percepito l’odore. Credo proprio che abbia lasciato la zona.
Probabilmente è tornato alle Colline di Leukun, per riferire alle Tre Madri del
Fato».
«Credevo che le Fate non avessero bisogno di essere vicine
fisicamente per poter comunicare fra di loro…».
«No, infatti no…. ma penso che dopo quello che è successo, la Triplice Regina avrà voluto
fare una riunione speciale del suo popolo, e in quelle riunioni, per
tradizione, devono essere tutti presenti fisicamente attorno alla Reggia di
Pietra».
«La Reggia
di Pietra? Ah, il megalito colorato dove vivono le Tre Madri….hai ragione.
Quello che è successo deve essere stato un bel trambusto anche per loro».
«A ben pensarci, da quel giorno maledetto non ho mai visto
nessuno del popolo fatato nel bosco. Prima incontravo sempre qualcuno, non solo
Azyel. Loro si rendono invisibili agli Uomini, ma non a noi, e nel bosco, anche
se non li vediamo direttamente, riusciamo comunque a percepirne la presenza.
Invece, in questi ultimi giorni non ho né visto né percepito nessuno. Credo che
le Fate siano veramente spaventate. Quando torniamo da Enkar, andrò
direttamente alle Colline di Leukun».
«E i tuoi, Menkhu? Tuo padre e la tua famiglia?».
«Ho incontrato un mio amico proprio ieri. Era anche lui alla
Polenta Verde quando è venuta la Regina. C ’erano
diversi Sileni che erano incuriositi dall’evento. Mi ha detto che anche loro
non vedono più le Fate nel bosco e che sarebbe andato anche lui alle Colline di
Leukun per andare a vedere se davvero si sono riunite tutte là».
«Bene, un motivo in più per sbrigarci, allora. Domani
partiamo di mattina presto, con il primo barcone mercantile che troviamo».
«Finalmente vedo la città!»
E ripiombò a dormire e a russare nel giro di pochi secondi.
Velthur lo invidiò per la sua capacità di addormentarsi così
rapidamente, lui che invece, tormentato da mille elucubrazioni, spesso soffriva
di insonnia, o comunque ci metteva troppo tempo per addormentarsi. Aveva sempre
invidiato i Sileni per le loro capacità, che nessun Uomo aveva mai avuto.
CAP. XVIII: STRANO VIAGGIO IN CITTÁ
La mattina dopo, come stabilito, partirono per la città.
Il tempo non era dei migliori, anche se non era un disastro
totale. C’era la nebbia sulla pianura, che andava e veniva in ampi banchi.
In certi tratti la grigia, triste penombra delle nebbie
impediva di vedere a più di un metro sull’acqua, in certi altri un pallido
disco bianco, così pallido da poter essere guardato ad occhio nudo,
occhieggiava sopra il fiume, sopra i filari di alberi invernali della riva, che
emergevano come file di sentinelle nere e grigio scure.
Velthur non amava la nebbia, gli metteva una malinconia e un
senso di vuoto assoluti. Gli pareva che il grigio abisso del vuoto avvolgesse
tutto quanto, come per dire che la vita non aveva alcun senso, e che tutto era
appunto solo un grigio e vuoto nulla. Era un sentimento esagerato,
melodrammatico, ma non poteva fare a meno di avvertirlo.
La nebbia era il simbolo della solitudine che era sempre
stata la sua compagna fedele fin dall’infanzia.
Fin da bambino, aveva pensato spesso che così dovesse essere
il luogo dell’oltretomba dove vengono punite le anime malvage: un grigio vuoto
senza fine, fatto solo di solitudine e disperazione, senza bellezza, senza
senso, senza vita.
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