E quando alla fine il regno del Veltyan si era saturato di
lampade perenni, i mercanti avevano cominciato a esportarle nei paesi barbari,
oltre la catena delle Montagne Albine a nord, o aldilà del mare, nelle grandi
isole a sud, in mezzo al Grande Oceano Meridionale.
Tanto che, a quel che si diceva, anche negli oscuri villaggi
di legno del più lontano nord, in mezzo a popolazioni selvagge, brillavano
nella notte le lampade perenni dei Thyrsenna, come splendenti emblemi
dell’unica civiltà umana rinata su Kellur dopo che il grande Diluvio aveva
sommerso tutte le terre del mondo, lasciando emergere solo le cime delle
montagne.
E mentre le pannocchie venivano sgranate, Larthi narrava
alla sua ultimogenita le storie antiche e di paesi lontani e mitici, leggende
mescolate con la storia e oggetti, persone ed eventi reali troppo lontani nello
spazio per non essere deformati dal mito.
Le narrava le storie apprese da sua madre e dalle altre
donne nelle sere d’inverno, quando si filava nelle stalle, o dai Sileni amici
dei contadini e dei pastori, custodi delle antiche tradizioni.
Ad un tratto, però, mentre ormai fuggivano gli ultimi
bagliori del crepuscolo, Larthi sentì alcune esclamazioni dei due figli maschi,
che si trovavano in quel momento presso il pollaio.
«Una volpe grigia! Maledetta!».
«Macché volpe! È troppo grosso, per essere una volpe!».
Anche Maxtran sentì le grida dei figli, e corse fuori. Si
sentì sprofondare sotto i piedi, quando vide quello che i ragazzi indicavano,
nel filare di ciliegi oltre il pollaio, dove si vedeva il bagliore verdazzurro
di due occhi che riflettevano la luce delle lampade perenni. Un bagliore che
riconobbe subito.
«L’abbiamo vista vicino al pollaio, e sul momento mi è
sembrata una volpe! Che cos’è, padre?».
«Andate a prendere i forconi, e dite a vostra madre e alle
vostre sorelle di chiudersi in casa. E vedete di prendere anche la mia spada!».
Non aveva ancora finito di parlare, che si accorse che
dietro gli occhi luminescenti c’era un’esile figura, una silhouette nera che si
stagliava accanto agli alberi, sullo sfondo degli ultimi bagliori del cielo
sulla pianura.
Una voce femminile, dal timbro stranissimo e vibrante, si
fece udire dal buio.
«Per favore, non abbiate paura».
In quel momento, giunse anche Larthi, che aveva ordinato
alle figlie di restare presso l’entrata della casa.
Fu la prima ad accorgersi che anche nella figura nera
brillavano due piccole pupille fosforescenti, ma di colore dorato. Lanciò
un’esclamazione di sorpresa.
«Una Fata!».
Solo allora la figura avanzò verso la luce delle lampade
perenni.
Era una donna piccola ed esile, con lunghissimi e ondulati
capelli argentei, dai riflessi azzurrini, forse dovuti alla luce delle lampade.
Portava una semplice tunica verde bosco senza maniche e ai piedi aveva dei
sandali di legno con lacci di corda grigia, mentre al collo gli pendeva un
amuleto di legno colorato, appeso a una catenina di perline colorate.
Vista di spalle sarebbe sembrata una ragazza qualunque, se
non fosse stato per il colore dei capelli, ma il suo volto aveva lineamenti singolari,
e i suoi occhi non avevano nulla di umano.
Erano grandi, inumanamente grandi, due enormi mandorle nere,
completamente nere come lucido giaietto, in cui le pupille brillavano come due
piccole monete d’oro.
Non solo nessun essere umano aveva occhi come quelli, ma
neanche nessun animale.
A Maxtran tornarono in mente gli spaventosi occhi rossi e da
rettile del Saguseo, che aveva visto quel pomeriggio, e pensò che neanche lo
sguardo mostruoso dell’essere acquatico
riusciva ad essere inquietante come gli occhi della Fata.
Il bello è che, in tutta la sua vita, non aveva mai visto né
il volto di un Saguseo, né quello di una Fata. E ora aveva visto entrambi nel
giro di poche ore.
Per il resto,
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