lunedì 20 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 124° pagina.


«Alle volte vorrei avere un’istruzione, poter leggere tanti libri e conoscere il mondo fuori dal villaggio, ma non saprei a chi rivolgermi, dove andare. Mia nonna mi ha insegnato a leggere e scrivere, ma qui non ci sono molti libri. Non saprei neanche dove comprarli».

«Ve li potrei fornire io. Che libri vi piacerebbe leggere?».

«Non so neanche che libri potrei leggere. Mia nonna tiene alcuni libri religiosi, mi ha fatto leggere il Tinsina Entinaga, e un poema antico sulla Prima Regina e le sue battaglie per fondare il Regno Aureo….».

«Sì, l’Avilna Thesanal, Gli Anni del Mattino. È la prima opera poetica che i bambini imparano a scuola. Vi piace la poesia?».

«Sì, credo proprio di sì. Penso che mi piacerebbe leggere un libro di poesie».

«Quando torno a casa, ve lo farò avere».

«Tanto, non credo che voi vi farete vedere ancora da queste parti».

«Non è detto. Ammetto che qui è un po’ fuori mano per chi sta ad Arethyan, ma non siamo neanche lontanissimi. Voi non uscite mai dal villaggio?».

«Beh, a volte vado al mercato di Aminthaisan con i miei parenti».

«E ad Arethyan, ci siete mai stata?».

«No, mai».

«Vi piacerebbe venire una volta o l’altra, ed essere mia ospite?».

«Io…. sì. Mi piacerebbe molto».

«Allora, quando volete, la mia porta è aperta per voi. Così potrò ricambiare la vostra gentilezza».

Velthur la vide arrossire, e sorridere come non aveva mai fatto prima da che l’aveva vista per la prima volta.

Finito di mangiare, Velthur chiese di poter tornare a letto e le augurò la buona notte.

Il giorno dopo, voleva subito andare al bosco delle Fate, per poter incontrarsi con loro.

Riuscì a dormire, ma verso il mattino fece dei brutti sogni, confusi e sgradevoli, che non riuscì neanche a ricordarsi quando si svegliò, richiamato dal bussare alla porta della sua camera.

La figlia maggiore della matriarca lo chiamava a consumare la colazione assieme agli altri membri della famiglia.

La donna sbirciò dalla porta, chiedendogli se stava bene, e che era molto dispiaciuta del fatto che il vino fatato gli avesse fatto così male.

Velthur le disse di aspettare un attimo, che si infilasse i suoi vestiti, poi uscì dalla camera chiedendo dove potesse lavarsi un poco.

Mentre la donna lo conduceva alla fontana accanto alla casa, il dottore le disse che, se davvero erano dispiaciuti di quello che era successo, di non offrire mai più ad alcun ospite il vino fatato.

Gli rispose che sua figlia Harali gli aveva raccontato cosa si erano detti la sera prima, e gli promise che non l’avrebbero più fatto.

Velthur non ci credeva, ma in fin dei conti sapeva che non poteva farci niente. Chissà quanti otri di vino drogato c’erano in quel paese degradato, vino fatato che scorreva a fiumi nelle notti di plenilunio, consumato insieme dalla gente del paese, la gente del bosco e dai visitatori che venivano di nascosto a partecipare ai culti misterici e a farsi praticare la divinazione dalle Custodi del Fato.

Sethir sembrava sinceramente dispiaciuto. Disse che non aveva mai visto uno urlare ed agitarsi subito come aveva fatto lui, e gli chiese cosa avesse visto di così spaventoso.

Gli rispose che aveva visto dei mostri orribili che neanche voleva ricordare, senza aggiungere particolari.

Non voleva perdersi a descrivere i particolari delle sue visioni, che senz’altro ricordava molto bene e che l’avevano impressionato, perché non aveva voglia di discorrere ancora con il vecchio furbacchione.

Eppure un particolare lo ossessionava con il suo ricordo. Quello dello strano, gigantesco uomo dai grandi occhi neri che gli aveva detto quella frase apparentemente priva di senso.

Fece colazione rapidamente, salutò i suoi ospiti e chiese loro la strada per raggiungere le dimore delle Fate nel bosco.

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