mercoledì 30 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 262° pagina.


Il sentiero sembrava essere un tragitto sacro, come ce ne n’erano anche nella religione ufficiale, ma con simboli e caratteri del tutto nuovi.

Arnith non aveva la minima idea di quale fosse l’ordine di sacerdoti a cui appartenevano le strane figure incappucciate.

Notò inoltre che i piedi e le mani dei sacerdoti, che erano le uniche parti del loro corpo che si potevano vedere, erano di un biancore spettrale, innaturale, esangue.

Mentre procedeva nella campagna, l’uomo cominciò a domandarsi se per caso stesse seguendo una processione di fantasmi provenienti da un lontano e oscuro passato.

La luna stava ormai tramontando, color rosso sangue, quando la processione arrivò alla sua meta: un cerchio di monoliti lungo la riva dell’Eydin.

I monoliti del cerchio erano più alti, ed erano in realtà delle statue stilizzate. Rappresentavano delle grandi figure umane con le mani incrociate sul ventre, ma con una strana particolarità: al posto della testa avevano un grande occhio, un gigantesco bulbo oculare con tanto di palpebre e ciglia che spuntava dal collo come un mostruoso fungo sferico.

Al centro del cerchio c’era una specie di altare cilindrico, basso e largo, sui cui bordi esterni c’erano altri ideogrammi e l’ossessivo simbolo del grande occhio.

Quello che avevano di strano quegli occhi scolpiti, era che non apparivano essere occhi né umani né di alcun altro essere. Non avevano iride, e la pupilla era puntiforme, piccolissima.

I sacerdoti si raccolsero in cerchio fra l’altare e il cerchio di monoliti, e fu allora che, continuando a cantare, si tolsero i cappucci uno per uno.

La paura e lo sconcerto di Arnith si mutarono subito in terrore. Non poteva credere a quello che vedeva, perché i sacerdoti non potevano essere umani, né di alcuna altra stirpe conosciuta di Kellur.

Apparentemente erano tutti maschi, e i loro volti avevano tratti umani, anche se molto singolari. Ma la somiglianza non andava più in là.

Privi di capelli, avevano orecchie piccole e ovali dalla forma mai vista, e la loro pelle era bianchissima, di un biancore quasi fosforescente. Arnith ebbe l’impressione che la loro pelle e la loro carne fossero semitrasparenti, come vetro smerigliato.

Ma quel che era peggio, erano i loro occhi, anch’essi fosforescenti, ma di un rosso sangue, enormi, con delle pupille quasi invisibili. Come enormi gocce di sangue che sporgessero dalle loro orbite.

Uno ad uno i sacerdoti si tolsero i cappucci fino a quando rimase incappucciato solo il primo di essi, quello che aveva condotto la processione. Tese le mani in avanti verso l’altare. In una mano aveva un globo argenteo, nell’altra quello che sembrava uno scettro rituale.

Nel momento in cui appoggiò il globo e lo scettro sull’altare, si tolse anche lui il cappuccio.

Quello che aveva sotto il cappuccio non era una testa. Era la stessa cosa che avevano le statue attorno.

Era un enorme occhio rosso, grande come un’anguria, avvolto da due grandi palpebre bianche che erano tutt’uno con la pelle del collo. Niente bocca, niente orecchie, niente naso né altri lineamenti, solo l’occhio enorme, scarlatto, con una pupilla puntiforme.

A quel punto Arnith, che guardava a distanza dal sentiero, non poté trattenere un gemito di orrore.

Fu solo in quel momento che la processione di sacerdoti si accorse di lui, e si voltarono tutti nella sua direzione.

Arnith si vide tutti quegli occhi rossi puntati addosso, e in mezzo quell’unico occhio enorme. Identico a quelli di tutti gli altri, ma enormemente più grande.

Poi successe qualcosa di altrettanto inspiegabile.

Vedendolo, tutti i sacerdoti si misero a urlare. Spalancarono la bocca lanciando urla disumane, laceranti, di orrore puro.

Alcuni gridavano “abominio!” ripetendo la parola più e più volte.

Ma non era finita, il sacerdote con la testa ad occhio estrasse un coltello anch’esso argenteo come il globo rituale.

Arnith non ebbe dubbi che gli si sarebbero scagliati contro e che il loro mostruoso capo l’avrebbe accoltellato a morte, ma la cosa non avvenne.

LOVECRAFT 292: LE MITOLOGIE PREUMANE NE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO".

martedì 29 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 261° pagina.


Percorse le stradine e i viottoli, e a un certo punto si rese conto che alcune vie assomigliavano a quelle che conosceva, ma che nello stesso tempo erano diverse. Una porta non si trovava dove avrebbe dovuto essere, una lampada perenne non pendeva dal muro in cui era sempre stata appesa.

Trovò anche l’Osteria del Gatto Nero, ma era chiusa e aveva un’insegna completamente diversa. Al posto del gatto nero, sull’insegna c’era un’enorme occhio rosso, e infatti il locale si chiamava Osteria dell’Occhio Rosso. Parlando al buio della notte, sperò che un Demone benevolo gli rispondesse.

«Od ho bevuto veramente troppo, o mi hanno messo qualche cosa nel vino. Che mi abbiano dato il vino delle Fate?».

Cercò di tranquillizzarsi con quell’idea, ma si accorse che gli effetti del vino cominciavano ad attenuarsi e che stava diventando sempre più lucido.

E stava male. Sentiva una forte nausea ed era afflitto da una notevole flatulenza. Temeva di vomitare e magari anche di farsela nelle braghe.

Provò a cercare casa sua, seguendo quella che pareva essere la strada principale, simile e dissimile da quella che conosceva, nella speranza di poterla raggiungere e poter riposare dimenticando quell’assurda allucinazione.

Ma si perse di nuovo, non riuscì a capire dove si trovava, mentre non si vedeva anima viva in nessuno dei vicoli. Fu quasi tentato di bussare a una di quelle porte sconosciute, per trovare rifugio in un posto qualunque, per sentirsi dire che era solo vittima di un’assurda allucinazione.

Ma qualcosa lo distrasse da quel proposito, perché sentì delle voci in lontananza.

Ma non erano voci schiamazzanti, né voci che parlassero. Sembrava un coro di voci maschili che cantasse una sinistra cantilena, e sembrava provenire da un vicolo là vicino.

In fondo al vicolo c’era una piccola piazzetta dove si vedeva la facciata a colonnata di un piccolo tempio, di cui si intravedevano le luci all’interno. Luci di lanterne ad olio, non lampade perenni, come voleva la tradizione quando si trattava di cerimonie religiose.

Prima che Arnith potesse avvicinarsi alla porta del tempio, che era aperta, si profilarono delle figure che uscirono nella piazzetta.

Era una processione di sacerdoti incappucciati, con lunghe tuniche grigio chiaro, color della cenere. Ognuno di loro portava una lanterna rossa in mano, e procedevano a piedi nudi sul selciato della piazza lentamente in una ordinata fila, a capo chino e cantando quella lugubre cantilena che Arnith non aveva mai sentito.

Arnith si sentì ancora più confuso. Sembrava che la fila di sacerdoti celebrasse un rito in commemorazione della morte di Fuflun, ma seguendo una forma sconosciuta. Anche perché erano tradizionalmente le donne a dover piangere la morte di Fuflun per le strade di notte, e non gli uomini.

E la cosa più assurda era che mancava ancora più di una settimana, prima che cominciassero i riti funerari della morte annuale di Fuflun.

Mentre Arnith si domandava se era impazzito e se invece era il mondo ad essere impazzito, decise di seguire la processione, per vedere dove andava. Magari, una volta finito il rito, avrebbe chiesto loro che cosa significava tutto questo.

Sempre che la nausea non lo facesse piegare in due per il vomito.

La processione vagò per un po’ per le strade del villaggio, fino a raggiungere il suo limitare e procedere nella campagna, lungo il fiume in direzione di Sartiuna. Il sentiero per la campagna che stavano percorrendo lo conosceva bene, ma anch’esso appariva diverso.

Lungo il tragitto c’erano come delle pietre miliari, dei piccoli monoliti dalla foggia molto strana, dedicati a una divinità apparentemente sconosciuta. Erano degli obelischi alti un metro e mezzo, larghi e massicci, sulla cui punta a piramide erano scolpiti dei grandi occhi, uno per ogni lato. Lungo i parallelepipedi sottostanti c’erano degli ideogrammi in gran parte sconosciuti, a parte alcuni simboli comuni anche alla religione ufficiale. Si vedevano delle triplici svastiche e dei pentacoli, ma era del tutto assente la croce ansata, che era il simbolo principale e supremo del culto di Sil.
Il sentiero sembrava essere un

LOVECRAFT 291: RIFLESSIONI PSICOLOGICHE NE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO".

domenica 27 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 260° pagina.


«Cosa dici tu, Nostro Signore delle Viti, di questa gente che a parole ti venera e ti ringrazia per i doni che hai fatto agli Uomini? Ti sembrano degni di questo? Ce l’hai su con me perché ho abbandonato il tuo culto? Credi che non ti voglia più bene, per questo? È che avevo paura, capisci? All’inizio andare al belk mi piaceva, mi divertiva, mi eccitava.

Era il gusto del proibito, era il piacere di fare qualcosa che dispiaceva ai kametheina che blaterano contro il vino drogato e l’ubriachezza, contro le orge e il delirio delle visioni, contro le pratiche magiche, e che poi magari fanno quelle stesse cose di nascosto, nel buio dei campi e dei boschi.

Mi piaceva tutto questo, il riunirsi nella notte sotto la luce della luna piena, in un luogo segreto e nascosto, il danzare nudi con Sileni e Fate, l’urlare e l’ubriacarsi fino a cadere a terra, e poi ascoltare il sacerdote con la maschera di caprone e la sacerdotessa con la maschera a tre facce, che parlavano dei Tuoi Misteri e di quelli della Tua Sposa, la Dea Trifronte.

Era bello percepire il proprio spirito staccarsi dal corpo sotto l’effetto del vino delle Fate, e volare lontano, sopra i boschi e i campi, assieme agli altri spiriti della notte, verso le porte dell’Aisedis, per riceverne le rivelazioni.

Era bello…. fino a quella notte maledetta, in cui vidi ciò che non avrei mai voluto vedere. Quella luce rossa…. Quella maledetta luce rossa che usciva da quella porta nel cielo…. e dall’altra parte…. dall’altra parte…..».

Non proseguì. Si mise a piangere.

«Ho dovuto smettere, capisci?» urlò alla statua del Dio fra le quattro colonnine dell’edicola.

La statua rappresentava Fuflun nella sua forma di anziano Sileno avvinazzato e gaudente, con la coppa di vino in mano e le corna dorate di capro che gli uscivano dalla testa incoronata da raggi argentei. 

La faccia rotonda e ridente del Dio del Vino, con i sinistri occhi a mandorla, obliqui, sembrava beffarlo.

«Ho dovuto smettere perché avevo paura di dover rivedere quelle cose! Le rivedevo nei miei incubi, le scorgevo nelle ombre della notte, vivevo nel terrore! Ti ho pregato di liberarmi da tutto questo, ma non mi hai ascoltato! Sembrava quasi che tu volessi che tornassi a rivedere ciò che non volevo vedere mai più! Quante me ne hai fatte, Dio dell’Ebbrezza e del Terrore.

