martedì 12 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 1° e 2° pagina.


I FIORI DELL’IGNOTO

 

PARTE PRIMA:

IL FIORE DELL’ENIGMA

 

CAPITOLO I: LA BARCA ARENATA

 

Non siamo noi a non poter raggiungere Loro;

sono Loro, gli Altri, a non poter raggiungere noi.

Almeno fino a quando non siamo noi a cercarli.

 

 

Il dottor Velthur Laran aprì il suo vecchio libro a quella pagina che ormai era diventata sdrucita ed ingiallita, da tante volte l’aveva letta e riletta. Era l’unica pagina di quel libro che non era mai riuscito ad interpretare. Di tutti i simboli che aveva trovato nel testo, era riuscito prima o poi a trovare la chiave, fuorché di quel brano all’inizio della pagina diciannove.

Ogni tanto, nelle sere solitarie passate nel suo studio, studiando i suoi libri di medicina, di chirurgia e di alchimia farmaceutica, o di esoterismo mistico e filosofico, gli veniva il bisogno di leggere e rileggere quel brano, nella speranza di poter avere una sorta di ispirazione superiore, dato che nessun testo di alchimia, nessun maestro di esoterismo aveva saputo dargli la chiave giusta, o anche un minimo riferimento storico ai simboli di quel passo, a tal punto che a volte sospettava che il brano in questione non avesse in realtà nessun significato, e fosse una specie di svolazzo lirico che si riferiva a fantasie personali dell’autore, o che l’autore stesso avesse riportato svolazzi lirici altrui.

Capitava a volte infatti che i libri di alchimia misterica avessero interi brani che non volevano dire assolutamente niente, essendo nati da menti che non erano sempre lucide, ma che a furia di fare uso di sostanze allucinogene per compiere viaggi in trance, finivano per naufragare nelle proprie stesse visioni deliranti. Troppo spesso, infatti, l’esoterismo sconfinava nella follia, o perlomeno nella contorta elucubrazione.

Eppure quel brano aveva sempre toccato una corda della sua anima, come se in qualche modo lo riguardasse, a tal punto che ormai le sue parole si erano scolpite nella sua mente.

Un giorno forse avrebbe scoperto cosa erano quei Tre Fiori dell’Ignoto di cui parlava il brano.

 

Tre sono i Fiori dell’Ignoto:

Il primo è il Fiore dell’Enigma, cioè di ciò che deve essere compreso, e del cui svelamento bisogna trovare la chiave.

Il secondo è il Fiore del Segreto, cioè di ciò che è celato e non deve essere rivelato.

Il terzo è il Fiore del Mistero, il più glorioso di tutti, è il simbolo di ciò che non viene compreso, e di cui la mente dei mortali non può sapere nulla, perché è oltre le loro capacità di comprensione.

Puoi cogliere il primo fiore, strappandolo agli inganni delle apparenze con la forza della tua mente, e goderne, o rimanerne sorpreso e atterrito.

Puoi cogliere il secondo fiore, strappandolo alle maglie di chi vuole celare la verità, e gioirne, oppure rimanerne inorridito.

Ma del terzo fiore non potrai cogliere se non la bellezza innominabile e il profumo, e non lo potrai mai possedere in questa vita mortale, a meno che tu non varchi la Soglia.

Là, oltre la Soglia dell’Altrove, vedrai ciò che occhio umano non ha mai contemplato, poiché può essere visto solo da chi a cui sono stati dati occhi che non sono umani.

Là contemplerai ciò che mente umana mai ha compreso e quando e se tornerai, non avrai parole per descrivere l’Innominabile, poiché non esistono parole nelle lingue umane per descrivere ciò che occhio umano non ha mai visto, orecchio umano non ha mai udito, mano umana non ha mai toccato, narici umane non hanno mai odorato, lingua umana non ha mai chiamato né gustato.

