«Macché! Si sa che le Fate non vogliono avere niente a che
fare con le leggi e i governi degli Uomini. La verità è che la nostra alkati è una strega, e perciò ha
commercio con loro».
«Ah, però…. Un’alkati
strega che ha rapporti con le Fate…. saranno contenti i sacerdoti del paese».
«I sacerdoti? Sono molto amici delle Fate anche loro. Non lo
danno a vedere, ovviamente, ma anche loro vanno a chiedere consulti. Come ho
detto, vengono anche sacerdoti, qua. Uno lo vedo ogni tanto spesso. Un eremita
di Monte Leccio… un tipo strano».
«Intendete dire il Reverendo Padre Aralar Alpan?».
«Sì, credo…. cioè, lo conosco solo di vista, ma so che vive
a Monte Leccio, e su di lui circolano parecchie chiacchiere. Per esempio, che
partecipi al belk. I nostri sacerdoti
dicono che appartiene a una setta misterica, e che è un uomo di grande
sapienza. Un alchimista di quelli tosti, pare».
Velthur si sentì fortunato. Aveva trovato un chiacchierone
che gli avrebbe fornito probabilmente molte interessanti informazioni.
«Un po’ lo conosco anche io. Ma molto poco. Sono passato per
il suo eremo su Monte Leccio, per puro caso. Anche là le Fate si riuniscono per
il belk da qualche tempo, pare. Non
si capisce perché, dato che non ci sono mai state Fate lassù, se non forse in
un lontano passato, a sentire certe leggende».
«Allora è per quello che si è stabilito lì, forse. O forse
ce le ha portate lui, chissà».
Fino a quando arrivarono al paese di Tulvanth, la
conversazione si spostò su cose più normali. Sethir parlò della sua famiglia,
Velthur invece parlò della sua professione di medico.
Tulvanth non era che un piccolo gruppo di vecchie case
contadine arroccate sul fianco della collina. La strada lastricata passava
davanti a una piccola piazza con la casa dell’alkati, l’edificio in cui si
svolgevano le riunioni delle matriarche e dei loro fratelli primogeniti delle
varie famiglie e che decidevano le regole della comunità e che fungeva anche da
tribunale locale.
Aveva un’aria fatiscente ed in disuso, e per le strade non
si vedeva nessuno. Dava proprio l’idea di un paese ai confini della civiltà,
semiabbandonato, in decadenza.
Un luogo da streghe, insomma. Un luogo dove donne ai margini
della società civile praticavano culti primitivi e segreti in compagnia di Fate
e Sileni, dove l’analfabetismo, la povertà, le unioni fra consanguinei facevano
sì che la gente si rivolgesse a tutto quello che non piaceva ai poteri
costituiti del paese, dove persino i sacerdoti, la prima delle classi dominanti
del Regno Aureo, scendevano a patti con tradizioni più antiche di loro.
Niente di strano che anche l’alkati locale fosse una strega,
e che anche i sacerdoti là fossero amici delle Fate. Bisognava che lo fossero,
per poter svolgere il loro compito indisturbati.
Era il tardo pomeriggio, ormai. Velthur era arrivato prima
del previsto grazie a Sethir, ma era comunque troppo tardi per affrontare il
bosco delle Fate.
Il dottore chiese al vecchio se c’era una locanda dove
potersi fermare per la notte.
«Ma neanche per sogno. Siete ospite in casa mia. E poi la
locanda del paese fa schifo, vi assicuro».
Benedetta l’ospitalità degli umili, anche se Sethir era
contento di ospitare un dottore nella speranza che lo aiutasse a curarsi i
dolori della vecchiaia. Il paese era così degradato ed isolato da non avere
neanche un medico, lì tutto dipendeva dai rimedi della tradizione popolare e
dalla conoscenza delle erbe delle streghe di campagna, e dalle loro presunte
capacità taumaturgiche. E dal popolo fatato.
La casa dei Frontiakh era un po’ più avanti del paese sulla
strada lastricata, che proseguiva con ampie anse lungo i fianchi delle colline
verso altri paesi, fino a terminare in mezzo alla bianca muraglia delle
Montagne della Luna, non lontano dall’antico Zerennal Baras, il Giardino delle
Rose, il favoloso e quasi mitico regno dei Nani che scampò alle acque del
Diluvio.
Un’altra tentazione per la fantasia di Velthur, di
intraprendere un viaggio anche per quella strada, nella speranza di poter
ottenere il permesso, dato a pochi Uomini, di visitare il regno sotterraneo dei
Maestri dell’Alchimia Antica.
La casa dei Frontyakh
appariva anch’essa vecchia e fatiscente all’esterno come tutte le case
di Tulvanth, ma all’interno aveva un’aria più ospitale.
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