E l’ultimo tiro che mi hai giocato, è stato subito dopo averle viste quella notte, dovendomi svegliare chissà dove, in un luogo sconosciuto, come se avessi veramente volato con il mio corpo anziché con il solo spirito! Dover convivere con il terrore che se avessi partecipato a un altro belk, mi sarei ritrovato chissà dove, in un luogo dimenticato dagli Dei e sconosciuto agli Uomini, nudo e indifeso. Ho camminato nel bosco per un giorno intero, prima di ritrovare la strada di casa, ho rischiato di morire per causa tua!

E allora ho dovuto lasciarti! Ho mantenuto la promessa, non ho rivelato a nessuno i Tuoi Misteri. E ogni anno ti faccio offerte per farti capire che ti amo ancora, che non ti ho veramente abbandonato. Sei tu che hai abbandonato me! O meglio, mi hai costretto ad abbandonarti! Quindi non puoi rimproverarmi niente!».

Poi si abbandonò di nuovo contro l’edicola, quasi come a cercare di ritrovare il vecchio contatto con la divinità che aveva perso tanti anni addietro.

Rimase là un po’ di tempo, poi si accorse di non sentire più gli schiamazzi delle vie, neanche in lontananza. Sembrava quasi che improvvisamente fossero tutti tornati a casa a dormire.

Incuriosito, si alzò da terra e si incamminò barcollando verso la strada principale del villaggio. Ma quando uscì dal vicolo, si accorse di non riconoscere la strada in cui si trovava. Era assurdo, ma non si ricordava di aver mai visto quella via, nel villaggio di Arethyan. Il che era impossibile. Quel che era peggio, era che non si vedeva anima viva nelle strade. Tutte le finestre erano buie, non si vedeva una luce dietro i vetri. Più che addormentato, il villaggio sembrava deserto. Infatti alcune case avevano le finestre e le porte sbarrate, come se fossero state chiuse dopo essere rimaste abbandonate.

Impaurito, Arnith si aggirò per le vie, alla ricerca di qualcosa di familiare, che non trovava.

LOVECRAFT 290: LA VERITÁ SI SVELA A POCO A POCO NE "L'OMBRA CALATA DAL T...

sabato 26 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 259° pagina.


molto bene la testa del brigante che veniva sollevata dal boia e fatta vedere a tutta la folla. La morte fa parte della vita. Perché Loraisan non dovrebbe vedere certe cose che tra l’altro sono solo disegnate?».

«Fargli vedere immagini violente fin da bambini li abitua alla violenza, gli fa credere che la violenza è giusta e normale. Sai bene come la penso: l’uomo si deve liberare dalla violenza per raggiungere la perfezione».

«Ma Loraisan non è un bambino avennar…. non vorrai mica educarlo come un Avennar?».

«Tuo figlio non è un Avennar, ma io sono convinto che è un’anima antica, un essere che ha avuto molte esistenze terrene e reca in sé la potenzialità di una grande saggezza, la possibilità di avvicinarsi molto alla perfezione ultima. Io non voglio creare nessun ostacolo al cammino della sua anima. Le mie lezioni sono tese anzi a rimuovere ogni possibile ostacolo alla sua crescita interiore».

«Baaaahhhh! Quando parli della tua religione dici sempre cose che non capisco! Per fortuna che sei l’unico Avennar di Arethyan, o saremmo ancora più pazzi di quello che dicono! Neanche alle feste di Fuflun ti rilassi un poco!».

«Guarda che sei tu che hai voluto parlarmi del mio lavoro….».

«E va bene, non parliamone più. Comunque, cosa ti sembra? Mio figlio potrà imparare presto a leggere e scrivere bene?».

«Ah, senza alcun dubbio! Vedrai, riusciremo a farlo diventare qualcuno!».

«Diventerà anche lui uno spocchioso sacerdote come Maxtran Akapri o un astuto sfruttatore di pellegrini come la maggior parte dei fattori della zona, come ormai stiamo diventando tutti, in questo paese!»

Sbottò Arnith, ormai in preda ai fumi dell’alcool.

«Dacci un taglio, Arnith. Tu quando bevi troppo, diventi cattivo….».

«Dico quello che penso, Larsin!».

Si alzò all’improvviso, pagò il conto e uscì dal Kran Belz, inseguito dalle urla degli altri clienti. Un buffone improvvisato, travestito con una pelle di orso sotto la quale era completamente nudo, cavalcato da una ragazza con una maschera da gatta nera e armata di un grosso mestolo da polenta, lo inseguì fin fuori dall’osteria urlando frasi sconnesse e intimandogli di non andarsene. Arnith gli diede uno spintone e se ne andò.

La ragazza cadde dalla sua cavalcatura, e rialzatasi stava per inseguirlo brandendo il mestolo con intenzioni aggressive, quando intervenne Prukhu, che le offrì una coppa di vino e la supplicò di usare lui come cavalcatura, al posto del suo precedente compagno.

Per fortuna di Arnith, riuscì nel suo intento.

Nessuno dei suoi amici cercò di trattenerlo. Arnith era fatto così. Ad un tratto diventava scontroso e strano, e l’unica cosa da fare era lasciare che si rifugiasse nel suo guscio di scontrosità.

Arnith vagò per le strade barcollando. Non era sicuro di voler tornare a casa, che si trovava ai limiti del villaggio. Voleva stare da solo, ma non al chiuso. Aveva voglia di sedersi da qualche parte nel freddo della notte, e aspettare che l’effetto dell’alcool scomparisse un po’, ascoltando gli schiamazzi della gente e guardandola passare vestita in maschera. A volte si sentiva più felice, o meglio meno triste, quando l’allegria altrui era un sottofondo della sua solitudine. Sentire voci lontane di allegria, vedere da lontano persone gioiose lo faceva sentire meglio. Una delle sue tante stranezze, che nemmeno lui sapeva spiegare. Poi magari sarebbe tornato al Kran Belz, forse, che sarebbe stato aperto tutta la notte, per onorare il grande Fuflun.

Ma lui, per onorare il Dio, decise che per il momento andava bene sedersi per terra, appoggiato a una piccola edicola di Fuflun, in un vicolo un po’ riparato dagli schiamazzi delle strade principali. In fondo al vicolo si vedeva la campagna aperta, delimitata da un filare di cipressi e illuminata dalla luna al primo quarto. Una nube avvolta di luce argentea e simile a una mano, sembrava voler coprire la mezzaluna.

Cominciò a parlare da solo, anzi con il Dio del Vino che in quella serata veniva esaltato in tutto il paese.

LOVECRAFT 288: LA MISTERIOSA CITTÂ PREISTORICA NE "L'0MBRA CALATA DAL TE...

giovedì 24 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 258° pagina.


La fanciulla concepì un figlio, che una volta adulto divenne il primo sacerdote di Fuflun. Il padre gli trasmise le dottrine dei suoi Misteri, le dottrine sulla vita eterna dell’aldilà e della reincarnazione e lo svolgersi dei sacri riti.

Dalle altre pigne, rinacquero i Giganti come dalla pigna d’oro era rinato Fuflun. Esse caddero a terra e si schiusero, ma prima che i neonati all’interno potessero diventare grandi, Fuflun li catturò e li mise in gabbia, maledicendoli e dicendo loro che mai e poi mai avrebbero ottenuto il segreto del vino e che la loro stirpe non avrebbe mai conquistato la Madre Terra, che sarebbe stata ereditata solo dagli Uomini. Poi li esiliò nel lontano Occidente.

Così ogni anno, nel mese dei Pesci, le classi più umili del popolo dei Thyrsenna, festeggiavano prima la venuta di Fuflun su Kellur, e l’epoca di gioia e di abbondanza che aveva portato. Poi ne piangevano l’ingiusta morte che aveva portato alla creazione dell’inverno, e infine all’equinozio ne festeggiavano la resurrezione, con l’inizio di un nuovo ciclo annuale della vita.

Nel giorno di Capodanno, oltre alla processione con il caprone inghirlandato, si mettevano sulle tavole uova colorate, simbolo delle pigne del pino di Fuflun, dipinte in modo da imitare il disegno delle scaglie delle pigne, ma con colori sgargianti per imitare i colori della primavera.

In quel giorno, inoltre, le ragazze più giovani partecipavano a una danza amorosa sui campi, in cui invitavano i ragazzi a ballare con loro, e così sceglievano il compagno per la notte, celebrando il loro primo “matrimonio notturno”. Assieme a loro potevano esserci donne più mature, che desideravano cambiare compagno.

Dopo il Capodanno, durante il primo plenilunio dopo l’equinozio, molti si recavano di nascosto al Grande Belk di Primavera, dove venivano celebrati i Misteri di Fuflun.

I sacerdoti di Sil tolleravano tutto questo, fino a quando non minacciava la supremazia del culto di Sil e delle sue dottrine.

In un passato lontano, i riti di Fuflun erano divenuti eccessivi e smodati, e causa di disordini sociali, a tal punto che per un certo periodo le feste di Fuflun furono proibite. Ma il culto si era così radicato nel popolo, che non era stato possibile estirparlo, e alla fine si era riusciti ad arrivare ad un certo compromesso.

I cosiddetti Misteri Minori venivano celebrati in pubblico come un gioco malizioso, mentre le orge sfrenate dei Misteri Maggiori venivano celebrati in segreto nel Grande Belk di Primavera, nel buio delle radure dei boschi. Se nessuno vedeva una cosa, si poteva fare finta che non ci fosse. L’importante era non dare fastidio all’ordine costituito.

Quando fosse stato introdotto il culto di Fuflun nel Veltyan, non si sapeva di preciso. Gli storici dicevano che furono i primi Sileni, provenienti da Oriente più di duemila anni prima, a importare il culto per primi, dato che era il loro Dio.

Ma in quella non troppo fredda sera dell’inizio dei Pesci, nessuno dei contadini di Arethyan pensava certo a da dove venisse la tradizione di quei giorni di festa. Pensavano solo a goderseli.

Ovviamente il Kran Belz, l’Osteria del Gatto Nero, era sempre pieno di baldoria. Larsin era ritornato da tempo un assiduo frequentatore del locale, anche se non si ubriacava spesso.

Gli capitava di farlo solo in occasione delle feste di Fuflun.

Quella sera Larsin, Velthur, Prukhu, Menkhu e Arnith Gamarran si erano seduti a un tavolo della taverna per bere vino in onore di Fuflun e conversare del più e del meno, come già avevano fatto un’infinità di volte.

«Velthur, è vero quello che mi ha raccontato mio figlio, riguardo la sua prima lezione di scrittura? Ha detto che per sbaglio gli hai mostrato un’illustrazione di un libro che non volevi che vedesse. Come mai?».

«Era un’illustrazione di un libro di viaggi nei paesi d’Oriente, e mostrava un tempio dell’isola di Lankar. Era il tempio di una divinità sanguinaria che esigeva sacrifici umani, dall’aspetto mostruoso. L’illustrazione mostrava i sacerdoti di questa divinità che compivano i loro abominevoli sacrifici. Non mi sembra una cosa da mostrare a un bambino».
«E perché? Mio zio mi portò a vedere una decapitazione in piazza nel mio villaggio natìo quando avevo solo otto anni. Disse che dovevo vedere cosa succedeva ai briganti e agli assassini. Ricordo

LOVECRAFT 288: I PRIMI RICORDI DI UN REGNO ALIENO NE "L'OMBRA CALATA DAL...

mercoledì 23 novembre 2016

LOVECRAFT 287: COMINCIA LA RICERCA DEL MISTERO NE "L'OMBRA CALATA DAL T...

