martedì 21 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 125° pagina.


«Prendete il sentiero dietro la nostra casa, e seguitelo fino in cima al colle. Là le troverete» gli spiegò Harali.

S’incamminò deciso. Aveva timore di ciò che avrebbe potuto scoprire, ma proprio per questo voleva affrettarsi a risolvere la questione una volta per tutte, se era possibile.

Il sentiero saliva con brevi tornanti, in mezzo a un bosco luminosissimo, dove la luce sembrava filtrare ovunque e diventare di una tonalità quasi spettrale.

Si sentiva che quel bosco aveva qualcosa di insolito, così come ce l’avevano i boschi di Monte Leccio. Ma mentre là gli alberi apparivano scuri e minacciosi nelle forme, e non si udivano suoni né segni di vita, là tutto sembrava di una vitalità intensa e rigogliosa.

Gli alberi erano di un verde estremamente brillante, e così l’erba che ricopriva foltissima il sottobosco.

Noci, castagni, gelsi, noccioli, mandorli, meli costituivano la flora del luogo, come in un gigantesco frutteto naturale.

Sul terreno si vedevano numerose piante di mirtillo rosso e nero, lamponi, ribes, rovi con more che stavano maturando, rose canine, fragoline di bosco e altre bacche, e persino alcune piante di zucca, come se il sottobosco fosse un gigantesco orto di frutti di bosco e vari ortaggi selvatici.

Nulla di stupefacente per Velthur. Sapeva che era una delle massime arti delle Fate, quello di coltivare il bosco come gli Uomini riescono a coltivare un campo, anzi meglio, perché loro non avevano bisogno di abbattere nessun albero.

Sembrava che avessero il potere di guidare la crescita delle piante a proprio favore, facendo prevalere le specie che potevano produrre nutrimento o materiali utili, senza bisogno di arare o strappare le erbacce.

Attaccate agli alberi si vedevano strane rozze arnie di corteccia, in gran numero, e il ronzìo di milioni di api accompagnava il visitatore come un sinistro, ronzante sottofondo musicale in ogni anfratto del bosco.

Tutta la foresta fremeva di una vita segreta, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro in uno scoppio di energia vitale.

Ma la cosa più strana del bosco fatato erano le grandi rocce che spuntavano qua e là. Grandi, verticali e massicce, levigate e arrotondate come pietre di fiume, sicuramente non erano state piazzate là dalla natura. Anche perché presentavano tutte delle incisioni sulla superficie liscia, perlopiù complesse immagini geometriche, e qualche figura stilizzata di animali e piante.

Che cosa potessero voler dire quelle figure, e a che scopo fossero stati messi lì quei monoliti, Velthur non lo sapeva. Nei suoi libri a volte si accennava alle iscrizioni delle Fate sulle rocce, ma non se ne dava la spiegazione, perché nessuno ne sapeva niente, se non quegli Uomini che seguivano anch’essi i culti misterici delle Fate, e che erano legati da un giuramento a non rivelarne niente.

Ogni tanto Velthur si fermava per non stancarsi troppo e per osservare il paesaggio attorno, per capirne i particolari anomali, nella speranza di cogliere una presenza senziente. Ma le uniche forme animate erano gli uccelli che cantavano ininterrottamente sugli alberi e gli scoiattoli che correvano arrampicandosi sugli alberi, oltre a una grande quantità di farfalle e di api. Di Fata non se ne vedeva neanche una.

Ma lui sapeva che loro lo stavano osservando. E che lui avrebbe anche potuto cercarle per tutto il bosco, su tutte le colline e non ne avrebbe mai visto neanche una,.se loro non volevano farsi vedere. Apparire era sempre e comunque una decisione esclusivamente loro. Per questo le Fate non potevano essere combattute o catturate dagli Uomini. Se avessero voluto, avrebbero potuto rendersi per sempre invisibili a tutti quanti, senza alcuna possibilità di venire scovate.

Se non si voleva avere a che fare con loro, era inutile cercare di scacciarle o respingerle, l’unica cosa era cercare di evitarle o di ignorarle.
Dopo quasi un’ora giunse alla fine all’ampia sommità arrotondata del colle. Un grande cerchio di monoliti delimitava la cima, per una larghezza di almeno duecento metri. Alti almeno tre metri, sembravano un cerchio di Giganti pietrificati. Su di essi si vedevano giochi di spirali e di arabeschi

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