Il tessuto che aveva visto era l’orlo di una lunga veste
grigia, una semplice tunica come le portavano le contadine del Veltyan.
Larsin lanciò un grido di sorpresa, e il figlio fece per
correre al fianco del padre, ma con un gesto Larsin gli fece capire che doveva
ancora stare indietro.
Sul momento, Larsin pensò che fosse morta, poi vide che
respirava.
Con circospezione, sempre guardandosi attorno, salì sulla
barca, anche se provò un grande senso di disagio, come se salisse sopra un
letto di carboni ardenti. Ora che lo vedeva da molto vicino e poteva toccarlo,
sapeva che la sua impressione era vera. C’era qualcosa di innaturale nel colore
di quella barca.
Avrebbe preferito non essere a piedi nudi, ma aveva lasciato
i suoi sandali presso la riva, assieme alla canna da pesca e al cesto del cibo
Con infinita cautela sollevò la testa della donna, che gli
apparve molto giovane.
Non vide nessuna ferita, ma l’aspetto della ragazza era di
una persona denutrita, molto provata. Respirava debolmente.
Mentre era inginocchiato su di lei, provò a prenderla tra le
braccia, tenendola in grembo. Pensò che dovesse essere solo svenuta.
Mentre la teneva stretta, la giovane ebbe come un fremito,
un sussulto, un’inconscia reazione di paura, come se sognasse un incubo troppo
realistico. Spalancò per un attimo gli occhi, che erano grigi. Poi li richiuse.
Per un attimo sembrava essersi risvegliata, per poi ripiombare nell’oblio.
Pareva una Thyrsen, e ne aveva tutte le caratteristiche. Di
media statura, con i lineamenti regolari e i lunghi capelli neri, il colorito
pallido e gli occhi grigi, aveva tutte le peculiarità della Razza Antica. Non
c’era motivo per pensare che fosse una straniera.
Solo allora Larsin si decise a chiamare il figlio, che
accorse subito, e che rimase quasi impietrito di fronte alla vista della
ragazza.
«Questa fanciulla sta male! Non so chi sia, ma bisogna
aiutarla. Va a casa e avverti tua madre, anzi no, vai a chiamare il dottor Velthur in paese
prima. Ma sbrigati! Io cercherò di farla riprendere e di portarla verso casa.
Se non mi troverete qui, mi troverete sul sentiero che porta a casa nostra».
«Padre! È una Fata, vero?».
«Ma che Fata e Fata, stupido! È una donna, non vedi? E
guarda…. Dal ventre che ha, sembrerebbe anche incinta! Credo che sia rimasta
sola e abbandonata su questa barca fino a quando non si è arenata! sbrigati!».
Erkan scappò via brontolando. Dentro di sé ripeteva: “è una
Fata, sicuro che è una Fata! Mio padre non capisce niente!”
Poco importava che le Fate avessero notoriamente tutte
quante o quasi i capelli bianchi come l’argento e una statura molto bassa,
oltre a dei lineamenti molto strani e diversi da quelli umani. Lui si era messo
in testa che doveva essere una Fata dei fiumi travestita da donna, una Acquana.
Come altrimenti si sarebbe potuta spiegare quella stranissima barca di cui non
si era mai vista una simile?
Continuò a borbottare “è una Fata” mentre il suo respiro
diventava sempre più affannoso e l’afa estiva lo faceva sudare come una
fontana, fra le anse sassose del fiume, e quando fu in vista delle case del
villaggio in mezzo a un grande prato che declinava lungo la riva, cominciò a
urlare, facendosi sentire all’inizio solo da un gregge di pecore e dal loro
pastore con il cane, il quale gli rispose abbaiando.
Continuò a gridare “è una Fata!” fino a quando arrivò nella
piccola piazza di Arethyan, dove stava la casa del dottor Velthur Laran,
proprio al lato opposto del tempio di Sil, la Dea del Sole, come a simboleggiare un’opposizione
totale ad un’altra autorità del villaggio, cioè i due sacerdoti della divinità
suprema del Veltyan.
Erkan, mentre tirava furiosamente la catena del campanello
di casa Laran, pensò che forse il medico gli avrebbe dato ragione. Lui avrebbe
saputo distinguere una donna da una Fata, e sicuramente il dottore sapeva come
erano le loro barche. Non appena avesse visto quella stranissima barca, avrebbe
dato ragione a lui.
Nessun commento:
Posta un commento