sabato 30 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 20° pagina.


l’avevano aiutata a preparare la cena, la matriarca Aranthi e tutto lo stuolo di figli e nipoti, a parte suo figlio maggiore Enkar, che aveva accompagnato il padre Larsin e i due zii.

Ovviamente, alla tavolata c’era anche Thymrel, timida e silenziosa.

Si era formata un’atmosfera di protezione nei confronti della giovane. Di comune accordo, Syndrieli e Larsin avevano proposto alla matriarca Aranthi di raccontare una storia inventata per proteggerla dalla curiosità altrui e da pericolosi sospetti.

Larsin disse che avrebbe raccontato che si trattava di una sua cugina rimasta in miseria, che trovandosi incinta e orfana, e senza un uomo che la aiutasse, era venuta a vivere da lui e la famiglia di Syndrieli l’aveva accolta benevolmente.

Siccome Larsin non era di quelle parti, nessuno avrebbe avuto motivo di dubitare di questa spiegazione.

Avevano chiesto al dottor Laran di confermare quella storia, e lui non aveva fatto opposizioni. Se si fosse saputo in giro quello che aveva raccontato la ragazza, sarebbe stata considerata una pazza, o un essere pericoloso e stregato. E quel che era peggio, i gendarmi si sarebbero interessati a lei.

Per Larsin, la festa di Tinsi Kerris era l’occasione per allontanarsi da casa e divertirsi un po’ come voleva lui. Non era una festa da passare obbligatoriamente in famiglia, come invece era per il Tinsi Sil Ainis, la Festa del Solstizio d’Inverno, da celebrare nel chiuso delle case strette dalla morsa del gelo invernale.

Erano soprattutto le giovani senza figli e ancora senza alcun legame, i giovani che non avevano ancora cominciato a praticare il “matrimonio notturno” o la convivenza, gli uomini che non volevano alcun legame neanche in età matura, e i mariti e i conviventi più insofferenti delle loro matriarche contadine, che si recavano presso i falò nei campi per mangiare e ubriacarsi e amoreggiare, seguendo le tradizioni degli antichi riti di fecondità e prosperità che si perdevano nella notte dei tempi, invocando Dei il cui culto era praticato ancora prima della nascita del culto di Sil, la grande divinità solare dei Thyrsenna, ancor prima dell’antico Diluvio che aveva sommerso il mondo più di quattromila anni prima.

Anche se Larsin era un uomo attaccato alla sua donna, sentiva il bisogno di allontanarsi ogni tanto da lei, anche per evitare di litigare troppe volte. E a lei andava benissimo così.

Quella volta si era tirato dietro il figlio perché lo riteneva abbastanza grande per partecipare alla baraonda, anche se lo avrebbe sorvegliato e gli avrebbe impedito di bere sidro, birra o vino.

Un pio desiderio, perché gli adulti erano sempre pronti ad offrire al ragazzino ogni bendeglidei, compresi gli alcoolici.

E mentre Larsin si lasciava andare alle danze in compagnia di compiacenti ragazze da marito, attorno al grande falò su cui bruciava il grande spaventapasseri di legno e paglia, Erkan se ne stava a chiacchierare con i ragazzi grandi, per cercare di sentirsi grande anche lui, standosene tutti seduti sull’erba a sorseggiare la birra tradizionale del Veltyan, una strana mistura di malto, orzo, grano, , miele, prugne, nocciole e fichi fatti tutti fermentare assieme.

«Stanotte c’è la luna piena,» disse Iker, un ragazzo di diciassette anni, lontano cugino di Erkan. «Doppia festa per chi vive nei boschi. Avremmo dovuto andare presso le Fate, a partecipare alle danze del belk».

«Già, e chi ci sarebbe riuscito a raggiungere le dimore delle Fate? Non certo tu!» sbottò sua sorella minore Veli.

«E che ne sai, tu??? Basta conoscere qualcuno che è in amicizia con loro, e riesci a farti invitare alle loro feste, a quanto si dice….».

Erkan drizzò le orecchie. Si parlava di Fate e lui ovviamente era interessato.

«Conosci delle Fate?».

«Beh, io no. Ma conosco persone che le incontrano abitualmente nel bosco… sì, insomma, gente che va al belk, la festa di plenilunio delle Fate».

«Il belk? E che è?».

«Ma sei proprio un ragazzino ignorante! Cosa t’interessi delle cose dei grandi? Di ‘ste robe i ragazzini non devono saperne niente!».

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