domenica 5 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 109° pagina.


Fu troppo per Larsin, che si lanciò nel buio lungo il sentiero, verso la strada lastricata.

Se prima sentiva il dolore, l’angoscia della perdita, ora gli sembrava di essere precipitato in un abisso di follia, come un pozzo nero dalle pareti scivolose, che lo condannava ad una prigionia senza scampo.

Corse ignorando le urla dei Ferstran, e mentre correva a perdifiato nella notte, si sentì come si era sentito una volta da bambino, all’età di undici anni, e aveva provato la stessa angoscia che provava ora, lo stesso desolante senso di perdita, quando un giorno aveva perso di vista la sorellina di due anni affidatagli dalla madre. La piccola si era allontanata nel bosco e per circa mezz’ora non era riuscito a trovarla. Per mezz’ora aveva vissuto il terrore di averla persa, fino a quando l’aveva trovata che vagava fra gli alberi, tranquilla e incolume, ignara del pericolo che aveva corso, in una regione ben diversa da quella di Arethyan, spesso infestata dai lupi e dagli orsi.

Il sollievo che aveva provato nel vederla sana e salva, non era stato sufficiente a fargli dimenticare l’angoscia e il senso di vuoto che aveva provato quella volta, perché aveva sempre saputo che la vita gli avrebbe dato altre occasioni per provare quel sentimento, e ora infatti lo sentiva ancora più forte, perché una voce dentro di lui gli diceva che Thymrel era persa per sempre. Forse non morta, ma perduta irrimediabilmente.

Si fermò solo quando raggiunse il fiume, in un punto non distante da dove aveva ritrovato la ragazza alcuni mesi prima.

Nella notte senza luna, alla luce della lampada perenne, guardò la superficie delle acque che si era alzata negli ultimi giorni a causa delle piogge che annunciavano l’autunno.

Urlò il nome di Thymrel. Senza sperare, ormai, di avere una risposta.

Poi vide, per un istante, il bagliore rosso di due occhi fosforescenti nell’acqua, due grandi occhi che lo fissarono per un momento, e che poi scomparvero sotto le acque. Senz’altro, doveva essere stato un Saguseo. Forse lo stesso che aveva incontrato, lui e i suoi amici, nel tratto di fiume presso il Monte Leccio.

Urlò all’acqua.

«Tu! Rispondimi! Cosa fai qui? Sei stato tu a portarmela via?».

Ma gli rispose solo il silenzio, e la visione di un’altra cosa sul terreno, vicino all’acqua.

Un giglio rosso.

A quel punto si lasciò andare sull’erba e si mise a piangere. E mentre piangeva parlava all’acqua e alle stelle, ripetendo una domanda:

«Che cosa sta succedendo? Cosa sta succedendo a tutti quanti noi?».

Nel frattempo, la matriarca Aranthi cercava di consolare Syndrieli. Lei era sicura di ciò che era successo, e cercava di far sì che la figlia se ne facesse una ragione.

«È andata, così come era venuta. Lo spirito a cui apparteneva se l’è ripresa, ma non prima che ci lasciasse la sua eredità. Ci ha lasciato il suo bambino. Loraisan è la sua eredità. L’eredità dell’ignoto».





CAPITOLO XII: LA STRADA VERSO IL FATO



La mattina dopo, Larsin si recò di buon’ora da Velthur. Era l’unica persona con cui voleva parlare in quel momento di quello che era successo, mentre invece era Syndrieli che era andata a chiedere alle fattorie vicine se per caso avessero visto Thymrel.

Velthur si trovò alla porta di casa uno straccio d’uomo, e appena lo vide non osò neanche chiedergli cosa era successo. Si aspettava di sentirsi dire che il bambino era morto.

Ma lo schianto che subì nel sapere cosa era successo quella notte non fu inferiore a quello che avrebbe subìto se i suoi timori si fossero rivelati esatti.

Quella era davvero la goccia che faceva traboccare il vaso.

Con una voce roca, disfatta dall’aria della notte, Larsin raccontandogli della scomparsa di Thymrel, gli fece capire che non era del tutto lucido.

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