Poi, improvvisamente, vide tutto cambiare attorno a sé, e la
vita segreta del bosco delle Fate, o meglio la loro città di alberi e piante,
gli si rivelò.
Tutt’intorno a lui, comparvero le dimore del popolo delle
Fate, basse e larghe cupole di rami intrecciati su cui i rampicanti erano
cresciuti creando mura di verde vivo, e in cui si aprivano piccole finestre
rotonde e porte a semicerchio.
Il popolo delle Fate comparve del pari presso le case fatte
di piante, femmine e maschi tutti ugualmente di un pallore spettrale, i capelli
bianchissimi, a volte ondulati, a volte ricciuti, tutti con i loro grandi occhi
neri e a mandorla, in cui brillavano le pupille come stelle d’oro, e che davano
sguardi distratti, ma non meno inquietanti, a Velthur.
Stranamente, i maschi erano generalmente un po’ più bassi
delle femmine, che apparivano comunque anch’esse di bassa statura. Tutti però
erano vestiti di varie tonalità di verde: dal verde scuro al verde erba, al
verde smeraldo, fino al verde oliva, con lunghe e semplici tuniche strette in
vita da cinture di corda di vari colori.
Si sapeva che le Fate erano ancora più matriarcali dei
Thyrsenna, e quindi non c’era da stupirsi che le femmine fossero più alte dei
maschi, come anche dimostrava il fatto che di esse si parlasse usando il genere
femminile, come per le api e le formiche.
Anzi, le antiche cronache del Veltyan dicevano che era per
causa loro, che gli Uomini del Regno Aureo erano diventati un popolo dalle
tradizioni matriarcali.
Quando gli antenati dei Thyrsenna si erano stabiliti nel
Veltyan pochi anni dopo il Diluvio, fuggendo dalle lontane terre australi a
bordo dell’Arca di Manowa, avevano incontrato le Fate che erano sopravvissute
al grande cataclisma in cima alle Montagne Albine, e il popolo fatato aveva
insegnato molte cose alle Madri dei Thyrsenna, così che la loro società, che
prima del Diluvio era stata patriarcale, si era profondamente trasformata.
Quell’epoca era ricordata dalle leggende popolari come
un’epoca felice, in cui Uomini e Fate convivevano insieme come fossero un unico
popolo. Velthur però dubitava che quell’epoca fosse mai veramente esistita.
«Così è vero quello che ho letto nei miei libri. Il popolo
fatato ha il potere di creare qualsiasi illusione agli occhi degli Uomini, così
da nascondersi completamente e senza possibilità alcuna di venire scoperti!».
«Ne dubitavi, forse?».
«No, sinceramente no. Ma un conto è sentirne parlare, un
conto è vedere».
«Stai per vedere e sentire molte altre cose di cui hai
sentito parlare, e penso alcune altre di cui non hai mai udito niente, neanche
dal tuo sapiente amico Prukhu. Guarda dietro di te, chi ti stava aspettando!».
Sentendo il nome di Prukhu, il dottore si volse di scatto
aspettandosi di vederlo, ma il suo sguardo incontrò qualcosa di molto più
sorprendente.
Ora guardava la radura al centro del cerchio di megaliti, ma
la vedeva completamente diversa anch’essa dopo che il velo dell’illusione era
stato rimosso dai suoi occhi, con qualcosa che strabiliava per la sua
magnificenza.
Al centro della radura c’erano altri tre megaliti alti più
di tre metri, come tre colonne di pietra: uno bianco come il marmo, l’altro
rosso come l’arenaria, e il terzo nero come l’ardesia. Disposti a triangolo
equilatero, sorreggevano un’enorme lastra di pietra circolare, larga almeno
otto metri, dai bordi arrotondati come tutti gli altri megaliti, come un
gigantesco sasso di fiume appiattito, di colore verdazzurro tenue.
Come si fosse stati capaci di erigere una simile primordiale
meraviglia in cima al colle, in mezzo a un bosco, era un mistero assoluto. Un
mistero dovuto alle arti magiche delle Fate, custodite nella più totale
segretezza da esseri come lo Gnomo con cui stava parlando.
E sotto la lastra di pietra, proprio in mezzo ai tre
megaliti, stavano sedute su scranni di pietra scavata tre figure femminili,
coperte da un lungo velo. Ognuna di loro era vestita di un colore diverso: una
di nero, un’altra di rosso, e la terza di bianco.
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