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 257° pagina.


portando maschere di caprone in volto, fare scherzi di ogni tipo. Un caprone nero veniva portato per il paese ornato e agghindato come un re, per rappresentare Fuflun.

Dopo i quattordici giorni tutti i festeggiamenti goderecci terminavano, e il caprone nero veniva rinchiuso nel tempio di Fuflun, che era di regola un ipogeo scavato presso i cimiteri. Perché Fuflun, essendo un Dio della terra e della rinascita, era anche un Dio dell’aldilà e degli spiriti dei defunti.

In quel periodo di tempo l’animale veniva considerato “morto”, e tutto il paese lo piangeva come se fosse veramente morto, vestendo di nero e portando il lutto.

Per gli altri quattordici giorni del mese dei Pesci, non si beveva più vino né altra bevanda alcoolica, non ci si vestiva più in modo elegante o vistoso o stravagante, si mettevano via tutti gli orpelli, e addirittura processioni di donne piangenti e vestite di grigio e nero giravano la sera per paesi e campagne spargendo cenere sulle strade e i sentieri, ceneri che venivano considerate “le ceneri di Fuflun”.

Solo a Capodanno il caprone nero veniva liberato e di nuovo ornato con corone di fiori, le sue corna e i suoi zoccoli venivano dipinti con una tintura dorata, dopodiché veniva portato in trionfo per il paese da un’ampia processione festosa a cui partecipava tutto il popolo, celebrando la resurrezione di Fuflun tornato tra gli Uomini.

Il perché di tutto questo rituale era fondato su un antico mito che proveniva dalla notte dei tempi, da ancora prima del Diluvio, dalla dimenticata notte dei tempi in cui le città degli Uomini non esistevano, prima del dominio dei Giganti.

Secondo questa leggenda, Fuflun era comparso sulla Madre Terra sorgendo dal sottosuolo, sotto forma di fanciullo, insegnando agli Uomini i segreti dell’agricoltura e in particolar modo la coltivazione della vite e la fermentazione del succo d’uva.

Molto tempo dopo, i Giganti, invidiosi dei doni che Fuflun aveva fatto agli Uomini, cercarono di carpire i suoi segreti, facendo finta di voler diventare suoi amici.

Fuflun offrì loro il suo vino, e i Giganti si ubriacarono, diventando completamente pazzi. Lo inseguirono per ucciderlo, e lui per sfuggire loro si trasformò in caprone nero, per confondersi con le ombre della notte.

Ma i Giganti lo trovarono in una profonda caverna, lo uccisero, lo fecero a pezzi, ne cucinarono e mangiarono la carne e poi si addormentarono.

Ma Tinian, il Dio dei Venti e delle Tempeste, padre di Fuflun, li punì incenerendoli con i suoi fulmini.

Sul mondo degli Uomini calò la morte dell’inverno. La terra non dava più frutti né fiori, gli alberi persero le foglie, gli animali caddero nel letargo perenne, il sole perse il suo splendore, il cielo era sempre coperto dalle nuvole. Vita e luce fuggirono dal mondo.

La disperazione invase gli Uomini, e le donne piangevano la morte del Dio della Vita, che era scomparso dal mondo.

Ma una di loro, una giovane vergine, raccolse le ceneri dei Giganti, che erano mescolate con quelle del Dio che avevano divorato.

La fanciulla le raccolse in un’urna a forma di uovo, che seppellì nel suo campo, e poi prese ad innaffiare regolarmente la terra sopra di essa.

Presto spuntò un germoglio di pino, che crebbe a straordinaria velocità. E dai rami spuntarono delle strane pigne a forma di uovo, tutte di colore grigio cenere, fuorché una che era dorata.

La fanciulla raccolse la pigna dorata e se la portò a casa, poi si addormentò con lo strano frutto tra le braccia, scaldandolo con il suo corpo.

La mattina dopo la fanciulla si risvegliò e vide i frammenti del guscio dorato della pigna, che in realtà era un uovo. Accanto a lei giaceva nel sonno un grande capro nero dalle corna e dagli zoccoli d’oro.  Quando egli si svegliò, assunse l’aspetto di un bel giovane, e insieme giacquero amandosi un giorno intero.

La vita tornò nel mondo, i fiori sbocciarono e gli alberi misero le gemme, mentre il sole tornò a splendere.

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martedì 22 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 256° pagina.


Sognò di essere in un deserto di sabbie e rocce rossastre, di fronte a una grande montagna in cui si apriva una grande caverna. Lui stava di fronte all’apertura della grotta, da cui sentiva provenire come dei bisbigli, delle voci mormoranti, canti e risa, e altre voci che chiamavano il suo nome.

Una forza lo sospingeva verso l’imboccatura della grotta, che era completamente buia. Era terrorizzato dall’idea di entrare in tutto quel buio dove, lui ne era sicuro, lo aspettava la terribile Dea-Serpente e i suoi sacerdoti sanguinari. Guardava il buio aspettando che l’apparizione mostruosa comparisse, ma non appariva. Poi alla fine si mise a urlare nel sogno, urlare senza fine, con disperazione, fino a quando si svegliò.

Per fortuna, anche il suo urlo era stato un sogno. Nella realtà, lui rimase immobile e silenzioso nel suo letto, fino a quando non si svegliò, vedendo  i primi, rassicuranti chiarori del mattino che filtravano dalla finestra e attenuavano le ombre che tanto lo spaventavano.

Contemporaneamente, il dottor Velthur si svegliò, dopo aver fatto un incubo anche lui. Aveva di nuovo sognato il corpo di Aralar orribilmente smembrato, come già gli era capitato tante altre volte in quei sette anni.

Alzandosi dal letto per recarsi a bere un bicchiere di latte in cucina, guardò fuori dalla finestra della sua camera da letto, per vedere se il tempo era bello.

Era l’inizio del mese dei Pesci, l’ultimo mese dell’anno prima dell’inizio di primavera. Perché il capodanno dei Thyrsenna cadeva nell’equinozio di primavera, come per molti altri popoli di Kellur. Le giornate ormai avevano cominciato da tempo ad allungarsi sensibilmente.

Mentre guardava il cielo, fu attirato dai bassi monti delle regioni pedemontane ad oriente, di fronte alla bianca catena innevata delle Montagne della Luna. Notò, visibilissima, una luce rossa e tremolante, che si spostava sul fianco boscoso di quel monte. Doveva essere uno di quelli non lontani da Monte Leccio.

Velthur osservò a lungo la luce scarlatta muoversi sulle cime piatte e larghe, lentamente ma costantemente, fino a quando non scomparve all’improvviso, spegnendosi dopo aver mandato un ultimo bagliore fulgentissimo.

Dopo che fu scomparsa, il dottore rimase ancora a osservare per qualche tempo i monti, mentre l’aurora avanzava.

Alla fine si staccò dalla finestra, sospirando.

«È ricominciata. La Tregua dell’Ignoto è finita»







CAP. XXII: LA PORTA SUL VERDE CREPUSCOLO



Il mese dei Pesci, tredicesimo e ultimo mese dell’anno thyrseniakh, era dedicato a Fuflun, o Baker Belz, il Gran Dio Cornuto, il Grande Capro Nero, uno dei principali Dei dei Thyrsenna, anche se non era fra le divinità più importanti adorate dalla classe dei kametheina.

Ma era una divinità molto amata dai contadini, oltre che essere il Dio dei Sileni, e la sua festa era molto importante per la gente dei villaggi e delle montagne.

Fuflun era il Dio del vino, dei boschi, della primavera. Simboleggiato da un grande e possente caprone nero dalle corna e dagli zoccoli d’oro, era il Dio della Rinascita e l’archetipo della vita indistruttibile, dell’eterno ciclo di morte e rinascita della Natura.

Le festività duravano tutti i ventotto giorni del mese, e si concludevano il giorno di Capodanno, all’equinozio di primavera, quando si celebrava la resurrezione di Fuflun.

Erano i Tinsina Fuflunal, i Giorni di Fuflun.

Le celebrazioni si svolgevano in un modo curioso.
I primi quattordici giorni del mese erano dedicati a ogni sorta di gozzoviglia, e in particolar modo al consumo di vino novello, birra, sidro e idromele. In quei giorni ci si dava a ogni follia: era permesso cantare e schiamazzare per la strada in piena notte, vestirsi in modo colorato e stravagante, lavorare

LOVECRAFT 286: GLI STRANI RICORDI DI PEASLEE NE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO"

lunedì 21 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 255° pagina.


Richiuse il libro di scatto.

«Scusa, questa è una cosa che i bambini piccoli come te sarebbe meglio che non vedessero».

«Era un tempio di una Dea barbara, vero? Con sacrifici umani?».

«Cosa ne sai tu di sacrifici umani?».

«Prukhu una volta mi ha raccontato che nei paesi del Nord, oltre le montagne, i sacerdoti dei barbari compiono sacrifici umani, sgozzando le vittime e poi ne bruciano i corpi, offrendoli ai loro Dei. Alcuni non li bruciano, ma li cucinano per poi mangiarli in grande feste sacre. Quella figura sembrava uguale alle storie di Prukhu…».

«Ah, belle storie che ti racconta Prukhu! Beh, in ogni caso io sono contrario a far vedere ai bambini immagini del genere, quindi la prossima volta starò più attento alle illustrazioni che ti farò vedere».

Loraisan sorrise.

«Se sapeste che razza di storie mi racconta Prukhu… molto peggio di quell’illustrazione!».

«Ah, buono a sapersi! E allora quell’illustrazione ti sembra che mostri qualcosa di bello?».

«No, anzi. Mi fa paura. Quella Dea è davvero mostruosa. Chissà quali cose spaventose succedono in quel tempio. Posso sapere dove si trova?».

«No, per il momento non puoi. Ora va, che devo anche sbrigarmi!».

Quando Loraisan fu uscito, Velthur lo seguì con lo sguardo dalla finestra. Notò che il bambino si guardava intorno come se avesse paura del mondo circostante, muovendosi con movimenti rigidi e impacciati.

Non era un bambino normale, quello era sicuro. Ma quanto non lo fosse, probabilmente ci sarebbe voluto molto tempo per capirlo. Forse si sarebbe dovuto aspettare che divenisse un adulto, se mai lo fosse divenuto. Appariva così magro e fragile….. appariva. Ma chissà perché, Velthur aveva la sensazione che fosse solo un apparenza, che Loraisan avrebbe riservato delle sorprese anche col suo corpo .

Tornato a casa, Syndrieli gli chiese come fosse andata dal dottore, facendogli molte domande, e il bambino le rispose con lunghi discorsi.

Parlò anche delle illustrazioni del libro sui paesi stranieri, e le disse che il dottore si era dispiaciuto di fargliela vedere, perché diceva che non bisognava far vedere ai bambini cose che li spaventassero, non capiva perché.

«Forse perché tu ti spaventi già troppo per niente. Forse aveva paura che ti venissero gli incubi. Comunque l’importante è solo che tu impari a leggere e scrivere. Tutto il resto non ha importanza».

