paesi della pianura a quelli delle colline, costeggiando il
fiume. Dopo due chilometri, i due si infilarono nella stradina sulla sinistra
che arrivava alla fattoria dei Ferstran, ai piedi della collina coperta di
meli, viti, noci e pioppi.
Erkan avrebbe voluto dire al dottore che la donna era
sicuramente una Fata, un’idea che lo ossessionava sempre più, ma doveva
risparmiare il fiato per correre in quella calura. Gliel’avrebbe detto quando
fossero arrivati, se gli fosse rimasto fiato sufficiente.
Arrivarono nel cortile di fronte alla fattoria quasi subito
dopo che vi era arrivato anche Larsin. Teneva in braccio la ragazza sconosciuta
e la stava adagiando sulla panchina sotto il pergolato folto di viti,
all’ombra.
Un uomo della sua stazza possente non aveva avuto
particolari problemi a trasportare quella donna minuta e a portarla in breve
tempo a casa, che si trovava a poca distanza dal fiume.
«È ferita?» urlò il dottore mentre attraversava il cortile,
con la borsa degli strumenti che quasi sembrava volare dal suo braccio.
«No, sembra solo incinta, dottore. E non apre gli occhi».
«Ed è una Fata!».
«Tu sta zitto e non dire scemenze!»
«Una Fata?»
Il dottore le tastò il polso e le aprì una palpebra.
«Beh, non so nulla di come si cura una Fata…. quindi speriamo
proprio che non lo sia!»
«È sicuro che non lo è! Mio figlio s’inventa sempre un sacco
di scemenze! Tu, va a cercare tua madre, mentre io aiuto il dottore!»
Syndrieli era in cucina. Larsin risollevò la ragazza e la
portò in una delle camere da letto al piano di sopra.
Mentre salivano le scale di legno e nella casa risuonavano i
passi pesanti di Larsin sui gradini, sentivano la voce concitata di Syndrieli
che si avvicinava.
Una volta stesa sul letto, Larsin si fermò a osservarla,
come prima non aveva avuto tempo di fare, mentre il dottore la esaminava e
cercava di capire in che condizioni fosse.
Era una ragazza normale, come se ne vedevano tante in paese,
ma assolutamente sconosciuta, non aveva nulla di familiare. Magari veniva da
uno dei paesi vicini lungo il fiume, o magari dalle montagne.
Ed era anche molto pallida, ma la sua pelle era
sorprendentemente integra, come non era quella di una contadina, semmai come
quella di una nobildonna. Le sue mani non erano rovinate dal lavoro, le sue
unghie erano bianche ed intatte. Eppure non aveva nessun ornamento. I lunghi
capelli neri erano sciolti sulle spalle, senza fermagli né trecce, ed era
vestita di una semplice tunica grigia, di un tessuto che sembrava cotone, senza
cintura. Era vestita più semplicemente persino di una monaca.
Improvvisamente, gli venne in mente che potesse essere in
realtà una monaca fuggita da un convento, perché era rimasta incinta. Ce
n’erano parecchi di conventi femminili, nella regione dell’Enkarvian, e
capitava sovente che qualche giovane novizia, o anche meno giovane, non sapesse
mantenere il proprio voto di castità e si lasciasse ingravidare da qualche
contadino o da qualche signorotto locale.
I monasteri femminili del Veltyan erano qualcosa di strano e
particolare. Di monache a vita ce n’erano molto poche, ma di giovani monache
temporanee ce n’erano a iosa. Era normale per molte famiglie mandare in
monastero per tre anni le giovani figlie per servire Sil. In quel periodo di
tempo le ragazze non potevano essere avvicinate da alcun uomo e dovevano solo
pensare ad officiare i riti in onore della Grande Dea del Sole.
Dopo tre anni il loro voto di castità e di servizio a Sil
poteva essere rotto, gli veniva concesso di tornare a casa loro, e riprendere
una normale vita familiare, accogliere un uomo nella loro camera di notte o
decidere per il matrimonio di convivenza. Avere passato tre anni in un
monastero era considerato un onore, e le donne che l’avevano fatto godevano di
determinati privilegi.
Ma se una fanciulla trasgrediva i voti e si univa a qualche uomo prima dello
scadere dei tre anni, o mancava al suo servizio in qualche modo, veniva
disonorata e scacciata dal monastero, e perdeva
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