sabato 22 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 373° pagina.


«Ma quelle sono solo leggende!» rispondevano tutte, anche se i loro occhi tradivano che anche loro temevano che fossero storie vere.

Loraisan chiedeva loro perché se non erano leggende i Demoni Oscuri dell’Orkhun, allora non lo fossero neanche i mostri delle leggende popolari.

«Perché i Demoni Oscuri sono opera di Nostra Signora della Luce, e i mostri delle leggende no». Questa era la semplice e diretta risposta di tutte quante. La risposta che sicuramente anche loro si ripetevano, ogni volta che dovevano affrontare il buio della notte.

Una spiegazione che per Loraisan non significava niente.

Forse che i Basilischi Bianchi non esistevano solo perché la dottrina del Nunarsha Silal non ne parlava? Eppure i Nani esistevano realmente, anche se non adoravano Sil. Fu quella la prima vera occasione per Loraisan di rendersi conto che la dottrina della religione in cui veniva allevato non aveva risposte sufficienti per lui. E in effetti, come la tradizione religiosa poteva dimostrare da sola l’esistenza di una cosa oppure no? Lui voleva certezze, voleva qualcosa che lo rassicurasse totalmente, che fugasse da lui ogni possibile dubbio. La fede, per sua natura, non poteva che esporlo al dubbio. Perché la fede non è conoscenza, e solo essa dà certezze.

Questo pensiero non appariva ancora chiaramente nella sua mente, ma sarebbe divenuto imperante molti anni dopo, quando sarebbe divenuto adulto.

Però Loraisan non demordeva, voleva che almeno una delle monache sacerdotesse riuscisse in qualche modo a rassicurarlo, che magari gli insegnasse un modo efficace per scacciare per sempre gli esseri misteriosi di cui sentiva sempre la presenza senza mai vederli. Lui non aveva mai visto né sentito niente, eppure sentiva che c’erano, che ogni volta che si trovava da solo rimanevano in agguato in un angolo nascosto, che lo osservavano continuamente e aspettavano solo di apparirgli di fronte e a saltargli addosso, forse a portarlo via, o ad ucciderlo. Oppure semplicemente l’avrebbero fatto morire di spavento apparendogli di fronte, in tutto il loro orrore. Perché, ne era sicuro, dovevano essere davvero spaventosi. Insopportabili allo sguardo.

Per quanto si sforzasse di pensare che potevano essere solo una sua immaginazione, non poteva non sentirne la presenza. Non riusciva in nessun modo a convincersi che non c’erano. Loro c’erano, lo sentiva. Sempre.

Finché un giorno si trovò a parlare con una monaca un po’ particolare, la più vecchia di tutte. La maggior parte delle kametheina dell’eremo erano della stessa giovane età di Harali, o ancora più giovani, come Eukeni. Molte erano lì solo per il triennio monastico, poche avevano preso la decisione di viverci per sempre, altre erano ancora indecise.

Ma Ravinthi Thesanzamatiakh era molto più vecchia delle altre, aveva più di cinquant’anni. Era una donna che aveva vissuto la maggior parte della sua vita come quella di una qualsiasi contadina, sorella minore di una matriarca di una fattoria vicino ad Aminthaisan. Ma era stata una vita piuttosto infelice. I suoi figli erano tutti nati morti o erano mancati ancora bambini, e alla fine, superata l’età feconda, aveva deciso di entrare in quel nuovo ordine monastico per compensare in qualche modo il vuoto lasciatogli dalla sua maternità mancata, che la faceva guardare dai parenti e dalla gente di paese con un misto di pietà e di disprezzo. Perché una donna che aveva visto morire tutti i suoi figli in tenera età o alla nascita, doveva essere una donna maledetta dagli Dei.

La mentalità matriarcale dei Thyrsenna, sotto questo punto di vista, poteva essere anche peggiore di quella di una società patriarcale, poiché una madre senza figli era vista come un arco senza frecce, un albero senza frutti e foglie, una donna a metà, priva del suo potere più grande: quello di dare la vita.

Per questo, certe lingue maligne in paese dicevano che era stata lei stessa a far morire i suoi figli, sacrificandoli a qualche divinità oscura per ottenerne in cambio favori e poteri magici. Perciò, su di lei pesava la fama di essere una strega.

Forse, anche per quello aveva deciso alla fine di rinchiudersi in un monastero, dimostrando la sua integrità e sottraendo la sua persona al sospetto e al disprezzo.

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