Lo scialle era ancora dentro la bisaccia, dove Maxtran
l’aveva rimesso dopo aver litigato con la moglie.
Quando lo tirò fuori, ne rimirò per una volta gli strani,
bellissimi arabeschi verdi, e non poté fare a meno di pensare alla situazione
in cui si trovava.
«È assurdo…. è tutto così assurdo! Maledetto il momento in
cui mi sono lasciato convincere da quello stupido di Larsin Arayan! In che
razza di incubo da favola mi sono lasciato coinvolgere?».
E mentre ci rimuginava sopra, si accorse che non poteva fare
a meno di pensare allo sguardo della Fata, a quegli inquietanti occhi neri in
cui sembrava di sprofondare nel buio della notte.
Pensò a quello che gli avevano raccontato sulle Fate, sul
fatto che leggevano nelle anime degli Uomini così come leggevano nel loro fato.
L’idea che quell’essere potesse leggere nei suoi pensieri come in un libro
aperto lo fece sentire nudo ed indifeso.
A quel pensiero, scattò verso il filare d’alberi, sperando
che la Fata
sparisse nella notte subito come era venuta. E ai demoni degli inferi il suo
dono.
Rivedere il suo sguardo di pozzi neri con quelle stelle
dorate in mezzo, gli procurò un tuffo al cuore peggiore della prima volta. E
tra l’altro, c’era quel maledetto gatto selvatico al suo fianco.
«Ecco, Mia Signora Custode del Fato! Il tuo scialle, e che
tu possa non ricomparire mai presso la mia casa!».
«Ti ringrazio, Uomo. Ora posso darti il mio dono. Venite con
me, e portatevi dietro le vostre lampade perenni, affinché possa mostrarvelo».
«Cosa? E dove ci vuoi portare?».
«Qui, nei vostri campi. È lì che si trova il dono per voi!».
«L’hai lasciato in mezzo ai campi? Ma che razza di regalo
è?».
«È una cosa che è sempre stata là, solo che voi non lo
sapevate. Il mio dono, è il farvi vedere dove si trova».
Si voltò indietro decisa e indicò con il braccio la
direzione dove dovevano andare.
«Lascia venire anche le tue figlie, Uomo. Il dono è per
tutti voi, ed è giusto che ci siano anche loro».
In quel momento Maxtran e la sua famiglia poterono vedere
che il grosso gatto selvatico si affiancava alla Fata, strusciandole contro, e
seguendola come un cane.
A circa duecento metri dalla casa degli Akapri, c’era una
collinetta dove avevano piantato un vigneto.
La collinetta aveva una forma particolare; era una cupola
schiacciata, perfettamente rotonda. Maxtran aveva sempre avuto il sospetto che
fosse artificiale, anche se non riusciva ad immaginare chi e perché avrebbe
dovuto costruire un’opera del genere.
Gli Akapri l’avevano battezzata “la Polenta Verde ”, proprio perché
la sua forma ricordava una polenta appena versata sul tagliere, prima di essere
divisa a fette, ma verde per il colore intenso dell’erba, colore che però
cambiava sul lato sud, dove crescevano le viti. Un nome che era parso quanto
mai adatto anche perché circondato dai campi di mais.
Quella collina, quando lui era arrivato in quell’area
incolta che nessuno prima aveva mai abitato, aveva avuto la strana
caratteristica di essere del tutto priva di alberi. Vi crescevano solo erba e
fiori di campo, come se nel terreno non potesse attecchire nient’altro. Solo le
viti era riuscito a farci crescere, e solo sul lato meridionale.
Mentre la Fata
si avviava , si era messa lo scialle sulla testa, e alla luce delle lampade
perenni, parve agli attoniti contadini che quel velo in testa alla fata
emanasse una vaga fluorescenza verde.
Li condusse attraverso il campo di mais che era stato appena
falciato, e poi attraverso quelli dove ancora non era passata la mietitura,
fino ai piedi della Polenta Verde.
Si fermò proprio al limitare del vigneto, dove cominciava il
crinale, ed indicò un punto vicino ai suoi piedi.
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