lunedì 19 settembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 201° pagina.


percepito l’odore. Credo proprio che abbia lasciato la zona. Probabilmente è tornato alle Colline di Leukun, per riferire alle Tre Madri del Fato».

«Credevo che le Fate non avessero bisogno di essere vicine fisicamente per poter comunicare fra di loro…».

«No, infatti no…. ma penso che dopo quello che è successo, la Triplice Regina avrà voluto fare una riunione speciale del suo popolo, e in quelle riunioni, per tradizione, devono essere tutti presenti fisicamente attorno alla Reggia di Pietra».

«La Reggia di Pietra? Ah, il megalito colorato dove vivono le Tre Madri….hai ragione. Quello che è successo deve essere stato un bel trambusto anche per loro».

«A ben pensarci, da quel giorno maledetto non ho mai visto nessuno del popolo fatato nel bosco. Prima incontravo sempre qualcuno, non solo Azyel. Loro si rendono invisibili agli Uomini, ma non a noi, e nel bosco, anche se non li vediamo direttamente, riusciamo comunque a percepirne la presenza. Invece, in questi ultimi giorni non ho né visto né percepito nessuno. Credo che le Fate siano veramente spaventate. Quando torniamo da Enkar, andrò direttamente alle Colline di Leukun».

«E i tuoi, Menkhu? Tuo padre e la tua famiglia?».

«Ho incontrato un mio amico proprio ieri. Era anche lui alla Polenta Verde quando è venuta la Regina. C’erano diversi Sileni che erano incuriositi dall’evento. Mi ha detto che anche loro non vedono più le Fate nel bosco e che sarebbe andato anche lui alle Colline di Leukun per andare a vedere se davvero si sono riunite tutte là».

«Bene, un motivo in più per sbrigarci, allora. Domani partiamo di mattina presto, con il primo barcone mercantile che troviamo».

«Finalmente vedo la città!»

E ripiombò a dormire e a russare nel giro di pochi secondi.

Velthur lo invidiò per la sua capacità di addormentarsi così rapidamente, lui che invece, tormentato da mille elucubrazioni, spesso soffriva di insonnia, o comunque ci metteva troppo tempo per addormentarsi. Aveva sempre invidiato i Sileni per le loro capacità, che nessun Uomo aveva mai avuto.









CAP. XVIII: STRANO VIAGGIO IN CITTÁ



La mattina dopo, come stabilito, partirono per la città.

Il tempo non era dei migliori, anche se non era un disastro totale. C’era la nebbia sulla pianura, che andava e veniva in ampi banchi.

In certi tratti la grigia, triste penombra delle nebbie impediva di vedere a più di un metro sull’acqua, in certi altri un pallido disco bianco, così pallido da poter essere guardato ad occhio nudo, occhieggiava sopra il fiume, sopra i filari di alberi invernali della riva, che emergevano come file di sentinelle nere e grigio scure.

Velthur non amava la nebbia, gli metteva una malinconia e un senso di vuoto assoluti. Gli pareva che il grigio abisso del vuoto avvolgesse tutto quanto, come per dire che la vita non aveva alcun senso, e che tutto era appunto solo un grigio e vuoto nulla. Era un sentimento esagerato, melodrammatico, ma non poteva fare a meno di avvertirlo.

La nebbia era il simbolo della solitudine che era sempre stata la sua compagna fedele fin dall’infanzia.

Fin da bambino, aveva pensato spesso che così dovesse essere il luogo dell’oltretomba dove vengono punite le anime malvage: un grigio vuoto senza fine, fatto solo di solitudine e disperazione, senza bellezza, senza senso, senza vita.

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