domenica 1 maggio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 87° pagina.


Fu contento di aver trovato una scusa così buona per non parlare di ciò che aveva visto e che non riusciva a confessare, da tanta paura gli aveva fatto.

L’orgoglio del vecchio veterano combattente aveva avuto la meglio, anche se probabilmente nessuno, né della sua famiglia né alcun abitante dei dintorni l’avrebbe biasimato per questo.

Perun non volle tornare a casa con sua madre, ma rimase con suo padre, appoggiato insieme a lui a uno dei noci che fiancheggiavano il sentiero che andava dalla Polenta Verde alla fattoria.

Circa un’ora dopo cominciarono ad apparire i primi chiarori sopra le montagne ad oriente. Le giornate erano ancora lunghe. Nelle altre fattorie, i contadini cominciavano ad alzarsi per andare al lavoro nei campi. Ma quella degli Akapri era una fattoria isolata, sicuramente nessuno poteva essersi accorto di quello che era successo quella notte.

Maxtran era rimasto sveglio a fare la guardia, mentre Perun era riuscito a dormire accucciato sull’erba.

Il padre lo svegliò però solo quando ormai il chiarore del crepuscolo era molto avanzato.

«Padre, cosa facciamo adesso? Davvero vuoi che vada a chiamare solo Larsin Arayan?».

«Non lo so cosa sia meglio fare. Larsin deve rendere conto alla vecchia matriarca dei Ferstran, che non conosco molto bene. So solo che è una donna forte e decisa, e se coinvolgiamo Larsin, lei vorrà sapere tutto quello che succede».

«Ma di cosa hai paura, padre? Il terreno è nostro, la legge ci riconosce la proprietà di tutto quello che possiamo trovare su di esso. Non sappiamo neanche cosa abbiamo trovato. Magari riusciamo a nascondere questa entrata fino a quando non abbiamo modo di decidere cosa fare».

Maxtran rimase a guardare l’entrata della galleria che aveva sorvegliato nel buio della notte, quasi temendo che potesse uscirvi una minaccia ignota, mentre il figlio gli parlava, poi si alzò di scatto.

«Vado dentro! Tu aspettami qui! Vado in fondo alla galleria, do un’occhiata a quello che c’è, e poi torno. Se non mi vedi tornare dopo un po’, chiama aiuto».

«Che cosa hai visto là dentro, padre? Dimmi la verità».

«Te lo dirò quando sarò tornato!».

Prese la lampada perenne e si fiondò di nuovo in fondo alla gradinata. Aveva paura, come ne aveva avuto quando, nel freddo dei passi delle montagne settentrionali aveva dovuto affrontare le bande di predoni barbari che calavano dal nord per saccheggiare le più estreme province del Regno Verde.

Ma questa volta non affrontava le sue paure per salvarsi la vita e salvarla alla sua gente, ora doveva farlo per il miraggio della ricchezza, per lui e per la sua famiglia, che prima non aveva mai osato inseguire.

Varcò la soglia con l’arco di pietra e di nuovo la testa di toro o di bufalo lo salutò con il sinistro bagliore di rubino dei suoi occhi.

La galleria era ampia, alta più di quattro metri, e larga almeno cinque. Non seppe dire quanto fosse lunga, ma aveva la convinzione che arrivasse esattamente sotto la sommità dalla Polenta Verde.

Vide di nuovo il chiarore rosso-arancio e tremulo, uguale identico a come lo aveva visto prima, e di nuovo ebbe la netta impressione che si trattasse di una specie di fiamma. Non era certamente una lampada perenne, e se lo era, non aveva nulla a che fare con quelle dei Thyrsenna.

Le leggende antiche sull’era antidiluviana non dicevano se in quel tempo erano esistite le lampade perenni, ma lui non conosceva i testi degli antichi, e si maledisse per questo.

Forse, se fosse stato una persona colta come il dottor Laran, avrebbe saputo a cosa stava andando incontro, e se si trattava di qualcosa di pericoloso o meno.

Mentre si avvicinava, si aspettava di vedere ancora quella sagoma nera di gatto, che non aveva visto uscire dalla galleria, e quindi doveva ancora trovarsi là dentro. Ma adesso non era più tanto sicuro di averlo veramente visto, o se invece era stata un’ombra rifoggiata dal suo terrore per l’ignoto.

Si trovava a pochi metri di distanza dalla fine della galleria, quando la sua vista poté finalmente distinguere i particolari di quello che stava aldilà. C’era una sorta di grande pietra geometrica, un parallelepipedo largo e basso, ricoperto di iscrizioni simili a quelle che aveva visto sulla lastra.

Quello che era singolare, però, era il suo colore simile all’ambra. Infatti brillava di straordinari riflessi, perché era trasparente, percorso da venature torbide.

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