Quando fu il momento per Loraisan di andare a letto, si accorse che sua madre aveva ragione. Forse il dottore voleva proteggerlo dagli incubi.

Si accorse di pensare alla Dea-Serpente delle terre del lontano Oriente.

Si domandò quale fosse il paese in cui quella Dea regnava, e quali terribile cose potevano succedere in quella terra barbara e selvaggia di cui non conosceva ancora neanche il nome.

E mentre giaceva nel letto, guardando la finestra da dove penetrava un vago chiarore attraverso i vetri, si domandò se lo spirito di quell’oscura divinità potesse vagare nella notte sopra paesi e città, e manifestarsi con immagini terrificanti e sciagure spaventose anche nel Veltyan, magari evocata ed attirata da chi ha rivolto il pensiero a lei.

Loraisan, guardando il buio, sentì il timore che la Dea-Serpente potesse comparirgli davanti, facendolo morire di paura, o scagliando su di lui e su tutta la sua famiglia una spaventosa maledizione.

Il terrore della Presenza Invisibile lo attanagliò di nuovo, come tante altre notti in cui non riusciva a dormire, e rimaneva ad ascolare il silenzio, o il tenue respirare di suo fratello e di sua sorella più grandi, sperando che si svegliassero per un qualsiasi motivo, e lo togliessero da quel senso di indifesa solitudine in cui si sentiva imprigionato.

Rimanere soli nel silenzio della notte, aspettando invano il sonno, era come rimanere soli nel chiuso di una tomba, come sepolti vivi.

E quando alla fine si addormentò, dovette poi subìre uno dei suoi incubi.

LOVECRAFT 285: LA MISTERIOSA MACCHINA DI PEASBEE NE "L'OMBRA CALATA DAL ...

domenica 20 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 254° pagina.


ciascuna da un unico blocco di pietra, estratto da enormi cave di pietra nelle montagne. Nessuno sa come abbiano fatto gli Iubariti a trasportare quelle immense rocce scavate e scolpite fino alla città.

Del grande popolo che costruì quella città e il suo impero, sono rimasti solo poveri villaggi di pescatori sulla costa dell’isola e ancora più povere tribù di nomadi che vagano nel deserto. Però molti nostri navigatori mercanti si recano lì per comprare spezie, tessuti e sostante alchemiche ricavate dalle miniere e dalle cave nelle montagne.

Ogni tanto ci vanno anche alcuni studiosi, per cercare di scoprire i segreti dell’antica civiltà di Iubar, per raccogliere narrazioni degli indigeni sui tempi antichi. Uno dei miei sogni da giovane era di potermici recare anche io….».

«E perché non ci siete andato?».

«Non avevo i pentacoli, bambino mio! Per viaggiare bisogna o diventare marinai o pagarsi il viaggio».

«Oh…. forse mi piacerebbe fare il marinaio, allora…. e quelle strane figure alate che volano là in cielo, vicino alla luna, che cosa sono?».

«Sono i Geni dell’isola di Edan Synair, gli antichi Elfi della Luce. Secondo la leggenda il centro del loro antico impero si trovava in quella grande isola, e secondo le tradizioni locali alcuni di loro ci vivrebbero ancora, nascosti nel deserto e sulle montagne. Ma forse sono solo leggende, e in realtà i Geni si sono estinti da lungo tempo. Che si sappia, nessuno dei nostri esploratori dice di averli incontrati, anche se alcuni raccontano strane storie su quello che hanno visto nel Deserto Rosso che si stende su quella grande isola.

Comunque, adesso che hai visto l’illustrazione, puoi andare a casa. Devo ricevere dei pazienti».

«Vi prego, dottore. Solo un’altra illustrazione, poi me ne vado!»

«Va bene, ma solo una! E se continuerai a dimostrare impegno e imparerai bene l’alfabeto, la prossima volta ti permetterò di vedere altre illustrazioni. Saranno i miei premi per la tua buona volontà».

Il dottore sfogliò di nuovo a caso il libro, e sempre casualmente uscì un’illustrazione altrettanto suggestiva, ma dall’aspetto molto più inquietante delle rovine di Iubar, illuminate dalla lune e sorvolate dai misteriosi Geni. Se la prima suggeriva pensieri paurosi, la seconda ne evocava di veramente orribili.

Mostrava l’interno di una grotta gigantesca trasformata in tempio, in fondo alla quale troneggiava una grande statua verde smeraldo, che rappresentava chiaramente una divinità mostruosa.

Si trattava di una donna ricoperta interamente di squame verdi, con sei braccia. Una delle mani impugnava una scimitarra, un’altra uno scettro, la terza un cerchio di metallo, la quarta la testa recisa di un uomo dalla pelle scura, tenendola per i lunghi capelli neri, la quinta un globo, la sesta una scure bipenne.

Alle sei braccia corrispondevano altrettanti seni, enormi, sferici e squamosi come il resto del corpo, con sei stelle dorate al posto dei capezzoli.

Le sue gambe erano due grandi code di serpenti che ondeggiavano a destra e sinistra del suo corpo con ampie anse, e la sua capigliatura era un groviglio di altrettanti serpenti, ma ovviamente molto più sottili. Serpenti cobra, dalla testa a cappuccio. Loraisan, non sapendo che cos’era un cobra, credette che fossero dei mostri metà serpenti e metà piante, con la testa a forma di foglia.

Il volto mostruoso della Dea era a metà strada fra un volto umano e quello di un rettile, con la bocca spalancata e zannuta e una lingua lunghissima, rossa e affusolata che le scendeva fino al petto.

Di fronte alla statua c’era un grande bacile pieno di fuoco, di fronte al quale sacerdoti dalle lunghe vesti color ambra offrivano i corpi di vittime umane decapitate, gettandoli nel fuoco. Lunghe file di teschi riempivano le nicchie scavate nelle pareti della caverna, chiaramente ciò che restava delle teste delle innumerevoli vittime che dovevano essere state sacrificate nel corso degli anni.

La didascalia sotto l’illustrazione diceva: Il Tempio di Umnara, la Grande Dea di Lankar.

Quando il dottore si rese conto di ciò che stava mostrando al bambino, era troppo tardi.

Sono un cretino, si disse. Con tutti i libri che potevo prendere, sono andato a prenderne uno che mostrava anche le barbare tradizioni dei paesi stranieri.

LOVECRAFT 284: LA LUNGA "MALATTIA" DI PEASLEE NE "L'OMBRA CALATA DAL TEM...

sabato 19 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 253° pagina.


Si avviò a uno degli scaffali della grande libreria del suo studio e cercò un libro che avesse molte illustrazioni, o almeno illustrazioni particolarmente belle.

Gli capitò sotto le mani un libro sui paesi esotici dell’Oriente e dei Mari del Sud, oltre le sponde del Grande Oceano Meridionale. Quei libri in genere erano sempre pieni di illustrazioni basate sulle narrazioni e le descrizioni dei navigatori che percorrevano le rotte commerciali per quei paesi, quindi lo trovò atto allo scopo.

«Ecco, questo è un libro con molte illustrazioni. Quando avrai imparato l’alfabeto, te lo farò leggere. È stato scritto da un famoso navigatore vissuto nel XXVI secolo, che ha viaggiato in molti paesi aldilà del mare, incontrando molti popoli stranieri….».

«Oh sì! È il tipo di storie che mi piace di più. Mi piace molto sapere dei paesi stranieri. Mia madre dice che non bisogna interessarsi del mondo fuori, perché è pieno di barbari feroci e selvaggi, e che noi siamo l’unico popolo civile del mondo, il migliore dei popoli, e che fuori del Veltyan non c’è niente di buono. Ma io sono curioso lo stesso. E poi se fosse davvero così, perché i viaggiatori andrebbero in paesi lontani?».

«Tua madre ha ragione per metà…. i navigatori che viaggiano in terre lontane hanno ragione per l’altra metà».

«Cioè?».

«Cioè significa che davvero noi siamo l’unico popolo umano civile rimasto a questo mondo, ma gli altri paesi hanno comunque qualcosa di buono. Da terre lontane di là dal mare ci sono venute le patate, i pomodori, il mais, le arance, i limoni e tanti altri frutti e ortaggi. Da paesi lontani ci vengono metalli preziosi come oro e platino, pietre preziose, il caucciù per fare la gomma, il caffè, la cioccolata, che nella nostra regione non arrivano, se non nelle case degli athumna e dei kametheina athumiakh…. e altre cose come tessuti pregiati, materiali e sostanze che servono a creare opere alchemiche molto importanti.

Insomma, i paesi stranieri sono feroci, incolti e barbari, ma ci sono molto utili, e perciò, se si vuole essere delle persone colte, è bene conoscerli. Ancora di più se si fa i mercanti. Se invece si vive qui, in un tranquillo villaggio di frontiera, è naturale che gli stranieri siano solo dei dannosi invasori. Quindi tua madre ha ragione a dirti così, perché tanto lei con gli stranieri non avrà mai a che fare, a meno che non ci invadano i barbari dell’est, di là dalle montagne, come è già successo in passato. E senz’altro quella non sarebbe una bella esperienza».

«E quindi neanche io, potrò avere a che fare con gli stranieri?».

«Beh…. se studierai molto, invece sì! E cominceremo a conoscerli proprio da questo libro».

Aprì il libro a una pagina a caso, e due sfogliate più in là comparve un’illustrazione quanto mai suggestiva.

Era l’immagine dipinta di una grande città in rovina nel deserto, sotto la luce della luna. Una doppia fila di colonne quadrate si perdeva tra le sabbie, fino a un’alta torre sullo sfondo di altre cento torri di pietra, anch’esse quadrate, tutte ancora intatte, dalle cime a piramide.

Sotto l’illustrazione la didascalia diceva: Iubar dalle Cento Torri.

«Oh, che bello! Che cos’è?».

«Se sapessi già leggere, avresti potuto scoprirlo da solo. Vedi qua sotto? I-U-B-A-R. Iubar! La mitica Città dalle Cento Torri, nella grande isola di Edan Synair, nel favoloso Oriente. La più grande e splendente città del mondo rinato dopo il Diluvio.

Fu fondata da Iasabat, il terzo e ultimo figlio del re Manowa, di cui ti ho già accennato, sui resti di una precedente città dei Giganti sommersa dal Diluvio, e divenne presto un grande e potente regno, il cui splendore rivaleggiava con quello dei Giganti che l’aveva preceduto.

 Il suo potente dominio durò più di mille anni, poi decadde poco per volta, mentre la terra dove sorgeva si inaridiva sempre più, fino a quando le sabbie del Deserto Rosso la ricoprirono.
Fu l’unico grande regno degli Uomini che sorse nel mondo oltre al Veltyan dopo il Diluvio, ma ora non esiste più, a parte le sue colossali rovine. Aveva moltissime torri di pietra molto alte, dove vivevano migliaia di persone. Quelle torri pare che siano ancora intatte perché sono state scavate

LOVECRAFT 283: LE SOLITE ALLUSIONI RIVELATIVE NE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO"

venerdì 18 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 252° pagina.


Ankhaymon era uno dei numerosi nipoti di Khaam, che voleva anche lui un regno dove governare, ma che non poteva trovare spazio nella numerosa famiglia reale del suo paese, e quindi egli partì verso occidente per esplorare nuove terre, giunse sulle coste meridionali del Veltyan, e là si stabilì. Ebbe un figlio che chiamò Anthaymon, per il quale fondò la città di Enexi, ed Anthaymon a sua volta ebbe sette figlie.

