, e condivideva la mentalità della comunità in cui viveva. La paura degli spiriti, delle Fate, delle stregonerie erano una cosa normale nei villaggi thyrsen, e ancora di più in quelli posti verso i confini del paese.

Per sicurezza, ogni tanto rivolgeva preghiere di scongiuro su oggetti, eventi, persone e situazioni considerate foriere di disgrazie e malefici, esattamente come facevano tutti i contadini thyrsen, anche se poi non era un frequentatore del tempio ed era amico di quel miscredente infedele di Velthur, e in parte ne aveva assimilato la mentalità. Forse, per sentirsi un po’ simile a un colto uomo di città.

I quattro rimasero a chiacchierare al tavolo per il resto di quell’ozioso pomeriggio di festa, e la discussione gradatamente si spostò da quello che era successo sul monte e sul fiume, ad argomenti più usuali.

Ad un certo punto, non ne poterono più di rimuginare su quello che avevano visto, per quanto potessero essere spaventati, soprattutto Larsin e il povero Hermen, che aveva sperato fino all’ultimo di scoprire che era tutto normale, che il Monte Leccio non era la sede di prodigi spaventosi e che forse davvero lui aveva preso un grande abbaglio quando aveva visto quel demone volante.

Così, per allentare la tensione, e un po’ complice il sidro e i cibi forniti da Maxtran e la sua famiglia, avevano cominciato a parlare di desideri personali, di affari, di vecchie esperienze.

Velthur cominciò a narrare di quando, da giovane, aveva incontrato dei Tritoni sulla costa meridionale del Veltyan, dove nei villaggi di pescatori venivano a commerciare, scambiando pesci e frutti di mare e pepite d’oro estratte dal mare, con oggetti d’artigianato. Raccontò di come non bisognasse avere paura di loro, anche se avevano un aspetto orribile.

«La gente che vive lontano dal mare, o semplicemente molto ignorante, se li immagina come esseri con il corpo di uomo sopra la cintola, e di pesce sotto. Anche nelle illustrazioni dei libri a volte vengono rappresentati così. 

Ma quest’idea è frutto di un equivoco. Perché quando li si descrive a chi non li ha mai visti, si dice che sono “metà uomini, metà pesci” oppure “in parte uomini, in parte pesci e in parte serpenti”, la gente si immagina degli esseri fatti con un pezzo di uomo, un pezzo di pesce e un pezzo di serpente…. ma non è così.

La verità è che quando si dice così, s’intende dire che per alcune caratteristiche assomigliano agli uomini, per altre ai pesci, per altre ai serpenti.
A volte li chiamano anche “i giganti dal volto di vipera”, e allora ci si immagina degli esseri altissimi, come un albero, e con la testa di serpente…. e anche lì non ci siamo. Sembrano uomini

LOVECRAFT 93: DA "L'INCONTRO NOTTURNO" A "NELLA CRIPTA"


mercoledì 13 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 71° pagina.


Faceva un certo effetto vedere la massiccia figura nuda di Hermen sopra le dune di ciottoli, con la spada splendente come cristallo in mano, e l’altrettanto massiccio Larsin che si riparava dietro di lui, spaventatissimo.

«Rimanete calmi! Non c’è motivo di pensare che sia ostile! Sentiamo cosa vuole!».

Aveva un bel dire il medico di rimanere calmi, perché la visione del gigantesco Saguseo era davvero terrificante.

Era un gigante, come tutti i Sagusei. Un Thyrsen di statura media gli arrivava appena allo stomaco. La sua pelle era interamente ricoperta di squame verde ramarro, che sfumavano in un color nocciola sul petto e sul ventre.

Le enormi mani palmate, di un verde più scuro, avevano quattro dita, con unghie lunghissime e appuntite, simili ad artigli. Il volto, senza naso e senza orecchie, ricordava una via di mezzo fra un rettile e un pesce, con la grande bocca dalle grosse labbra cascanti, che mostravano una fila di denti appuntiti e bianchissimi, quasi trasparenti.

Ma erano gli occhi la cosa più spaventosa di tutte. Enormi, sporgenti come quelli di una rana, erano di un rosso fra lo scarlatto ed il ramato, che sfumava in un giallo-arancio attorno alle pupille a fessura. Sbarrati come fanali, accentravano l’attenzione in modo quasi ipnotico.

I Sagusei, infatti, normalmente non suscitavano molta simpatia, anche quando si dimostravano amichevoli..

I piedi si intravedevano soltanto sotto il pelo dell’acqua, ma si capiva che erano grandi e palmati.

Se ne stava là, immobile e gocciolante, dalle squame scintillanti sotto il sole estivo, e li osservava silenzioso.

Poi alzò una mano, come a calmare i quattro uomini con un segno di saluto.

Dalla sua bocca grande, dagli orli discendenti, uscirono poche parole, con una voce vibrante, quasi gracchiante e molto acuta.

«State attenti. Soprattutto ai fiori rossi. I guardiani arrivano sempre dovunque Loro sono già giunti».

Poi si voltò e si rituffò nelle acque, nuotando lungo il corso del fiume, da dove sicuramente era venuto.

I quattro si guardarono allibiti per parecchi secondi.

«Dottore…. siete sempre dell’idea che non siamo stati esposti a fumi drogati o qualcosa del genere? Ditemi che avete visto e sentito quello che ho sentito io!».

Velthur non rispose.

Larsin, riavutosi dal terrore, domandò con un filo di voce: «Quel mostro è uscito dalle acque solo per dirci cose prive di senso e poi sparire? E adesso cosa racconto in giro senza essere preso per ubriaco?».