 

Richiuse il libro di scatto e lo rimise nella grande libreria dello studio. Mentre reinfilava il volume sullo scaffale, sentì il campanello della porta suonare furiosamente e i passi della sua domestica che correva ad aprire. Un’emergenza, si disse. Una delle tante. Ma si sbagliava.

Due ore prima, in quella giornata assolata ed afosa, una piccola serie di eventi assolutamente normali aveva portato a quella scampanellata furiosa.

A circa due chilometri in direzione sud-est dal villaggio di Arethyan, dove viveva il dottor Velthur, c’era la fattoria dei Ferstran, coltivatori di mele, ciliegie, viti e giuggiole, e produttori di vino, sidro e liquori.

Capofamiglia dei Ferstran era la vecchia matriarca Aranthi, che viveva con le sue tre figlie, i suoi due figli, il compagno della figlia maggiore e uno stuolo di nipoti.

Le tre figlie di Aranthi avevano seguito l’antica tradizione del loro popolo, così radicata nelle campagne: niente matrimonio, perché è contrario ai valori della famiglia, introducendo legami ed interessi economici nell’armonia dei sentimenti familiari, e creando legami con persone che non hanno nessuna consanguineità, e che perciò possono volgersi contro la propria stessa famiglia acquisita.

Il matrimonio era per la gente di città e per la casta di nobili-sacerdoti che dominavano il regno dei Thyrsenna, e che non seguivano certe arcaiche tradizioni che provenivano dal più lontano passato del Regno Verde, anche se mantenevano l’ereditarietà in linea femminile come tutti gli altri Thyrsenna.

Ma la figlia maggiore, Syndrieli, aveva comunque voluto la convivenza con il suo compagno, Larsin, mentre le sue due sorelle minori seguivano quello che veniva chiamato “matrimonio notturno” dalla gente di città, e che non era altro che l’avere una relazione che si svolgeva senza alcuna convivenza, poiché l’uomo si presentava di tanto in tanto di sera alla porta della casa dell’amata, e passava la notte con lei, per tornare a casa propria alla mattina, da sua madre e dalle sue sorelle e fratelli.

Questo costume di vita era largamente usato nei piccoli villaggi e nelle campagne dei Thyrsenna, e tutti ne erano soddisfatti, almeno apparentemente. I figli venivano allevati dalle sole madri e, quando c’era, dallo zio materno, che fungeva da padre, o da un prozio o da un cugino più anziano, comunque il consanguineo maschio più prossimo.

I padri non avevano nessuna responsabilità nei confronti dei figli, e potevano lasciare la loro donna quando volevano, e del pari la donna poteva rifiutarsi di accoglierlo nella sua camera da letto in qualsiasi momento.

Le famiglie erano tutte governate da anziane matriarche, circondate dallo stuolo di figlie, figli e nipoti, e il possesso di case e terreni si tramandava dalla madre alla figlia primogenita, destinata a diventare a sua volta matriarca.

Ma nelle fattorie isolate, o dove mancava un figlio maschio alla matriarca, si era soliti accogliere in casa almeno un compagno di una delle figlie, se non di tutte, per assicurare la presenza di un padre ai bambini, e di un aiuto maschile alle donne.

Syndrieli aveva voluto convivere con Larsin anche se aveva due fratelli in casa, perché il suo compagno era solo al mondo, e non aveva né madre né sorelle né nipoti.

La cosa non era piaciuta molto all’inizio a sua madre, perché Larsin non era neanche del paese, bensì un forestiero, proveniente da una provincia ad occidente, che da giovane aveva fatto per qualche tempo il soldato ai confini orientali del regno, poi si era dato alla ricerca dell’oro sui fiumi di quegli stessi confini, e poi, non trovando fortuna, era finito nel villaggio di Arethyan, dove aveva conosciuto Syndrieli.

Larsin si era dimostrato un uomo forte e capace, e alla fine la vecchia Aranthi l’aveva accettato in casa, anche se lui e Syndrieli poi non avevano mai celebrato il rito matrimoniale, e perciò lui aveva conservato il cognome di sua madre, che era Arayan.

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