Anthaymon lasciò la città di Enexi alla figlia maggiore, ma fondò altre sei città per le altre figlie.

Quelle furono le prime sette città-stato del Veltyan, secoli prima che il Regno Aureo nascesse.

Nelle generazioni successive, i discendenti di Ankhaymon mantennero i contatti con il regno di Khaam, e con i centri del sapere che vi si trovavano.

Ma dopo alcuni secoli tutto cadde nell’oblio. I tre regni di Edan Synair decaddero, e il primo a cadere fu proprio quello di Khaam. Il sapere alchemico che aveva coltivato come eredità salvata dal Diluvio, andò quasi completamente perso. Ne rimase solo il ricordo.

Le città di Edan Synair divennero rovine nelle sabbie del deserto, la loro civiltà scomparve senza eredi.

Il mondo era completamente tornato nelle tenebre della barbarie, anche se nelle terre del Veltyan, che non esisteva ancora come un regno unito, si conservava il ricordo dei gloriosi tempi andati.

L’antico sapere venivano ricordato come “le Arti di Khaam”, e da lì è venuta la parola “alchimia”.

Poi, più di mille anni dopo il Diluvio, tutte le città-stato del Veltyan si unirono sotto il governo della Prima Regina, Elinai la Grande. La civiltà ricominciò il suo lento cammino in un mondo selvaggio e barbarico, ma il sapere alchemico era ancora perduto.

Poi, circa undici secoli fà…..».

Velthur fece una pausa con un’espressione arguta.

«…. Allora?».

«Allora ti racconterò il seguito della storia se tu saprai imparare tutte le lettere dell’alfabeto!».

«Tutte quante?».

«Eh sì, tutte quante! Io ti spiego ciò che più ti interessa se tu in cambio ti impegni ad imparare quello che voglio io! Mi sembra uno scambio equo, dato che non faccio pagare tua madre per le lezioni che ti do!».

«Va bene, è giusto….  Ma mi sembra incredibile che si possano imparare a memoria cinquantatre lettere. Ci metterò una vita».

«Tu non hai neanche la più pallida idea di cosa si può imparare a memoria, Loraisan. E un giorno che le avrai imparate bene, e starai imparando innumerevoli altre cose a memoria, ti stupirai di aver temuto di non esserne capace. Perché come hanno imparato tante generazioni di uomini e donne prima di te, imparerai anche tu. Se pensi di essere abbastanza grande per capire cosa è l’alchimia, lo sei sicuramente anche per imparare a memoria le lettere. Ora forza: dimmi altre nove parole che cominciano per “A”!».

Velthur era riuscito a motivarlo fortemente.

Gli aveva fatto capire che se solo avesse imparato a leggere e scrivere, lui gli avrebbe potuto far dischiudere un regno di segreti che lui bramava di conoscere. E infatti dimostrò un grande impegno fin dall’inizio, anche se mostrava anche fare parecchia fatica. Velthur si accorse in seguito che aveva una straordinaria memoria per tutto quello che lo interessava di più, mentre invece aveva molte più difficoltà a ricordare ciò che lo interessava di meno.

Alla fine della lezione però Loraisan esigette una piccola gratifica.

«La prego, signor medico. Ora che ho cercato di imparare le lettere, posso dare un’occhiata a uno dei suoi libri?».

«Prima di riuscire a leggere anche una sola frase, devi imparare tutte le lettere o quasi».

«Non voglio leggerli, voglio solo poter vedere qualche figura. Mi piace guardare le figure dei libri!».

«Ovviamente. E a quale bambino non gli piace? Va bene, ti farò vedere un libro con delle figure. Un libro di storia, magari….».

LOVECRAFT 282: COMINCIA IL MISTERO DE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO".

giovedì 17 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 251° pagina.


La scrittura dei Thyrsenna era di tipo alfabetico-sillabico ed era composta di ben cinquantatre lettere, alcune che indicavano un singolo suono, altre che indicavano una sillaba.

Per questo, non era semplice impararlo in breve tempo. Per fortuna, a parte la numerosità dei segni, non aveva altre complicazioni. Le maiuscole non erano sostanzialmente diverse dalle minuscole, dato che venivano indicate solo da un piccolo cerchio sopra di esse. E non c’era sostanziale differenza fra la lingua scritta e quella parlata.

Ma anche se Loraisan era volenteroso, era anche molto curioso, e non poteva fare a meno di fare continue domande al dottore.

Anche la prima lettera dell’alfabeto thyrseniakh era la “A”, ed era la prima lettera della parola “aelkhameiakh”, cioè alchimia.

«Forza, Loraisan. Dimmi dieci parole che cominciano per “A”!».

«Alchimia! La parola che preferisco! Dottore, posso fare una domanda, prima di dirvi le altre nove?».

«Sentiamo!».

«Cosa vuol dire “alchimia”? Io sento sempre parlare di “alchimia” e di “alchemico”, ma non so cosa vuole dire. Cos’è una cosa “alchemica”? Cosa vuol dire “alchimia”?».

«Sei troppo piccolo per capire queste cose…..».

«Uff! Anche voi mi dite “sei troppo piccolo per capire”! Ma come fate a sapere tutti quanti che io sono ancora così piccolo e stupido da non capire? Cosa ne sapete, se sono in grado di capire oppure no? Io so che l’alchimia è qualcosa che viene fatto dagli alchimisti in certi laboratori mischiando certe sostanze…. Cosa c’è di così difficile da capire? Quanto tempo dovrò aspettare, prima che qualcuno si decida a insegnarmi cos’è l’alchimia?».

«Ehi, giovanotto! Che impertinente impazienza! Non ti sembra di essere presuntuoso?».

«E perché? Voi provate a spiegarmi cos’è l’alchimia, così mi convincerò di essere “troppo piccolo” per capire queste cose che solo i grandi possono capire…. cosa vi costa?».

Mentre Loraisan diceva quelle parole, Velthur guardava i suoi grandi, profondi occhi neri ed ebbe una sensazione stranissima, nel sentire quella voce parlare in quel modo, con quella sicurezza e quella proprietà che non aveva mai visto in nessun bambino. Ebbe come l’impressione di sentir parlare con una persona adulta che cercasse di imporgli a tutti i costi la sua volontà, che reclamasse un diritto che non ammetteva rifiuti o ritardi.

«Va bene, qualcosa ti posso spiegare. In fin dei conti, prima o poi dovrai impararlo. Per prima cosa, ti insegno da dove viene il nome dell’alchimia, e l’origine di essa.

Il nome dell’alchimia deriva da “Ael Khaam”, che in un’antica lingua straniera significa “la dimora di Khaam”, che era il nome di un antico re. La terra di Khaam si trova a sud, di là dal mare, nella grande isola di Edan Synair. È da quella terra che secondo le antiche cronache leggendarie venne l’antenato del nostro popolo, il re Ankhaymon. Ne hai sentito parlare?».

«Sì, me ne ha parlato una volta la nonna Aranthi. Mi ha detto che era discendente del re Manowa, che scampò al Diluvio con la sua famiglia e con alcuni dei suoi sudditi».

«Sì, ma forse non ti ha detto che in quelle epoche remote, prima del Diluvio, l’alchimia era diffusa in tutto il mondo, e le arti alchemiche dei Giganti dominavano incontrastate. Quando avvenne il Diluvio, quasi tutto il sapere dell’umanità andò perduto, a parte quello che si salvò nella grande Arca di Manowa.

Quando quell’antico re patriarca approdò ad Edan Synair dopo che le acque del Diluvio si furono ritirate, egli divise l’isola, che era rimasta pressoché deserta, in tre grandi regioni e ne assegnò una per ciascuno dei suoi tre figli.

A Iasabat, il più giovane, dette la regione del sud, dove fu fondata Iubar, la grande Città dalle Cento Torri. A Shaim, il più vecchio, dette la regione centrale, e a Khaam dette la regione a nord.

Khaam era il più sapiente, e nel suo regno si preservò, più che negli altri due, il sapere antico, e in particolar modo le arti alchemiche.

Per questo l’alchimia porta questo nome. Perché è quell’insieme di arti che veniva praticata soprattutto nella terra di Khaam, che preservava il sapere antico.

LOVECRAFT 281: L'INIZIO DE "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO".

LOVECRAFT 280: INTRODUZIONE A "L'OMBRA CALATA DAL TEMPO"

mercoledì 16 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 250° pagina.


ho immaginato di andare fin sulla Luna per incontrarne gli abitanti, proprio come fece il principe delle Montagne della Luna».

«Prukhu ti ha raccontato altre storie, magari più paurose? Forse ti ha raccontato storie di fantasmi e mostri che ti hanno spaventato particolarmente?».

«Qualcuna…. per esempio, mi ha raccontato la storia del fantasma della villa degli Amunatequi….. sapete la storia, vero? È quella del fantasma dello schiavo che fu decapitato dal suo padrone perché gli aveva sedotto la nipote, e che perciò vaga per la villa di notte portando la sua testa in mano…. Però a me quelle storie non fanno paura. Mi fanno solo tristezza. Voglio dire: poveri fantasmi! Sono tutte storie di persone infelici che in vita hanno subìto grandi ingiustizie, e il ricordo di tali ingiustizie le tormenta da secoli. Non è mica giusto! È solo quando sono da solo, che mi fanno paura…. Cioè… non so neanche se sono fantasmi, quelli di cui ho paura.

È qualcosa di invisibile, che mi osserva, ma non so dove sia, non è come i fantasmi di cui sento narrare le storie, altrimenti non mi farebbero paura…. non vi so dire altro.

A poi, a me piacciono le storie del lontano passato, le  leggende dei tempi antichi, che siano paurose oppure no. Quelle sì che mi spaventano, a volte. Una volta Prukhu mi ha parlato del regno sotterraneo dei Nani, mi ha raccontato che è antichissimo, più antico del Diluvio, e che dentro le grandi gallerie costruite dai Nani ci sono molti misteri e molte cose sconosciute agli Uomini…. Quando mi ha raccontato di quel regno, devo dire che mi sono spaventato… ho avuto paura all’idea di quelle gallerie sotterranee, e di quello che vi sarebbe nascosto.».

«Allora hai paura che qualcuno di quei misteri sorga dal terreno?».

«Sì…. sì! È anche per quello che mi fa paura il Santuario d’Ambra, ma anche le catacombe qua vicino. Alle volte penso che potrebbe aprirsi un buco nelle pareti delle tombe, e saltare fuori qualcosa di spaventoso dalle gallerie dei Nani…. Prukhu mi ha detto che nessuno sa fin dove arrivino quelle gallerie e che alcune di esse si spingono fin sotto le città degli Uomini. E allora ho immaginato che….. che qualcuna delle loro gallerie scavate nelle Montagne della Luna arrivasse fino a qui, sotto Arethyan, e che magari i Nani di notte uscissero di nascosto…. e assieme a loro uscissero le altre cose che vivono nel loro regno sotterraneo. E che magari quelle stesse cose ci entrino in casa!».

«Cose di che tipo?».

«Ma… per esempio i Basilischi Bianchi. Prukhu mi ha detto che il regno dei Nani è sorvegliato da bestie orrende, simili a una via di mezzo fra lucertole, salamandre e serpenti, ma bianche, perché sono albine, con delle creste rosse come quelle dei galli, e anche i loro occhi sono rossi, come quelli dei Sagusei.

