mercoledì 20 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 77° pagina.


E quando alla fine il regno del Veltyan si era saturato di lampade perenni, i mercanti avevano cominciato a esportarle nei paesi barbari, oltre la catena delle Montagne Albine a nord, o aldilà del mare, nelle grandi isole a sud, in mezzo al Grande Oceano Meridionale.

Tanto che, a quel che si diceva, anche negli oscuri villaggi di legno del più lontano nord, in mezzo a popolazioni selvagge, brillavano nella notte le lampade perenni dei Thyrsenna, come splendenti emblemi dell’unica civiltà umana rinata su Kellur dopo che il grande Diluvio aveva sommerso tutte le terre del mondo, lasciando emergere solo le cime delle montagne.

E mentre le pannocchie venivano sgranate, Larthi narrava alla sua ultimogenita le storie antiche e di paesi lontani e mitici, leggende mescolate con la storia e oggetti, persone ed eventi reali troppo lontani nello spazio per non essere deformati dal mito.

Le narrava le storie apprese da sua madre e dalle altre donne nelle sere d’inverno, quando si filava nelle stalle, o dai Sileni amici dei contadini e dei pastori, custodi delle antiche tradizioni.

Ad un tratto, però, mentre ormai fuggivano gli ultimi bagliori del crepuscolo, Larthi sentì alcune esclamazioni dei due figli maschi, che si trovavano in quel momento presso il pollaio.

«Una volpe grigia! Maledetta!».

«Macché volpe! È troppo grosso, per essere una volpe!».

Anche Maxtran sentì le grida dei figli, e corse fuori. Si sentì sprofondare sotto i piedi, quando vide quello che i ragazzi indicavano, nel filare di ciliegi oltre il pollaio, dove si vedeva il bagliore verdazzurro di due occhi che riflettevano la luce delle lampade perenni. Un bagliore che riconobbe subito.

«L’abbiamo vista vicino al pollaio, e sul momento mi è sembrata una volpe! Che cos’è, padre?».

«Andate a prendere i forconi, e dite a vostra madre e alle vostre sorelle di chiudersi in casa. E vedete di prendere anche la mia spada!».

Non aveva ancora finito di parlare, che si accorse che dietro gli occhi luminescenti c’era un’esile figura, una silhouette nera che si stagliava accanto agli alberi, sullo sfondo degli ultimi bagliori del cielo sulla pianura.

Una voce femminile, dal timbro stranissimo e vibrante, si fece udire dal buio.

«Per favore, non abbiate paura».

In quel momento, giunse anche Larthi, che aveva ordinato alle figlie di restare presso l’entrata della casa.

Fu la prima ad accorgersi che anche nella figura nera brillavano due piccole pupille fosforescenti, ma di colore dorato. Lanciò un’esclamazione di sorpresa.

«Una Fata!».

Solo allora la figura avanzò verso la luce delle lampade perenni.

Era una donna piccola ed esile, con lunghissimi e ondulati capelli argentei, dai riflessi azzurrini, forse dovuti alla luce delle lampade. Portava una semplice tunica verde bosco senza maniche e ai piedi aveva dei sandali di legno con lacci di corda grigia, mentre al collo gli pendeva un amuleto di legno colorato, appeso a una catenina di perline colorate.

Vista di spalle sarebbe sembrata una ragazza qualunque, se non fosse stato per il colore dei capelli, ma il suo volto aveva lineamenti singolari, e i suoi occhi non avevano nulla di umano.

Erano grandi, inumanamente grandi, due enormi mandorle nere, completamente nere come lucido giaietto, in cui le pupille brillavano come due piccole monete d’oro.

Non solo nessun essere umano aveva occhi come quelli, ma neanche nessun animale.

A Maxtran tornarono in mente gli spaventosi occhi rossi e da rettile del Saguseo, che aveva visto quel pomeriggio, e pensò che neanche lo sguardo mostruoso dell’essere acquatico  riusciva ad essere inquietante come gli occhi della Fata.

Il bello è che, in tutta la sua vita, non aveva mai visto né il volto di un Saguseo, né quello di una Fata. E ora aveva visto entrambi nel giro di poche ore.
Per il resto, la Fata non aveva un aspetto particolarmente strano, a parte le orecchie, che avevano dei lobi straordinariamente allungati. La sua pelle era di un pallore spettrale, quasi bianco panna, che

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