Quando però la domestica del dottore, la signora Artheni
Mendibur, gli aprì, Erkan non riuscì a spiegarsi chiaramente, tanta era
l’emozione.
«Signora, presto… il dottore deve venire, al fiume, mio
padre… ha bisogno, no, deve venire con me prima a casa nostra…. una donna nel
fiume, cioè…. una donna che non è una donna, una Fata….. sta male, forse….è
incinta, non lo so… il dottore deve venire….».
La signora Mendibur non portava molta pazienza con la gente.
Il suo lavoro in casa del dottore era continuamente disturbato dalla gente di
paese e dai contadini delle campagne e delle colline che venivano a chiedere
l’aiuto del dottore di giorno e di notte, per un motivo o per l’altro. Il
dottore c’era sempre per tutti e quindi spesso doveva esserci anche lei, anche
perché a volte doveva aiutarlo, soprattutto quando arrivava qualcuno con
qualche ferita grave.
Era diventata un poco medica anche lei, dato che nel Veltyan
non esistevano quelli che venivano chiamati “infermieri”, o meglio erano
rappresentati da quelli che venivano chiamati “medici di primo livello”.
Perciò, quando arrivava qualcuno che non si sapeva cosa
voleva e non era chiaro se aveva dei motivi veramente seri per disturbare, lei
cominciava a urlare.
«Figliuolo, non ti sembra di essere un po’ troppo giovane
per ubriacarti?? Lo sai che lo dice sempre anche il dottore che i ragazzini non
devono bere alcool!!! Né vino, né sidro, né birra. O ti decidi a dirmi cosa
vuoi chiaramente, o torna quando sei sobrio!»
Le urla della domestica ottennero proprio l’effetto di chiamare
fuori il dottor Velthur.
«Lasciate stare, Artheni, ci penso io. Riprendete a pensare
alla purea di mele e carote…..».
La signora Mendibur non se lo fece ripetere per la seconda
volta. Si fiondò verso la cucina, per non urlare ancora.
«Dottore, mio padre al fiume… abbiamo trovato una donna
dentro una barca…. Sta male, mi ha detto di venire a chiamarvi e portarvi a
casa nostra».
«Una donna? È ferita?».
«No, signor dottore, non mi pareva. Ma era svenuta, non
stava bene senz’altro…. Mio padre la sta portando a casa nostra, credo. Sembra
che aspetti un bambino».
«Ho capito. Dammi il tempo di preparare la mia borsa e vengo
subito».
Erkan aspettò rispettosamente il dottore di fronte alla
porta d’entrata. Avrebbe voluto entrare, ma si trattenne.
C’era un così bel fresco dentro la casa del dottore, quasi
più che nella fresca fattoria dei Ferstran. Erkan lo sentiva venire dal
corridoio aperto. Immaginò che il freddo della casa del dottore fosse dovuto a
qualcuna delle misteriose pozioni alchemiche che sicuramente il dottore
conosceva.
Erkan, figlio analfabeta di contadini semianalfabeti, che
manco era mai andato a scuola, aveva sentito dire dai grandi che con le
sostanze e gli alambicchi alchemici si poteva fare praticamente ogni cosa:
generare freddo, calore, luce, tenebre, suoni, immagini e ogni sorta di
prodigi, e sapeva che il dottor Velthur aveva fama di essere una persona
coltissima e abile nell’alchimia farmaceutica, oltre che un dottore di grande
bravura.
Perché poi una persona così notevole si fosse rinchiusa in
quel piccolo paesetto di provincia ai piedi delle montagne ai confini del Regno
Verde, anziché andare ad esercitare in città come Enkar o Ermonel, che non
erano molto distanti, non lo sapeva nessuno.
Le gente del paese sapeva solo che era inviso alle gerarchie
sacerdotali, e che non era devoto al culto nazionale di Sil, ma seguiva
un’altra religione, che da quelle parti non era conosciuta.
Infatti non lo si vedeva quasi mai nel tempio di Sil, se non
in occasione di matrimoni e funerali.
E questo naturalmente aveva tarpato la sua carriera, perché
nel Veltyan, il vasto Regno Verde, o le cose si facevano in accordo con i
sacerdoti, che possedevano la maggior parte delle leve del potere, oppure si
restava in un angolo, per quanto bravi e capaci e intelligenti si potesse
essere.
Anzi, quando uno era una persona in gamba e non andava
d’accordo con il clero dei Thyrsenna, era trattato ancora peggio.
Pochi minuti dopo, il dottor Velthur stava correndo nella calura estiva
accompagnato da Erkan, all’ombra del lungo filare di cipressi che costeggiava
l’ampia strada lastricata di ardesia che univa i
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