I Basilischi Bianchi sono allevati dai Nani proprio per impedire ai nemici di tentare di invadere il loro regno per rubarne le ricchezze…. Se qualcuno tentasse di entrare nelle loro gallerie, verrebbe divorato da questi esseri. E io ho pensato: e se qualcuna di quelle creature scappasse ai suoi padroni? O se i Nani decidessero di invadere il nostro regno inviandoci un esercito di Basilischi Bianchi? Verremmo tutti divorati da quei mostri? La notte, quando non riesco a dormire e ascolto il silenzio per sentire qualche rumore strano, non posso fare a meno di pensarci…..».

Velthur gli sorrise, cercando di rasserenarlo.

«Prukhu ti ha raccontato una favola, una leggenda. Se anche i Basilischi Bianchi esistono, qua non se ne sono mai visti, e nemmeno si è mai trovata una delle gallerie dei Nani. E poi il regno dei Nani è sempre stato in pace con noi. Penso che per quanto riguarda questa storia, puoi dormire sonni tranquilli. Cerca di non pensarci più».

«Va bene, ci proverò».

Ma l’aveva detto solo per far contento Velthur, perché non era affatto convinto. Cosa ne poteva sapere il dottore di cosa si nascondeva nelle profondità della terra, fra il regno degli Inferi e il regno dei mortali? Prukhu aveva detto che quelle erano cose che neanche gli Uomini più saggi potevano conoscere, e solo i Nani, e coloro a cui glielo concedevano,  potevano possedere i segreti dei Nani.

Dopo quella discussione, il dottore cominciò la sua lezione. Per caso, conservava ancora il vecchio abbecedario che aveva usato quando era bambino. Lo consegnò a Loraisan e gli disse di aprirlo.

LOVECRAFT 279: L'OMBRA CALATA DAL TEMPO

LOVECRAFT 278: IL TEMA DELLO "SCAMBIO MENTALE" IN LOVECRAFT E ALTRI AUTORI

martedì 15 novembre 2016

RISPOSTA A EVID EONE SUL "MISTERO" DEI 46 CROMOSOMI UMANI

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 249° pagina.


occhi luminosi nel buio, o qualcos’altro di orribile che non riesco neanche ad immaginare, ma non vedo niente. Allora chiudo gli occhi e prego Sil di farmi riaddormentare. Non sempre succede. A volte sto per delle ore sveglio nel mio letto, e passo la notte con la paura che qualcosa mi tocchi nel buio.

Quando devo andare a fare la pipì, poi, per me è quasi impossibile. Non ho neanche il coraggio di muovermi nel mio letto, figuriamoci andare fino al pitale. A volte sto lì nel letto a trattenere la pipì fino a quando non ce la faccio più….. allora la paura di farmela addosso diventa più grande di quella di vedere un mostro o uno spirito, e allora mi alzo…. I miei fratelli e sorelle maggiori mi prendono tutti in giro perché ho sempre paura del buio, di stare da solo…. ma io non ci posso fare niente! Ho provato a farmi coraggio, ma non ci riesco!».

«Loraisan, non è che i tuoi fratelli e sorelle possono averti raccontato delle storie paurose che ti hanno spaventato?».

«Beh, sì, di storie da paura me ne hanno raccontate, non solo loro. Qualcuna me l’ha raccontata anche il vostro amico Prukhu. E poi, c’è una cosa che mi ha sempre terrorizzato: il Santuario di Silen. Quando mia madre mi ci porta per fare le offerte al Dio, ho sempre paura».

«E perché? Cosa c’è nel Santuario che ti spaventa?».

«Ma la mummia del Gigante, naturalmente! Quella statua di vetro, con tutte le ossa dello scheletro che si vedono dentro, anch’esse di vetro…..è spaventoso! Ogni volta che lo vedo, mi domando se sia veramente morto. Quando sono nel mio letto la sera, nel buio, e non riesco ad addormentarmi, sto sempre lì ad immaginare che possa riprendere vita, che possa uscire dalla sua tomba e vagare di notte nei campi…. fino ad arrivare a casa mia! Ogni volta che mi trovo nel Santuario, cerco di guardare lontano dal sarcofago, ma mia madre vuole farmi pregare sulla tomba del Gigante, perché dice che il suo spirito è un intermediario fra Silen e gli Uomini, come tutti gli spiriti degli antichi Eroi, che sono intermediari fra gli Dei e gli Uomini. E mi costringe ad inginocchiarmi di fronte al suo sarcofago, che per fortuna a volte è nascosto dai fiori e dalle monetine lasciati attorno e sopra la tomba».

«Quella tomba fa paura anche a molti adulti, ti assicuro. Ma allora anche le tombe del cimitero qui vicino ti fanno paura? Se vedi i corpi dei nobili e dei sacerdoti dentro i sarcofagi trasparenti, ti fanno paura anche quelli?».

«Sì, abbastanza, ma non come la mummia di cristallo del Gigante. Quelli hanno l’aspetto di persone normali, di Uomini come me e voi. Il Gigante, invece…. innanzitutto è un Gigante, e poi si vede lo scheletro attraverso la carne diventata vetro…. è una cosa da incubo!».

«Hai gli incubi, Loraisan?».

«Qualche volta. Però devo dire che in genere faccio sogni belli. Per fortuna. Non so come farei, se sognassi spesso le cose che mi fanno tanta paura da sveglio.

Qualche volta sogno di essere in una casa sconosciuta, deserta, in rovina, e di entrare in una camera buia, e di sentire voci nel buio che mi chiamano, che ridono…. Poi all’improvviso una grande luce rossa e dorata illumina la stanza e io vedo, vedo….. vedo ciò che mi chiamava dall’ombra!».

«E che cosa vedi?».

«Niente! Non vedo niente…. o forse non mi ricordo cosa ho visto. Non lo so. In quel momento mi sveglio e non mi ricordo cosa ho visto, o se ho visto qualcosa. Credo che quello che vedo sia così orribile che non riesco a sopportarne la vista».

«E il Gigante di cristallo? L’hai mai sognato?».

«Grazie agli Dei, no!».

«E altre cose che sogni? Non solo gli incubi, ma anche altri sogni, magari più belli».

«Beh, sogno spesso di volare. Certe volte volo a pochi metri da terra, altre volte invece volo molto in alto, e questo mi fa anche paura. A volte addirittura sogno di volare velocissimo sopra le case, i campi, e arrivare fino alle montagne…. una volta ho sognato di volare fin sulla Luna!».

«Sulla Luna, addirittura! Hai una bella fantasia!».
«Perché una volta, un anno fa, Prukhu mi ha raccontato la leggenda del principe delle Montagne della Luna che sposò la principessa della Luna. Quella leggenda mi è così piaciuta che tante volte

LOVECRAFT 277: CONCLUSIONE DE "LA COSA SULLA SOGLIA"

lunedì 14 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 248° pagina.


Speravo di diventare un ufficiale un giorno. Se diventi ufficiale, ti insegnano a leggere e scrivere a carico dello stato. Ma era una vita che non faceva per me… mio figlio invece potrà imparare fin da bambino, e quando sarà un uomo, avrà già modo di fare fortuna».

«Purtroppo non basta avere una buona istruzione per farsi valere nel nostro paese, Larsin» lo redarguì Velthur «Ci vogliono anche le amicizie giuste. Le amicizie dei sacerdoti, soprattutto. Oh beh…. Syndrieli è una tale baciapile che riuscirà a trovargli le amicizie giuste….».

Velthur avrebbe anche voluto dirgli che forse Loraisan sarebbe stato così intelligente, ma non abbastanza furbo, da non riuscire ad essere amico dei sacerdoti, ma se lo tenne per sé.

La mattina dopo, Loraisan venne a casa del dottore. Sembrava molto emozionato, ma anche spaventato. Da quel che Velthur riuscì a capire, il bambino aveva paura di fallire, di scoprire che imparare a leggere e scrivere fosse sopra le sue capacità. Velthur, da quel giorno, cominciò a intuire quanta disistima di se stesso sembrasse albergare nell’animo di Loraisan.

Abituato a essere il più piccolo e debole della famiglia, iperprotetto, vittima della gelosia di alcuni dei fratelli più grandi, pensava di essere un tipo poco in gamba. L’inferiorità fisica, che era un handicap notevole per uno delle classi inferiori, stava formando in lui una personalità troppo pessimista sulle proprie capacità. Sicuramente, ci sarebbe voluto molto tempo perché si rendesse conto della superiorità delle sue capacità intellettuali. Ma d’altra parte aveva solo sette anni. E Velthur aveva così tante cose da insegnargli, e da studiare in lui.

Il medico non aveva mai avuto l’occasione di poter parlare a lungo con Loraisan, di potergli fare tutte le domande che voleva, e non semplicemente sul suo stato di salute.

E quindi la prima lezione fu inframmezzata da molte domande su cosa piaceva o non piaceva a Loraisan, come erano i suoi rapporti con gli altri membri della famiglia, cosa lo spaventava e di cosa sentiva il bisogno.

«Tua sorella mi ha detto che hai tanta paura di rimanere solo, sei terrorizzato dall’idea di rimanere dentro una camera senza nessun altro. Come mai? Cosa ti spaventa tanto?».

«Non lo so. Mi spaventa e basta. Quando sono solo…. Beh, è come se non fossi veramente solo, è quello che mi spaventa. È come se anche in quei momenti ci fosse qualcuno nascosto da qualche parte, o che è invisibile, che mi è vicino e mi osserva. Appena sono solo, mi sembra di sentirlo, e che possa comparire da un momento all’altro, magari alla finestra….».

«Qualcuno…. chi? Chi ti osserverebbe, e perché sarebbe invisibile? Pensi che possa essere uno spirito?».

«Io…. non lo so. Non so chi o cosa sia, non so se sia uno spirito o no, non so come possa essere invisibile e come possa apparire improvvisamente, ma io sono terrorizzato all’idea che quel qualcuno mi appaia di fronte…. è la cosa che mi spaventa di più. Di doverlo vedere, ho paura. Perché sono convinto che sia qualcosa di orribile, di veramente spaventoso».

«E… non sai dire che aspetto abbia?».

«No, non lo so. So solo che se lo vedessi, morirei di paura. Perché sicuramente sarebbe orribile, bruttissimo, spaventoso».

«Come fai a esserne sicuro, se non l’hai mai visto? O magari sì?».

«No, io non ho mai visto né sentito niente in vita mia. Eppure appena rimango solo, ho la sensazione che quella cosa sia nei paraggi, magari dietro la porta, o nascosto nell’ombra, o che se ne stia  invisibile alle mie spalle, che mi osservi da poca distanza. Me lo sento sempre addosso, e quando ho la sensazione che ci sia rimango immobile, non riesco neanche a scappare via, per cercare qualcuno. Sono terrorizzato e non ci posso fare niente!».

«Pensaci bene, Loraisan: sei sicuro di non aver mai visto o sentito niente di strano?».

