Velthur fece un profondo inchino come aveva fatto l’altra
volta, anche se sapeva che non era necessario, e si voltò sentendo un gran peso
che gli si sollevava dal cuore.
Era riuscito a trovare il coraggio di dire il fatto loro
alle Tre Regine delle Fate di Leukun. Un bel risultato. Non credeva di riuscire
ad essere così coraggioso. Si era ribellato a loro, e loro lo avevano lasciato
fare.
Certo, questo poteva non significare niente. Anche se
nessuno del popolo delle Fate poteva avvicinarsi a Loraisan, tanto era il
terrore che avevano di lui, avrebbero potuto mandare uno dei loro alleati
umani, a fargli del male. In fin dei conti, ne avevano uno in casa Ferstran, lo
stravagante e scontroso Erkan.
Ma di quello avrebbe cominciato a preoccuparsi domani. E
c’era anche di mezzo una strana contraddizione. Le Fate avevano raccomandato a
Larsin di occuparsi del figlio di Thymrel come se fosse figlio suo. Anzi, gli
avevano fatto credere che fosse proprio figlio dei suoi lombi, e non di uno
sconosciuto. E ora invece dicevano a lui, Velthur, che non doveva istruirlo,
che non doveva spingerlo a sapere troppe cose. Da un lato volevano custodire e
proteggere Loraisan, dall’altra volevano tenerlo a bada, come quelli che
tengono in gabbia un animale bello e pregiato, curandolo e nutrendolo, ma
impedendogli di fuggire.
Qualcosa sicuramente le Tre Madri tramavano, ma non aveva
idea di cosa. E la cosa più frustrante era che non c’era modo di sapere cosa
stessero pensando.
Menkhu e Prukhu condussero Velthur a una delle abitazioni
delle Fate, dove avrebbe potuto dormire prima di ripartire la mattina dopo. Per
la prima volta, il medico poté entrare in una casa fatata, e contemplarla
dall’interno.
Erano case circolari e molto semplici, fatte di rampicanti
che venivano fatti crescere sulle pareti a cupola, la cui ossatura erano
semplici rami intrecciati tra loro. Le lucciole, a comando, volavano al loro
interno a sciami lungo le pareti, per illuminare l’interno fiocamente, oltre ad
alcune candele fatte di grasso vegetale, che emanavano quelle strane fiamme di
un verdazzurro intenso, come facevano anche i falò fatati del belk.
La famiglia di Fate che ospitò l’Uomo e i due Sileni offrì
loro per cena frutti di bosco, yoghurt con il miele, e il pane di orzo e farro,
cereali che crescevano spontaneamente nei prati del territorio fatato.
Le Fate si nutrivano di ciò che gli davano i boschi, i prati
e i pascoli opportunamente coltivati con le loro arti magiche. Nei millenni
trascorsi dal tempo delle origini, il popolo fatato aveva appreso a nutrirsi
dei frutti della terra senza alterare nulla dell’equilibrio della natura. Con
le loro arti, ottenevano il loro cibo senza arare, disboscare, distruggere
l’una o l’altra specie animale o vegetale. Tutte le piante e gli animali
seguivano il loro volere. Per questo i contadini erano così legati all’alleanza
con le Fate, poiché con il loro aiuto i campi e i pascoli potevano sempre dare
raccolti sufficienti a non morire di fame. L’aiuto delle Fate aveva sempre
tenuto lontano lo spettro della carestia in quelle regioni del Veltyan in cui
erano tanto diffuse.
Per questo nessun sacerdote di Sil avrebbe mai potuto
spezzare quell’antica alleanza, neanche il più fanatico e oppressore.
Seduti sulle stuoie attorno alla pietra piatta che faceva
loro da tavola da pranzo, i tre ospiti parlarono tra di loro e con la famiglia
di Fate, costituita dalla matriarca, da cinque figlie e due figli, e da uno
stuolo di nipotini. Tra le Fate il matrimonio non esisteva, o meglio esisteva
solo il matrimonio notturno e solo quello, dato che erano state loro a
insegnare ai primi Thyrsenna quella tradizione e quello stile di vita.
Velthur rimase sorpreso dal fatto che la famiglia di Fate non pareva
minimamente interessata al motivo per cui lui e i suoi amici si trovavano là,
né di cosa avevano parlato loro e le Tre Madri del Fato. Per tutta la cena
chiesero della famiglia e degli amici di Velthur, della sua professione di
medico e di come andavano le cose ad Arethyan. Sembrava che fossero solo quelle
le cose importanti per loro, e che tutta la loro vita dovesse essere incentrata
sulle piccole cose del quotidiano, ignorando tutto il resto. Sembravano delle
creature completamente spensierate, estranee
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