domenica 6 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 241° pagina.


rammaricò di non avere più al collo la Chiave dei Nani, che in un eccesso di prudenza aveva voluto riaffidare a Menkhu.

Poco dopo il funerale di Aralar finì, e dalla porta delle catacombe uscirono prima Axili con l’abito, il copricapo e gli ornamenti di colore nero e viola, i colori che i sacerdoti indossavano durante i funerali. Dietro di lei seguì Harali, con il capo velato di nero come una qualsiasi donna in lutto, con i due contadini con i cappelli abbassati. Harali non lo degnò neanche di uno sguardo, quando gli passò davanti.

Quando si furono allontanati, entrò nella necropoli a sua volta. Non aveva voluto partecipare al funerale, perché la tensione che si era creata con Harali era per lui insopportabile, ma non avrebbe mai rinunciato a vedere la sua tomba. Era un bisogno irrazionale che doveva soddisfare assolutamente.

Le sale dove si trovavano i sarcofagi dei sacerdoti erano proprio le ultime in fondo alla galleria da cui si diramavano i diversi corridoi e le diverse cripte dove erano sepolte generazioni e generazioni di abitanti di Arethyan e delle campagne intorno, i più poveri in semplici nicchie chiuse da lastre di pietra, i più ricchi dentro lussuosi sarcofagi trasparenti e immersi nel liquido imbalsamante che li preservava per millenni. Ma tutti, ugualmente illuminati dalle lampade perenni che rischiaravano giorno e notte quei luoghi che tutto erano, fuorché oscuri.

E in effetti di fronte all’arco d’entrata della necropoli, come di tutti i cimiteri sotterranei del Veltyan, campeggiava la scritta:



Splenda ad Essi la Tua Luce Perpetua, o Nostra Signora Madre della Vita.



 I sacerdoti di Arethyan e i loro parenti erano disposti in una serie di file dentro tre vaste camere, affrescate con scenari del Cielo Etereo, il regno “oltre le stelle” in cui i Thyrsenna credevano di andare dopo il trapasso se avevano avuto una vita virtuosa e ossequiente al culto di Sil.

I sarcofagi trasparenti scintillavano meravigliosamente per le lampade perenni poste ai piedi dei defunti, anch’esse immerse nel liquido, e circondati da scene di palazzi e giardini celesti, di montagne trasparenti dove le stelle splendevano in pieno giorno, con spiriti beati intenti a godersi la vita eterna più o meno come si erano goduti la vita terrena, ma con piaceri moltiplicati per cento, mentre le figure degli Dei, avvolti di luce sfolgorante, sedevano sui loro troni d’oro e gioielli.

I corpi, perfettamente conservati, sembrava che dormissero.

I cimiteri dei Thyrsenna non dovevano avere nulla di lugubre, perché il culto dei defunti non doveva nutrirsi di tristezza e terrore, tanto che le necropoli apparivano quasi più allegre delle case dei viventi.

L’ultima delle tre sale era quella dell’influente famiglia dei Kalpur, che da parecchie generazioni gestiva il Tempio di Sil di Arethyan. Aralar era stato sepolto là, come altri sacerdoti amici della famiglia.

Ma il suo sarcofago era diverso dagli altri, e posto in un angolo, come a indicare la sua diversità, e quasi rivelando una certa vergogna di averlo posto là, assieme a personaggi della cui compagnia non era degno.

Il suo sarcofago inoltre non era di puro e trasparente vetro alchemico, ma era dipinto di una lacca bianca, chiaramente per non far vedere l’orribile stato dei resti del defunto.

Forse, con il passare dei secoli la lacca avrebbe cominciato a creparsi e scollarsi, e avrebbe lasciato vedere l’interno. E chissà se per allora si sarebbero ancora ricordati dello strano caso dell’eremita di Monte Leccio, e sarebbe stata una sorpresa, per i lontani posteri, vedere come era ridotto quel corpo.

Velthur rimase in contemplazione del sarcofago qualche minuto, poi cominciò a parlargli:
«Se mi puoi sentire, ti dico con tutta convinzione che non mi sento in colpa per quello che ho fatto, non più, almeno. Non dopo aver parlato con Harali, la donna che tu hai irretito, la donna che forse hai corrotto, spingendo anche lei sulla tua strada. Se sono stato io a provocare la tua morte, non me ne pento, perché dimostra che stavi giocando con forze che dovrebbero essere lasciate dove sono.

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