«Qui. Il mio dono è qui. È qui che dovete cercare domani
mattina. Segnate il punto, e domani scavate con le vostre vanghe e i vostri
picconi; troverete una cosa che vi
renderà ricchi e famosi fra gli Uomini. Ma quando sarete divenuti ricchi,
vendete la terra e andate a vivere lontano da qui, e soprattutto non toccate ciò che troverete dietro
l’altare per nessun motivo. È importante».
Gli Akapri si avvicinarono al punto del terreno indicato
dalla Fata, e Maxtran si inginocchiò per vedere se quel punto avesse qualcosa
di particolare, ma non videro niente, solo un leggero avvallamento di qualche
metro di diametro.
«E cosa ci sarebbe qua sotto? Un tesoro?».
Si voltò verso la
Fata , ma si accorse che era sparita. La cercarono con lo
sguardo tutt’attorno, ma di lei e del suo grosso gatto selvatico non era rimasta
traccia. E sì che nel buio della notte, la sua bianca figura sembrava quasi
emanare un leggero chiarore. Ma né tra i vigneti, né nei campi di mais si
scorgeva niente, e nemmeno si erano uditi rumori tra le pannocchie.
«Le Fate sanno rendersi invisibili quando vogliono, e fanno
apparire reale qualsiasi illusione, e illusorie tutte le realtà» commentò
Larthi.
Il figlio maggiore, Perun, sembrò smuovere la terra nel
piccolo avvallamento, come nella speranza di trovare una traccia del segreto
indicato dalla misteriosa visitatrice.
«Forse ci ha preso in giro, ma vale la pena di cercare,
domani mattina….ci metto alcuni sassi per indicare il posto, così siamo sicuri
di non sbagliare».
«Credi davvero di poter trovare un tesoro?».
«Qualcosa di valore, chissà…. tentar non nuoce».
«Magari invece è una trappola. Se è vero che le Fate sono le
custodi del fato, esso non sempre è favorevole».
Perun continuava a guardare intorno sul terreno, quando sua
sorella Ramthi, la figlia minore degli Akapri, lanciò un’esclamazione per
qualcosa che aveva notato là accanto, nell’erba.
«Guarda che bei gigli rossi! Non ne ho mai visti così rossi
e belli!».
Infatti, là accanto al punto indicato dalla fata, ai piedi
di un albero, erano fioriti parecchi gigli rossi, che alla luce del sole sarebbero
apparsi probabilmente scarlatti come il sangue, ma alla luce azzurrina della
lampada perenne sembravano di un colore purpureo.
CAP. IX: RELIQUIA ANCESTRALE
La mattina dopo Perun andò a scavare nel punto indicato
dalla Fata, da solo, perché suo padre e suo fratello dovevano continuare a
mietere il campo di mais e raccogliere le pannocchie.
Suo padre si era dimostrato abbastanza scettico, e lui gli
aveva promesso che non avrebbe perso troppo tempo dietro a quella cosa. Avrebbe
scavato una buca profonda un metro, e se non avesse trovato nulla, avrebbe
lasciato perdere.
Durante la notte c’era stato un gran temporale, e la terra
bagnata era abbastanza facile da scavare.
Dopo tre ore di lavoro, stava quasi per abbandonare
l’impresa, quando la sua vanga toccò qualcosa che sembrava una lastra di pietra
liscia.
Dopo un’altra mezz’ora aveva dissepolto la lastra abbastanza
per capire senza ombra di dubbio che si trattava di un’opera artificiale. La
cosa era dimostrata dal fatto che sulla lastra apparivano delle incisioni.
Perun sapeva leggere, anche se con fatica. Suo padre,
sperando che un giorno volesse arruolarsi anche lui nell’esercito, glielo aveva
insegnato, perché diceva che gli sarebbe servito per la sua carriera. Ma quelle
scritte non le conosceva, sembravano appartenere a un’epoca e a una cultura
sconosciute. Avevano qualche somiglianza con l’alfabeto sillabico-letterale dei
Thyrsenna, ma tanti segni erano del tutto inidentificabili.
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