«Io…. no. Sono sicuro. Mi guardo sempre attorno quando sono solo,…. cioè quando ho il coraggio di guardarmi attorno, ma non vedo niente. A volte sono così spaventato, che non ho neanche il coraggio di voltarmi, per vedere alle mie spalle. Fa ridere, vero? Eppure non posso farci niente, ho tanta paura e basta.
 E non sento neanche rumori strani. Quando mi sveglio la notte, apro gli occhi e sto a guardare il buio, e mi immagino di vedere, che so, delle grandi forme nere vicino al mio letto, o di vedere degli

LOVECRAFT 276: L'ORRORE FINALE NE "LA COSA SULLA SOGLIA"

domenica 13 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 247° pagine.


Le domande che ti fa dimostrano che è curioso della vita, che vuole conoscere le cose. È un’ottima cosa,  potrebbe diventare un uomo molto colto, un sapiente illustre.

Ti racconto una cosa che ha fatto a casa mia, quando è venuto accompagnando sua sorella Eukeni un paio di mesi fa, quando credeva di essere rimasta incinta appena subito dopo aver avuto il permesso di poter portare ragazzi in camera sua, ricordi?

Già altre volte era rimasto affascinato dal vedermi scrivere, e mi aveva detto che avrebbe tanto desiderato sapere leggere e scrivere. A un certo punto, mentre parlavo con Eukeni, lui di nascosto ha preso un foglietto di carta e il mio stilo e ha cominciato a scarabocchiare, cercando di imitare il gesto di scrivere. Ha scritto lunghe righe di scarabocchi, che per lui erano scrittura.

Capisci, Syndrieli? Lui giocava a fare la persona che sa leggere e scrivere. E io non l’ho rimproverato per aver usato le mie cose. Gli ho chiesto invece se davvero desiderava leggere e scrivere, e lui ha detto che gli piacerebbe tanto saper soprattutto leggere, perché così potrebbe capire i libri come quelli che ho nella mia libreria e poter così “conoscere tutte le cose”.

E appunto per questo volevo parlarti: accetteresti che io gli insegnassi a leggere e scrivere? Se imparasse, potrebbe poi intraprendere degli studi, forse persino andare alle Alte Scuole ad Enkar, diventare un maestro di legge, o di storia e letteratura, o di qualche disciplina alchemica… non ti piacerebbe questo?».

«Ma Velthur, anche se riuscisse ad imparare a leggere e scrivere, noi non abbiamo soldi sufficienti per mandarlo in una delle Alte Scuole in città, so che ci vogliono almeno cinque anni per avere un diploma che ti dia un mestiere…..».

«Gliele pagherei anche io. Divideremmo le spese, e sicuramente ce la faremmo a mantenerlo agli studi».

«Sempre se poi si dimostrerà bravo….».

«Se sarà bravo, lo capirò presto. Uno studente è bravo fin dall’inizio, in genere. Dammi la possibilità di provarci, ti prego. È un’occasione da non perdere».

«E quando avrà imparato l’alfabeto, che libri gli farai leggere? Non è che me lo indottrini con la tua strana religione?».

«Ti prometto solennemente che gli farò leggere solo cose che tu approverai. Gli darò da leggere innanzitutto i testi del culto di Sil, oltre che tutte le grandi opere classiche della letteratura del nostro popolo, affinché diventi esperto delle nostre tradizioni e di tutta la sapienza dei Thyrsenna. Quando poi sarà adulto, deciderà lui che cosa leggere e imparare. E ti prometto che farò tutte le mie lezioni in presenza tua o di un altro tuo familiare, così non penserai che lo indottrini sull’Aventry».

«No, non pretendo che arrivi a tanto. Mi fido. In fin dei conti non hai mai provato a convertire nessuno dei tuoi amici o pazienti. A tal punto che alle volte non ti capisco. Voglio dire…. se io fossi un’Avennar, cercherei di convertire gli altri al mio stesso culto….».

«Diciamo che noi crediamo che la nostra dottrina di vita non è per tutti».

«Già, vi sentite speciali…. ma se pensi che Loraisan sia anche lui speciale, anche su quello voglio fidarmi. Nessuno della nostra famiglia è mai diventato una persona istruita, nessuno è riuscito a diventare una persona importante. Se Loraisan potrà diventare qualcosa di meglio di un contadino con la schiena sempre china per lavorare la terra, bisogna che ci provi. Lui è così gracile. Se riuscirà ad avere una vita più agiata della nostra, magari ce l’avrà anche più lunga di quello che io e Larsin temiamo che gli sia destinata…».

Velthur avrebbe voluto dirle che, per quello che ne sapevano, Loraisan avrebbe potuto avere una vita più lunga di qualsiasi altro essere umano, ma non avrebbe potuto spiegarlo, e ancora una volta, come era successo tante altre volte in quei lunghi sette anni, sentì tutta la frustrazione di essere l’unico a ricordare la verità sul bambino.

Rimasero d’accordo che Loraisan sarebbe andato a casa del dottore due volte alla settimana, per un paio d’ore, per imparare a leggere e scrivere.

Quando lo venne a sapere Larsin, ne fu addirittura entusiasta.
«Così avrà la fortuna che non ho avuto io. Mia madre avrebbe voluto che potessi imparare a leggere e scrivere, ma non aveva i soldi per farmi studiare. Per questo mi sono arruolato nell’esercito.

LOVECRAFT 275: LA FOLLIA DI EDWARD NE "LA COSA SULLA SOGLIA".

sabato 12 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 246° pagina.


Fin dalle prime volte che l’aveva tenuto in braccio, il piccolo era sempre rimasto attirato dal lucente tetraedro trasparente, al cui interno i raggi di luce si intersecavano a formare angoli e lati illusori, che rendevano quasi incomprensibile la sua forma.

Ogni volta che ne aveva avuto la possibilità, Loraisan lo prendeva in mano e lo rigirava, guardandolo come ipnotizzato, e il dottore ogni volta lo lasciava fare, e studiava il bambino che giocava con l’amuleto per lunghi minuti, silenzioso, attonito, con i suoi grandi occhi neri, mentre cercava di capire ciò che non era comprensibile neanche agli adulti.

In quei momenti, il dottore spiava le sue reazioni, come anche in tante altre occasioni, per vedere se nel suo comportamento ci fosse qualcosa di anormale, qualcosa che rivelasse caratteristiche insolite o sconosciute. Per lui, il bambino era attirato dalla Chiave d’Argento perché aveva a che fare con l’Altrove, esattamente come lui.

Il dottore conosceva ogni centimetro del corpo del bambino. L’aveva osservato, auscultato, palpeggiato in ogni parte, alla ricerca di anomalie di qualsiasi tipo. Ma non aveva trovato niente, non c’era nulla di anormale in lui. Era solo molto gracile. Nient’altro.

Allora aveva cominciato a spiare il suo sviluppo, per vedere se almeno lì si sarebbe rivelata qualche anomalia. E lì infatti qualcosa l’aveva notato.

Loraisan aveva imparato a parlare molto precocemente. E dimostrava una curiosità, un’intelligenza e una capacità di memorizzare le parole altrui veramente insolita per la media della sua età.

A un certo punto, quando il bambino aveva ormai sette anni, Syndrieli cominciò a lamentarsi

dello strano carattere di Loraisan.

«Non corre, non gioca cogli altri bambini, tende a stare in disparte, e fa sempre un sacco di domande ai grandi. Mi tormenta in continuazione con le sue strane domande: mamma, cosa c’è aldilà delle montagne? Mamma, cosa c’era prima del Diluvio? Mamma, da dove viene il nostro popolo? Mamma, è vero che ci sono popoli dove tutti hanno i capelli rossi come il pelo di Menkhu? Mamma, è vero quello che mi ha raccontato Prukhu sull’antica regina Maeliani I? Mamma, cos’è l’alchimia? Quando una cosa è alchimia oppure no? E io la maggior parte delle volte non so cosa rispondergli. Lo sai, a malapena so leggere e scrivere, sono una povera ignorante.

A volte è assillante, ed è tanto strano. A volte se ne sta lì fermo, che sembra pensare a qualcosa, ma se gli si chiede a cosa pensa, non vuole dirtelo. A volte scappa via e si rifugia nel bosco, per stare da solo. Poi però ritorna dopo poco tempo, perché dice che ha paura a restare nel bosco da solo.

Credo che sia colpa delle storie che gli racconta Prukhu, ogni volta che capita di qua. Il bambino vuol sempre farsi raccontare storie nuove, e gli piacciono soprattutto quelle più strane e misteriose. Sembra quasi che gli piaccia farsi spaventare.

Ha sempre paura di tutto, paura del buio, paura di rimanere da solo, eppure quando è assieme alla gente sta zitto e buono, non ha il coraggio di parlare con nessuno, non dice mai nulla, non gioca…. Insomma, ho paura che venga su…. sì, insomma…. siamo sicuri che non diventerà… un matto? Uno di quelli che parlano da soli e raccontano storie prive di senso e credono di essere Rhoannikh il Grande?».

«Quello credo che sia un rischio che corrono tutti, lo dovremmo sapere bene noi di Arethyan…. considerando quello che è successo qui sette anni fa e di cui dobbiamo ancora pagare le conseguenze. Forse non lo sai, ma la gente di fuori ci chiama il Paese della Follia».

«Oh, lo so, lo so…. e chi è che non lo sa? Ma preferirei che mio figlio non dovesse diventare uno dei motivi per cui ci chiamano così».

«Il fatto di fare delle cose stravaganti, di avere un carattere un po’ strano non è un buon motivo per pensare di dover diventare pazzi. Ma in ogni caso, non credo che Loraisan diventerà pazzo, perlomeno non più di quanto lo stia diventando Erkan…. ».

«Ti prego, Velthur….».
«Volevo dire che secondo me Loraisan è semplicemente molto più intelligente dei bambini della sua età, è molto precoce. Io lo osservo e lo ascolto tanto quanto te, anche se non ho modo di vederlo altrettanto spesso, e a me sembra un bambino dall’intelligenza e dall’immaginazione vivacissime.

LOVECRAFT 274: LA MISTERIOSA SCOMPARSA DI ASENATH NE "LA COSA SULLA SOGLIA"

giovedì 10 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 245° pagina.


quanto prima, e ti ridarà il tuo prezioso amuleto che tanto desideri riavere per potermi impedire di leggere nei tuoi pensieri».

E lasciò il dottore da solo con i suoi dubbi, i suoi pensieri, e un totale senso di solitudine. Come se fosse destinato ad essere l’unico vedente in un paese di ciechi.











PARTE SECONDA:

IL FIORE DEL SEGRETO





CAP. XXI: IL BAMBINO DAGLI OCCHI NERI





Il tempo passò. Passò lento, scandito pigramente dai cicli del tempo, delle stagioni, degli anni.

Quello che doveva maturare maturò e portò frutto abbondante.

Quello che doveva essere dimenticato, fu dimenticato, lentamente, impercettibilmente.

Il piccolo Loraisan crebbe.

Loraisan Ferstran, il figlio di Syndrieli Ferstran e del suo compagno Larsin Arayan.

Per tutta la gente di Arethyan, era quella la verità dei fatti.

Dicevano tutti che era un bambino bellissimo, il più bello di tutti i figli della coppia. L’ottavo e l’ultimo.

Ma che ci fosse anche qualcosa di strano in lui, era apparso altrettanto evidente a tutti quanti. Qualcuno diceva che, essendo il più piccolo e il preferito dai genitori, era stato troppo viziato, e perciò era così strano.