«E lo domandi, pure? Assolutamente niente!».

Sbottò Maxtran.

 

 

CAP. VIII: LA VISITA NOTTURNA

 

 

Velthur, Larsin ed Hermen accompagnarono a casa sua Maxtran, che li invitò a bere qualcosa sotto il portico della sua fattoria.

Mentre parlavano seduti al tavolo nel portico, con i loro boccali di sidro, si misero d’accordo che non avrebbero parlato a nessuno, per il momento, di quello che avevano visto.

A un certo punto, Larsin notò qualcosa di strano che sporgeva dalla bisaccia di Maxtran, che aveva lasciato accanto al suo sgabello. Un qualcosa che appariva di un verde sgargiante, straordinariamente brillante.

«Per il sangue di Tinian, che razza di colore hanno usato per quella roba che hai nella bisaccia?».

LOVECRAFT 92: LA TRAMA DE "L'INCONTRO NOTTURNO"


martedì 12 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 70° pagina.


«Una volta non era così, quel monte! Io vivo qui da quasi vent’anni, dalla mia fattoria lo si vede bene, lo sapete, e non ho mai notato niente di strano. Ci sono salito diverse volte, per andare a caccia, e non ho mai visto niente di quello che ho visto oggi. Quel silenzio di tomba, senza uccelli, senza insetti…. era irreale. E quei gatti! Ho sentito dire che sulle Montagne della Luna ci sono gatti selvatici molto grossi, ma non ho mai visto niente del genere da queste parti! Più ci penso, più mi viene da pensare che se li è portati dietro quell’eremita maledetto, e li ha addestrati per sorvegliare il suo dominio! È lui che ha mandato via le Fate, con i gatti o con altre cose…. dottore, avete sentito che odore veniva fuori dalla sua casa?».

«Sì, non l’ho detto prima, ma quello era l’odore di un laboratorio alchemico».

«E non pensa magari che abbia sparso sul monte qualche porcheria alchemica? Qualcosa che ha fatto fuggire tutti gli animali… e che magari fa venire anche le allucinazioni?».

«Quello che abbiamo vissuto non era un’allucinazione. Non conosco niente che possa far venire a persone diverse le stesse identiche allucinazioni, e tra l’altro far sentire le persone perfettamente lucide e in pieno possesso delle proprie facoltà. Così come penso che neanche Hermen e Knevin, quando sono passati di qui, siano stati sotto l’effetto di un allucinogeno. Hanno visto qualcosa sul serio, anche se non ho la minima idea di cosa fosse».

Larsin scosse la testa.

«E poi, Maxtran, amico mio… non si possono addestrare i gatti, lo sappiamo bene. Tanto meno dei gatti selvatici. E quelli non erano neanche addestrati, erano… come dire…. si comportavano quasi come una squadra di soldati. Tutti in fila, che avanzavano assieme, rimanendo però sempre a debita distanza da noi. Nessun animale si comporta così!».

«Sono degli spiriti, ecco la verità! – sbottò Hermen - Spiriti elementari, spiriti dei boschi, compagni delle Fate. Diciamocelo! Avete paura a dirlo?».

«Sarà perché non vogliamo sentire il dottore dirci che siamo dei bifolchi superstiziosi….Il dottore è famoso per non credere a niente…io che lo conosco bene da tanti anni ve lo posso confermare».

«Non credo agli spiriti che vagano nel nostro mondo, questo è vero. La mia religione m’impone di credere che gli spiriti disincarnati vivono in un altro mondo, separato da questo, e che non possono né farsi vedere, né parlarci. È una religione molto rassicurante, ve lo assicuro».

«Non parlateci difficile, dottore…. ehi, c’è qualcosa nell’acqua là, dove il fiume è più profondo».

A una distanza di cinquanta passi, in un punto dove l’acqua semifangosa scorreva più distante dai ghiaioni, c’era una grande increspatura, che quasi sembrava un vortice.

Istintivamente, i quattro uomini cominciarono a ritirarsi verso il punto dove avevano lasciato i loro vestiti, silenziosamente, e nello stesso tempo si guardavano attorno, come aspettandosi altre misteriose sorprese provenire dagli alberi lungo la riva.

Poi, l’essere apparve.

Emerse con la testa dall’acqua, poi apparvero le spalle mentre avanzava, e infine, raggiunto il punto dove si poteva toccare, si alzò passo dopo passo, finoa ad emergere fino alle caviglie.

Hermen e Larsin urlarono perché prima di allora non avevano mai visto uno di quegli esseri, ma non era il caso di Velthur e Maxtran.

«Un Saguseo! Cosa ci fa qui un Saguseo?».

«Più comunemente detti Tritoni, vivono quasi tutti presso la riva del mare, alle foci dei fiumi, o nei paraggi. Non ci sono mai stati Ttitoni qui, e non dovrebbero essercene. Non è un ambiente adatto a loro!».

«Ma io credevo che fossero metà uomini e metà pesci!».

«E io avevo sentito dire che le loro donne si trasformano in serpenti l’ultimo giorno della settimana…».

«Guardalo bene, Larsin! Non è forse in parte uomo, in parte pesce e in parte serpente?».

«Guardarlo bene? Io lo trovo orribile, non riesco neanche a guardarlo di sfuggita!».

Infatti Larsin aveva già riguadagnato l’asciutto e si stava rimettendo i vestiti. Prese l’adamantina spada di Hermen e gliela passò.