L’eremo apparve a Loraisan come un edificio davvero strano e
singolare, quasi come il Santuario d’Ambra, anche se molto meno magnificente.
Era una struttura quadrata, a due piani, con un portone a
volta . Le mura erano bianche, ma i tetti,
i bordi delle finestre, delle porte, i capitelli dei colonnati del
cortile interno, erano tutti azzurri, di tinte varie che andavano dall’azzurro
ghiaccio al ciano più intenso.
L’eremo troneggiava sul lato nord-ovest della grande radura
che costituiva la cima piatta di Monte Leccio, mentre il portone d’entrata dava
sul lato nord-est. Il sentiero arrivava da sud, e prima di arrivare all’entrata
dell’eremo attraversava gli orti, i vigneti e i frutteti che ora crescevano
dove un tempo c’era stata solo erba, come in quella lontana mattina in cui
Velthur, Larsin, Maxtran ed Hermen si erano avventurati là per trovare le
tracce del belk.
Come aveva detto Eukeni, le Spose di Sin avevano
addomesticato alcuni dei gatti selvatici di Monte Leccio, che gironzolavano fra
gli alberi da frutto, o si riposavano all’ombra delle fronde e dei tronchi.
Sembrava che ce ne fossero parecchi.
Poiché quel giorno era usiltin, nessuna delle monache stava
lavorando nell’orto. Tutta la comunità si trovava ritirata nell’eremo, a
celebrare i riti in nome di Sil. Oppure a leggere e studiare testi sacri a Lei
dedicati. Il culto di Sil doveva rimanere sempre preminente su quello di
qualsiasi altra divinità, e il Suo giorno doveva essere sempre giorno di
riposo, per tutti i kametheina del
Veltyan, per lo meno quelli ritenuti rispettabili.
Il portone di legno dipinto di azzurro cielo era chiuso, ed
Eukeni bussò per farsi aprire.
Per la prima volta in vita sua, Loraisan vide una
sacerdotessa monaca. Rimase impressionato dal fatto che la sua testa era
completamente rasata a zero, non sapendo che era una caratteristica di tutte le
monache e tutti i monaci del Veltyan, a qualsiasi ordine appartenessero.
Portava una tunica bianca con gli orli azzurri. Gli abiti
dell’eremo erano perfettamente intonati alla sua architettura. Al collo,
portava una croce ansata d’argento, metallo lunare per eccellenza.
La monaca era molto giovane, come d’altra parte lo erano
quasi tutti i membri della comunità religiosa.
Mentre attraversavano il cortile interno, circondato dal
colonnato del chiostro, Loraisan si guardava attorno stupefatto.
«Che bello qua, madre…. Tutto bianco e azzurro. Come mai qua
è tutto bianco e azzurro?».
«Perché sono i colori della luna quando è alta nel cielo! –
gli rispose la sorella – Qua tutto deve ricordare Sin, Signore della Luna.
Vedi? Vedi là, sul le porte? Vedi che le maniglie sono delle
piccole falci di luna? Sono fatte di una lega d’argentolieve azzurrato. Ne
vedrai di cose interessanti, qui!».
La paura di Loraisan cominciò a mutarsi lentamente in
curiosità, e da curiosità in sconcerto.
Nel cortile dell’eremo c’erano parecchi gatti, la maggior
parte dei quali se ne stavano tranquilli, sdraiati o seduti sulle quattro zampe
a prendere il sole, altri che passeggiavano qua e là, sotto il portico del
chiostro, o che se ne stavano seduti sul bordo del pozzo al centro del cortile.
Ma quando i Ferstran passarono nel cortile, Loraisan notò
che tutti gli strani felini si erano voltati a guardarli, e li fissavano come
se i tre visitatori li avessero messi in allarme.
Loraisan amava i gatti, come amava tutti gli animali, ma
quei gatti gli facevano un po’ paura. Erano parecchio più grandi dei gatti
normali, e i loro occhi erano tanto più chiari e brillanti. E poi, ebbe come
l’impressione di avere sempre il loro sguardo puntato contro anche alle spalle.
La monaca li condusse nel parlatorio dell’eremo, dove
attesero che la Reverenda Madre Fondatrice li incontrasse. La sacra matriarca
non si fece attendere.
Nel vederla, Loraisan rimase stupito da quanto fosse
giovane. Si aspettava una veneranda vegliarda, alta e ieratica, carica di anni
e di saggezza, perché sua sorella Eukeni gli aveva detto che era una donna di
grande sapienza, e per Loraisan una persona che aveva tanta sapienza non poteva
non essere anziana.
Un’altra cosa però lo colpì. Dietro di lei c’era una grossa
gatta dagli occhi verdazzurri, sempre di quella magnifica razza selvatica che
le monache allevavano nell’eremo, che la seguiva fedelmente come un cane, e che
si sedette sul pavimento accanto a lei.
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