S’immaginava che Larthi avrebbe di nuovo proferito qualcosa
sulle sue credenze stregonesche, che avrebbe parlato di malefici e di moniti
vari, e sarebbe stata l’occasione di altri litigi. Meglio ritardare il più
possibile quel momento.
Quando fu l’ora di pranzo, Perun era riuscito a raggiungere
il bordo della lastra, che appariva ampia all’incirca tre metri per cinque,
circondata da una cornice larga una trentina di centimetri. Aveva tutta l’aria
di una sorta di pietra tombale, o di una sorta di gigantesca botola per entrare
in una cripta sotterranea.
Le iscrizioni sconosciute si trovavano incise soprattutto
nella parte inferiore della lastra, mentre nella parte superiore c’era
l’immagine di una figura umana maschile, un disegno come Perun non aveva mai
visto.
Il ragazzo aveva visto gli affreschi nei tempi di Sil e
degli altri Dei, una volta aveva visto i fregi di una villa nobiliare dove
aveva fatto lo stalliere per qualche tempo, ma il disegno che era inciso sulla
pietra era in uno stile e aveva un soggetto che non aveva niente a che fare con
l’arte dei Thyrsenna.
La figura era seminuda, e appariva armata, con un elmo in
testa, da cui spuntavano due corna di toro, che ricordavano una falce di luna.
Un po’ ricordava i guerrieri del nord di cui suo padre gli
aveva narrato tante volte.
Ormai era ora di pranzo, e prima di tornare a casa si
spogliò e si buttò nell’acqua del fiume che scorreva là accanto, per togliersi
fango e sudore.
Quando la famiglia si ritrovò insieme a tavola, si parlò di
cosa fare con quello che ormai veniva chiamato “il dono della Fata”.
«Sicuramente sotto la lastra si cela un tesoro. Mi sembra
incredibile che solo per averle restituito lo scialle, la fata ci abbia fatto
un regalo del genere».
«Sì, padre. È una storia incredibile davvero. Sia perché mi
domando come abbia fatto a sapere che il suo scialle l’avevi preso tu, sia per
il fatto che abbia potuto dare un segreto che forse ha un grandissimo valore,
anziché tenerlo per sé».
«Le Fate non hanno il nostro stesso senso del valore delle
cose», intervenne Larthi. «Loro non conoscono il valore dell’oro e delle gemme,
né di tutto quello a cui noi attribuiamo tanto valore. E se vi domandate come
abbia fatto a sapere che lo scialle ce l’avevamo noi, vi ricordo che le Fate
sono le Custodi del Destino, nulla può rimanere nascosto su questa terra ai
loro occhi, poiché tutte loro possiedono il potere di vedere ogni cosa lontana
nel tempo e nello spazio come se l’avessero di fronte agli occhi».
«Vuoi dire che per quella fata il suo bel scialle verde
aveva più valore di una collana d’oro e gioielli?».
«Eh sì. Cosa vuoi che se ne facciano delle nostre ricchezze,
là nella foresta? Cosa se ne può fare di oro e gioielli e altri orpelli un
popolo che vive in case fatte di alberi vivi e illuminate da stormi di
lucciole? Le Fate sono tutt’uno con le forze e gli elementi della Natura,
parlano con gli Dei tutti i giorni, non hanno bisogno di nessuna delle cose di
cui abbiamo bisogno noi. I loro bisogni sono altri».
«Beh, in ogni caso non sappiamo neanche cosa ci sia sotto
quella lastra. Magari non c’è niente. E non so neanche se riusciremo a
sollevarla. Mi sa che dovremo spaccarla!».
«Non dire idiozie, marito mio! La lastra non va infranta! È
di valore anche quella! E ricordati cosa ci ha detto la Fata : di non toccare
assolutamente quello che troveremo dietro l’altare! Deve essere l’entrata di un
tempio sotterraneo che si trova sotto la Polenta Verde. Dobbiamo stare
attenti a non offendere la divinità a cui è dedicato il tempio».
«Sollevare quella lastra potrebbe essere un bel problema…
beh, vedremo come si potrà fare. Questo pomeriggio vado io a scavare, e vediamo
cosa riusciamo a scoprire».
Quando Maxtran andò a sostituire il figlio nello scavo,
scoprì infatti subito qualcosa che lo colpì, e che già la sera prima aveva
notato sua figlia.
Attorno alla buca c’erano alcuni gigli rossi come il sangue,
ma anche più in là, nei vigneti che crescevano sulla china della collina, se ne
vedevano spuntare parecchi.
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