sabato 23 aprile 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 79° pagina.


Lo scialle era ancora dentro la bisaccia, dove Maxtran l’aveva rimesso dopo aver litigato con la moglie.

Quando lo tirò fuori, ne rimirò per una volta gli strani, bellissimi arabeschi verdi, e non poté fare a meno di pensare alla situazione in cui si trovava.

«È assurdo…. è tutto così assurdo! Maledetto il momento in cui mi sono lasciato convincere da quello stupido di Larsin Arayan! In che razza di incubo da favola mi sono lasciato coinvolgere?».

E mentre ci rimuginava sopra, si accorse che non poteva fare a meno di pensare allo sguardo della Fata, a quegli inquietanti occhi neri in cui sembrava di sprofondare nel buio della notte.

Pensò a quello che gli avevano raccontato sulle Fate, sul fatto che leggevano nelle anime degli Uomini così come leggevano nel loro fato. L’idea che quell’essere potesse leggere nei suoi pensieri come in un libro aperto lo fece sentire nudo ed indifeso.

A quel pensiero, scattò verso il filare d’alberi, sperando che la Fata sparisse nella notte subito come era venuta. E ai demoni degli inferi il suo dono.

Rivedere il suo sguardo di pozzi neri con quelle stelle dorate in mezzo, gli procurò un tuffo al cuore peggiore della prima volta. E tra l’altro, c’era quel maledetto gatto selvatico al suo fianco.

«Ecco, Mia Signora Custode del Fato! Il tuo scialle, e che tu possa non ricomparire mai presso la mia casa!».

La Fata gli sorrise, con quella piccola bocca dalle labbra sottili, mostrando una fila di piccoli denti che sembravano quasi trasparenti, madreperlacei. Gli ricordarono il colore dei denti del Saguseo del fiume, anche se la loro forma era ben diversa.

«Ti ringrazio, Uomo. Ora posso darti il mio dono. Venite con me, e portatevi dietro le vostre lampade perenni, affinché possa mostrarvelo».

«Cosa? E dove ci vuoi portare?».

«Qui, nei vostri campi. È lì che si trova il dono per voi!».

«L’hai lasciato in mezzo ai campi? Ma che razza di regalo è?».

«È una cosa che è sempre stata là, solo che voi non lo sapevate. Il mio dono, è il farvi vedere dove si trova».

Si voltò indietro decisa e indicò con il braccio la direzione dove dovevano andare.

«Lascia venire anche le tue figlie, Uomo. Il dono è per tutti voi, ed è giusto che ci siano anche loro».

In quel momento Maxtran e la sua famiglia poterono vedere che il grosso gatto selvatico si affiancava alla Fata, strusciandole contro, e seguendola come un cane.

A circa duecento metri dalla casa degli Akapri, c’era una collinetta dove avevano piantato un vigneto.

La collinetta aveva una forma particolare; era una cupola schiacciata, perfettamente rotonda. Maxtran aveva sempre avuto il sospetto che fosse artificiale, anche se non riusciva ad immaginare chi e perché avrebbe dovuto costruire un’opera del genere.

Gli Akapri l’avevano battezzata “la Polenta Verde”, proprio perché la sua forma ricordava una polenta appena versata sul tagliere, prima di essere divisa a fette, ma verde per il colore intenso dell’erba, colore che però cambiava sul lato sud, dove crescevano le viti. Un nome che era parso quanto mai adatto anche perché circondato dai campi di mais.

Quella collina, quando lui era arrivato in quell’area incolta che nessuno prima aveva mai abitato, aveva avuto la strana caratteristica di essere del tutto priva di alberi. Vi crescevano solo erba e fiori di campo, come se nel terreno non potesse attecchire nient’altro. Solo le viti era riuscito a farci crescere, e solo sul lato meridionale.

Mentre la Fata si avviava , si era messa lo scialle sulla testa, e alla luce delle lampade perenni, parve agli attoniti contadini che quel velo in testa alla fata emanasse una vaga fluorescenza verde.

Li condusse attraverso il campo di mais che era stato appena falciato, e poi attraverso quelli dove ancora non era passata la mietitura, fino ai piedi della Polenta Verde.

Si fermò proprio al limitare del vigneto, dove cominciava il crinale, ed indicò un punto vicino ai suoi piedi.

Nessun commento:

Posta un commento