sabato 16 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 6° pagina


Il tessuto che aveva visto era l’orlo di una lunga veste grigia, una semplice tunica come le portavano le contadine del Veltyan.

Larsin lanciò un grido di sorpresa, e il figlio fece per correre al fianco del padre, ma con un gesto Larsin gli fece capire che doveva ancora stare indietro.

Sul momento, Larsin pensò che fosse morta, poi vide che respirava.

Con circospezione, sempre guardandosi attorno, salì sulla barca, anche se provò un grande senso di disagio, come se salisse sopra un letto di carboni ardenti. Ora che lo vedeva da molto vicino e poteva toccarlo, sapeva che la sua impressione era vera. C’era qualcosa di innaturale nel colore di quella barca.

Avrebbe preferito non essere a piedi nudi, ma aveva lasciato i suoi sandali presso la riva, assieme alla canna da pesca e al cesto del cibo

Con infinita cautela sollevò la testa della donna, che gli apparve molto giovane.

Non vide nessuna ferita, ma l’aspetto della ragazza era di una persona denutrita, molto provata. Respirava debolmente.

Mentre era inginocchiato su di lei, provò a prenderla tra le braccia, tenendola in grembo. Pensò che dovesse essere solo svenuta.

Mentre la teneva stretta, la giovane ebbe come un fremito, un sussulto, un’inconscia reazione di paura, come se sognasse un incubo troppo realistico. Spalancò per un attimo gli occhi, che erano grigi. Poi li richiuse. Per un attimo sembrava essersi risvegliata, per poi ripiombare nell’oblio.

Pareva una Thyrsen, e ne aveva tutte le caratteristiche. Di media statura, con i lineamenti regolari e i lunghi capelli neri, il colorito pallido e gli occhi grigi, aveva tutte le peculiarità della Razza Antica. Non c’era motivo per pensare che fosse una straniera.

Solo allora Larsin si decise a chiamare il figlio, che accorse subito, e che rimase quasi impietrito di fronte alla vista della ragazza.

«Questa fanciulla sta male! Non so chi sia, ma bisogna aiutarla. Va a casa e avverti tua madre, anzi no,  vai a chiamare il dottor Velthur in paese prima. Ma sbrigati! Io cercherò di farla riprendere e di portarla verso casa. Se non mi troverete qui, mi troverete sul sentiero che porta a casa nostra».

«Padre! È una Fata, vero?».

«Ma che Fata e Fata, stupido! È una donna, non vedi? E guarda…. Dal ventre che ha, sembrerebbe anche incinta! Credo che sia rimasta sola e abbandonata su questa barca fino a quando non si è arenata! sbrigati!».

Erkan scappò via brontolando. Dentro di sé ripeteva: “è una Fata, sicuro che è una Fata! Mio padre non capisce niente!”

Poco importava che le Fate avessero notoriamente tutte quante o quasi i capelli bianchi come l’argento e una statura molto bassa, oltre a dei lineamenti molto strani e diversi da quelli umani. Lui si era messo in testa che doveva essere una Fata dei fiumi travestita da donna, una Acquana. Come altrimenti si sarebbe potuta spiegare quella stranissima barca di cui non si era mai vista una simile?

Continuò a borbottare “è una Fata” mentre il suo respiro diventava sempre più affannoso e l’afa estiva lo faceva sudare come una fontana, fra le anse sassose del fiume, e quando fu in vista delle case del villaggio in mezzo a un grande prato che declinava lungo la riva, cominciò a urlare, facendosi sentire all’inizio solo da un gregge di pecore e dal loro pastore con il cane, il quale gli rispose abbaiando.

Continuò a gridare “è una Fata!” fino a quando arrivò nella piccola piazza di Arethyan, dove stava la casa del dottor Velthur Laran, proprio al lato opposto del tempio di Sil, la Dea del Sole, come a simboleggiare un’opposizione totale ad un’altra autorità del villaggio, cioè i due sacerdoti della divinità suprema del Veltyan.

Erkan, mentre tirava furiosamente la catena del campanello di casa Laran, pensò che forse il medico gli avrebbe dato ragione. Lui avrebbe saputo distinguere una donna da una Fata, e sicuramente il dottore sapeva come erano le loro barche. Non appena avesse visto quella stranissima barca, avrebbe dato ragione a lui.

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