Ci volle un po’ di tempo prima che Maxtran si rendesse conto
di trovarsi di fronte al cadavere di un uomo perfettamente conservato e
cristallizzato. Un uomo gigantesco, alto almeno tre metri.
«Un Gigante antidiluviano!» esclamò nel silenzio della
cupola..
Rimase paralizzato, ipnotizzato dalla figura stesa sotto di
lui. Si inginocchiò sulla spessa lastra di vetro, chiedendosi come mai non ci
fosse un velo di polvere sopra di essa, come se qualcuno l’avesse ripulita, o
come se essa l’avesse respinta nei secoli.
Pose il suo volto proprio sopra il volto dell’essere
cristallizzato, osservando i particolari del teschio dietro i vitrei e
scintillanti lineamenti non del tutto umani.
Era la cosa più bella e terribile che avesse mai visto in
vita sua. Di tutte le cose strane e inquietanti che aveva visto negli ultimi
giorni, quella era senz’altro la più meravigliosa e terrificante.
Il corpo del gigante era nudo e massiccio, dalla muscolatura
possente, come si era sempre immaginato dovessero essere i Giganti antichi. La
testa era calva e glabra, perché evidentemente non erano riusciti a cristallizzare
anche i capelli e la barba.
Non aveva mai visto un Gigante vivo, uno dei rari, regrediti
resti della stirpe antica sterminata dal Diluvio, che pure vivevano in
un’estrema provincia sud-orientale del Veltyan. E ora, il primo Gigante che
vedeva in vita sua, e probabilmente l’unico, era un antico re o eroe di un
tempo remoto, trasformato in una statua di vetro.
Non aveva mai sentito che si potesse fare qualcosa del
genere con un cadavere, e si domandò che razza di segreti alchemici dovevano
possedere i Giganti prima del Diluvio, quali arti perdute avevano reso
possibile quello straordinario tempio-mausoleo fatto di una sostanza
sconosciuta.
Il suo sguardo si fissò nel volto del Gigante, cercando di
immaginarsi come doveva essere stato quando era ancora vivo. Aveva una mascella
possente, un mento molto lungo e largo, ma una bocca stranamente piccola. I
lobi delle orecchie erano allungati, come quelli della Fata che li aveva
visitati l’altra sera.
I suoi occhi erano
aperti, anchessi vitrei, ma sembrava che vi avessero inserito due piccoli
dischi di quella strana ambra al posto delle pupille, per dare l’idea di uno
sguardo in qualche modo vivo, spalancato su una vitrea eternità. Con l’immagine
del teschio che pareva di trasparente madreperla ed opale dietro il volto, e
quegli occhi scintillanti d’ambra, l’effetto era estremamente inquietante.
A Maxtran sembrò di vedere il volto della Morte e
dell’Eternità in una visione unica, una inquietante finestra sull’aldilà che
gli parlava, lo fissava chiamandolo dalle frontiere dell’Aisedis, l’aldilà dei
Thyrsenna.
Il dono della Fata era davvero troppo grande per lui.
Tutto solo per avergli restituito lo scialle. Ma forse,
adesso non ne era più tanto sicuro.
Forse, la Fata
aveva solo colto l’occasione per far trovare loro qualcosa che voleva venisse
dissepolto.
Si riscosse, quando sentì in lontananza le urla di suo
figlio, che lo chiamava.
Si era attardato troppo, non aveva mantenuto la sua
promessa, ed ora Perun temeva per lui.
Si rialzò, riprese la sua lampada perenne e corse attraverso
la galleria, la cui oscurità ora lo inquietava ancora più di prima, ora che
sapeva cosa vi stava dietro. Aveva visto in faccia lo spirito che abitava quel
luogo perduto, di cui cianciava tanto sua moglie, e che sicuramente neanche lei
avrebbe potuto immaginare nella sua inquietante magnificenza.
Arrivato trafelato all’inizio della galleria, trovò suo
figlio che lo aspettava in fondo ai gradini, spaventato.
«Ero quasi sul punto di venirti a prendere! Non potevo
andarmene lasciandoti solo là dentro!».
«Perdonami, figlio mio! Quello che ho trovato supera ogni
nostra aspettativa! Possediamo credo uno dei più grandi tesori del Regno Verde,
forse di Kellur intera! Ora sta pur sicuro che non ho paura di essere derubato!
Quello che c’è là dentro è così grande e sacro, che nessuno può rubarcelo!
Chiamiamo tutti quanti!».
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