sabato 26 novembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 259° pagina.


molto bene la testa del brigante che veniva sollevata dal boia e fatta vedere a tutta la folla. La morte fa parte della vita. Perché Loraisan non dovrebbe vedere certe cose che tra l’altro sono solo disegnate?».

«Fargli vedere immagini violente fin da bambini li abitua alla violenza, gli fa credere che la violenza è giusta e normale. Sai bene come la penso: l’uomo si deve liberare dalla violenza per raggiungere la perfezione».

«Ma Loraisan non è un bambino avennar…. non vorrai mica educarlo come un Avennar?».

«Tuo figlio non è un Avennar, ma io sono convinto che è un’anima antica, un essere che ha avuto molte esistenze terrene e reca in sé la potenzialità di una grande saggezza, la possibilità di avvicinarsi molto alla perfezione ultima. Io non voglio creare nessun ostacolo al cammino della sua anima. Le mie lezioni sono tese anzi a rimuovere ogni possibile ostacolo alla sua crescita interiore».

«Baaaahhhh! Quando parli della tua religione dici sempre cose che non capisco! Per fortuna che sei l’unico Avennar di Arethyan, o saremmo ancora più pazzi di quello che dicono! Neanche alle feste di Fuflun ti rilassi un poco!».

«Guarda che sei tu che hai voluto parlarmi del mio lavoro….».

«E va bene, non parliamone più. Comunque, cosa ti sembra? Mio figlio potrà imparare presto a leggere e scrivere bene?».

«Ah, senza alcun dubbio! Vedrai, riusciremo a farlo diventare qualcuno!».

«Diventerà anche lui uno spocchioso sacerdote come Maxtran Akapri o un astuto sfruttatore di pellegrini come la maggior parte dei fattori della zona, come ormai stiamo diventando tutti, in questo paese!»

Sbottò Arnith, ormai in preda ai fumi dell’alcool.

«Dacci un taglio, Arnith. Tu quando bevi troppo, diventi cattivo….».

«Dico quello che penso, Larsin!».

Si alzò all’improvviso, pagò il conto e uscì dal Kran Belz, inseguito dalle urla degli altri clienti. Un buffone improvvisato, travestito con una pelle di orso sotto la quale era completamente nudo, cavalcato da una ragazza con una maschera da gatta nera e armata di un grosso mestolo da polenta, lo inseguì fin fuori dall’osteria urlando frasi sconnesse e intimandogli di non andarsene. Arnith gli diede uno spintone e se ne andò.

La ragazza cadde dalla sua cavalcatura, e rialzatasi stava per inseguirlo brandendo il mestolo con intenzioni aggressive, quando intervenne Prukhu, che le offrì una coppa di vino e la supplicò di usare lui come cavalcatura, al posto del suo precedente compagno.

Per fortuna di Arnith, riuscì nel suo intento.

Nessuno dei suoi amici cercò di trattenerlo. Arnith era fatto così. Ad un tratto diventava scontroso e strano, e l’unica cosa da fare era lasciare che si rifugiasse nel suo guscio di scontrosità.

Arnith vagò per le strade barcollando. Non era sicuro di voler tornare a casa, che si trovava ai limiti del villaggio. Voleva stare da solo, ma non al chiuso. Aveva voglia di sedersi da qualche parte nel freddo della notte, e aspettare che l’effetto dell’alcool scomparisse un po’, ascoltando gli schiamazzi della gente e guardandola passare vestita in maschera. A volte si sentiva più felice, o meglio meno triste, quando l’allegria altrui era un sottofondo della sua solitudine. Sentire voci lontane di allegria, vedere da lontano persone gioiose lo faceva sentire meglio. Una delle sue tante stranezze, che nemmeno lui sapeva spiegare. Poi magari sarebbe tornato al Kran Belz, forse, che sarebbe stato aperto tutta la notte, per onorare il grande Fuflun.

Ma lui, per onorare il Dio, decise che per il momento andava bene sedersi per terra, appoggiato a una piccola edicola di Fuflun, in un vicolo un po’ riparato dagli schiamazzi delle strade principali. In fondo al vicolo si vedeva la campagna aperta, delimitata da un filare di cipressi e illuminata dalla luna al primo quarto. Una nube avvolta di luce argentea e simile a una mano, sembrava voler coprire la mezzaluna.

Cominciò a parlare da solo, anzi con il Dio del Vino che in quella serata veniva esaltato in tutto il paese.

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