Ma altri, meno superficiali e più saggi, dicevano che era un bambino troppo buono per essere viziato. Sembrava solo terribilmente timido. La gente sembrava spaventarlo, e preferiva sempre stare da solo. Era bello, ma strano.

E inoltre era malaticcio, non faceva altro che ammalarsi con frequenza preoccupante. Si stava facendo, una dopo l’altra, tutte le malattie infantili possibili ed immaginabili, oltre a disturbi vari come eczemi sulla pelle, diarrea, raffreddori, e altre strane cose che gli davano vertigini, debolezza, tremori, pallore. Molti pensavano che non sarebbe riuscito a diventare adulto.

In un paese dove la mortalità infantile era molto alta, era naturale pensarlo. D’altra parte, bastava vederlo. Esile, di carnagione pallidissima, gracile. Sembrava strano che riuscisse ad avere un così bel volto con tutti i malanni che aveva. Il suo corpo sarebbe stato perfetto ed armonioso, se non fosse stato così magro.

Per questo, una presenza costante nella sua vita, fin dall’inizio, fu quella del dottor Laran.

A dire il vero, il medico era una presenza che andava ben aldilà della sua professione. Velthur aveva molte attenzioni per Loraisan, chiedeva di lui tutte le volte che vedeva Larsin, e veniva a trovarlo una volta alla settimana.

Tramite Loraisan, Velthur e Syndrieli si erano avvicinati, avevano imparato ad accettarsi l’un l’altro. Syndrieli riusciva a non considerare più il medico come un miscredente nemico degli Dei, e Velthur riusciva a non considerarla come una noiosa bigotta. Per il bene di Loraisan, quando si trovavano assieme, parlavano del bambino e basta.

Per Loraisan, il dottore era stato una presenza significativa fin dall’inizio, soprattutto per un particolare che l’aveva sempre affascinato: lo strano ciondolo brillante che gli pendeva sempre dal collo, e da cui non si separava mai o quasi.

LOVECRAFT 273: ANCORA SULL'AMBIGUITÁ SESSUALE NE "LA COSA SULLA SOGLIA".

mercoledì 9 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 244° pagina.


custodisca in tutti gli anni a venire. Tu non basti, Velthur. Abbiamo bisogno di una persona che gli stia vicino ogni giorno. Tu non lo puoi fare, ma lo può fare lui».

«Già, ma se gli avete tolto una parte della memoria, gli avrete tolto il ricordo di aver fatto un patto con voi e del perché l’ha fatto… o no?».

«Oh, che bisogno c’è che si ricordi del suo patto? Il suo cuore era già disposto a fare ciò che vogliamo che faccia. Lui ama veramente quel bambino, perché è tutto quello che gli rimane di Thymrel. Noi non abbiamo cancellato il suo ricordo, non possiamo cancellare del tutto i ricordi di nessuno. Ma possiamo velarli, nasconderli nelle pieghe dell’oblio della mente, là dove voi Uomini non andate mai a guardare perché ne avete paura.

Il suo dolore resterà sepolto, ma il suo amore no. E farà il suo compito».

«Il suo compito per cosa? Cosa porterà tutto questo? Che futuro avrà? Come sarà il suo futuro senza il ricordo di Thymrel, con un figlio che crede essere suo e che invece viene dall’Ignoto, da qualcosa che terrorizza voi ancora di più di quanto terrorizzi noi?».

«Avrà una vita lunga e serena. Fintanto che i suoi ricordi rimarranno nell’oblio, sarà sereno».

«Lo spero per te. Ma come hai fatto a cancellare il ricordo di Thymrel dall’intero villaggio, a parte me? Come mai invece non l’hai tolto a me?».

«Ma stai scherzando? Tu devi ricordarti tutto, Velthur. Ogni singolo particolare di tutta questa vicenda. Sei tu che devi scoprire cosa sta succedendo, tu e chi ti seguirà. Comunque, devo ammettere che non è stato facile far scendere l’oblio sull’intero villaggio. In questi piccoli paesi tutti conoscono tutti, tutti sentono parlare di tutto, e quindi bisognava penetrare nelle menti di ogni paesano, ogni residente nelle fattorie vicine, tutte le persone che conoscono i Ferstran, e cancellare il ricordo di Thymrel, e sostituirlo con altri ricordi falsi.

Cambiare la memoria degli Uomini non è tanto difficile, perché loro stessi tendono a modificare i propri ricordi, allontanandoli dalla verità, per adattarli ai loro bisogni. Lo è stato invece modificare così tante memorie. Ho dovuto chiedere l’aiuto dei miei connazionali. Ci siamo messi in trenta Gnomi, a percorrere il paese di notte ed entrare di casa in casa a sussurrare nel sonno a tutti quanti la verità che avrebbero dovuto credere d’allora in poi. C’abbiamo messo una settimana intera prima di compiere l’opera, ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

L’osso più duro ovviamente è stato Larsin, e ce lo siamo tenuto per ultimo.

È stato un capolavoro».

«Un capolavoro dell’inganno».

«Oh, ti prego, non cominciare con la tua strana morale dell’Aventry. In fin dei conti, un medico come te dovrebbe capire. Quando un organo va in cancrena, bisogna amputarlo per salvare il corpo ancora sano. O no?».

«Un conto è amputare il corpo, un conto è amputare lo spirito. Avete tolto a Larsin la possibilità di superare il proprio dolore con la forza del suo animo.  Avete fatto qualcosa di peggio di quando offrite il vostro vino drogato ai viandanti che hanno la sventura di capitare nelle vostre orge notturne».

«Non tutti gli Uomini hanno il potere di vincere la propria sofferenza. Larsin non era abbastanza forte per vincere. Era l’unico modo in cui potevamo aiutarlo. Tu, invece, non ne avresti avuto nessuno. Avresti perso».

«Questo non potrò saperlo mai».

«L’importante è che tu hai riavuto il tuo amico come era un tempo, prima di quella maledetta mattina in riva al fiume, in cui cominciò tutto».

Detto questo, lo Gnomo riprese definitivamente il suo vero aspetto, e si staccò fluttuando dall’albero, sospeso in aria con le braccia incrociate sul petto, levitando a tre metri dal suolo, verso il bosco che copriva la collina.

Allontanandosi, Azyel si voltò verso il dottore un’ultima volta, e gli gridò il suo ultimo messaggio.
«E non preoccuparti per Harali. Non ha il genio che aveva Aralar, non ne scoprirà i segreti. E ho un’altra buona notizia per te: Prukhu adesso può ritornare a vivere con gli Uomini. Lo rivedrai

LOVECRAFT 272: LA MORBOSITÁ E L'AMBIGUITÁ SESSUALE INSITA NE "LA COSA S...

martedì 8 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 243° pagina.


Non gli rispose. Larsin ne approfittò per fare una visita alla tomba di un amico in un’altra cripta, e per quel giorno non si videro più.

Velthur corse fuori e una volta all’aria aperta, urlò a squarciagola il nome di Azyel.

«Vieni fuori, Gnomo malefico! So che sei ancora qui».

Urlò diverse volte, poi si fermò per riprendere fiato, e per cercare di controllare la rabbia immensa che sentiva dentro.

Poi, gli arrivò quella voce vibrante e profonda dall’alto di uno dei cipressi.

«Te l’avevo detto che avresti voluto rivedermi prima di quanto tu potessi immaginare….».

«Sì, per ucciderti, se possibile!».

«Per questo mi sono messo qua, al sicuro…. voi Uomini siete così amanti della violenza…..».

In cima a uno dei cipressi, una parte della neve sulla cima sembrava disegnare la forma di una folta barba con tanto di baffi, mentre i rami attorno sembravano raffigurare un cappuccio verde scuro.

«Sapevo che le Fate hanno anche poteri di levitazione, ma non ve li avevo mai visti usare….. sarà perché è la prima volta che desidero pestare a sangue uno di voi!».

«Beh, non usiamo spesso questo potere di fronte agli Uomini, sapendo quali ridicole credenze ha suscitato in mezzo a loro….. i vostri artisti ci rappresentano sempre con quelle ridicole e frivole ali di farfalla, sia femmine che maschi! Credono che noi voliamo in virtù di ali invisibili, e se le sono immaginate come ali di farfalla! Ti sembra giusto che ci trattino in questo modo? Non abbiamo ali, abbiamo solo le nostre arti spirituali, che ci permettono di staccarci dal suolo per qualche tempo….».

«Piantala! Non è delle tue inesistenti ali che voglio parlare! Ci sei tu dietro tutto questo, vero?».

«Se ti riferisci al breve ma interessante dialogo che hai avuto adesso con il tuo caro amico, posso dirti solo che ho eseguito il volere delle Tre Madri del Fato, che hanno fatto un accordo con Larsin, il migliore per lui e per tutti».

«Il migliore per voi! Fammi capire: hai rimosso il ricordo di Thymrel dalla memoria di Larsin e di tutta la sua famiglia, e dopo anche di tutte le altre persone che hanno conosciuto Thymrel, fuorché io?».

«Esattamente, dottore. Sei sempre così perspicace…. è per questo che noi crediamo in te, in quello che fai. Sei proprio l’Uomo adatto per questa situazione…».

«Le adulazioni non ti serviranno a niente. Dimmi perché l’hai fatto!».

«Non lo immagini? Eppure ti sei chiesto tante volte perché Larsin sia venuto da noi, alle Colline di Leukun, e sia ritornato così cambiato, libero dal vizio del bere… lui non ti ha mai detto niente perché sapeva che tu non avresti approvato il patto che ha fatto con le Tre Madri del Fato. Si è presentato alla Reggia del Fato, chiedendo quale sarebbe stato il suo destino, e se sarebbe mai riuscito a liberarsi del dolore che lo tormentava.

Le Tre Madri del Fato gli dissero che lo attendeva un futuro di rovina, che avrebbe perso la propria famiglia e persino se stesso, e che per lui ci sarebbe stato solo rimpianto e dolore fino a una morte precoce, perché Thymrel non sarebbe mai ricomparsa, e lui avrebbe vissuto sempre con l’angoscia di non poter sapere qual è stato il suo destino, se sia viva o sia morta.  Per lui non c’era speranza, perché il suo dolore sarebbe stato più forte di lui, a meno che…..».

«A meno che avesse rinunciato al ricordo stesso di Thymrel! Il dolore sarebbe cessato e avrebbe smesso di bere e tutto sarebbe tornato a posto in famiglia, vero? E in cambio di cosa?».

«In cambio di rimanere sempre accanto al piccolo Loraisan e a non lasciarlo mai per nessun motivo al mondo, fino a quando non fosse diventato un adulto».

«Tutto qua? Nient’altro? Solo questo?».
«Solo questo, dici tu? Non ti sembra più che abbastanza? Non ti ricordi cosa ti hanno detto le Tre Madri del Fato? Loraisan è figlio dell’Altrove, a tal punto che non riescono a vederlo nelle loro visioni.  Io l’ho visto, quel bambino, sono entrato in casa sua e prima ancora di scorgerlo dormiente dentro la sua culla, ho sentito un terrore invincibile, simile a quello che ho provato in quel giorno maledetto alla Polenta Verde. Sono fuggito anche quella volta, non ho avuto il coraggio di guardare il suo volto. Nessuno di noi può avvicinarsi a lui! Abbiamo bisogno di uno che lo sorvegli, lo