Sethir era quello che nella tradizione contadina si chiamava
“grande zio”, cioè il fratello più vecchio della matriarca della famiglia, il
corrispettivo del patriarca in una famiglia fondata solo sulla linea femminile.
Non aveva mai lasciato la sua famiglia materna, aveva praticato
il “matrimonio notturno” con due donne di un’altra famiglia e non aveva seguito
l’educazione dei suoi pur numerosi figli, mentre aveva dedicato tutto il suo
impegno all’educazione dei figli delle sorelle e delle nipoti.
Un contadino thyrseniakh vecchio stampo, che viveva secondo
le tradizioni più antiche del Veltyan.
D’altra parte, in quel luogo il tempo sembrava essersi
fermato a diversi secoli prima.
La matriarca, una donna curva sotto il peso di una vecchiaia
precoce, causata dalla troppa fatica, lo accolse benevolmente chiedendogli
subito consigli per la sua schiena.
Velthur le promise di inviarle un rimedio alchemico contro
il dolore non appena fosse tornato ad Arethyan. Velthur pensò che sarebbe stata
una buona cosa farsi delle amicizie in quel luogo quasi dimenticato dagli Dei,
per avere un aggancio con chi poteva dargli tante informazioni utili.
Non si sapeva cosa avrebbe portato il futuro, e considerava
la possibilità di dover tornare là altre volte. Anzi, ne era quasi sicuro.
In attesa della cena, Sethir gli presentò la sua numerosa
famiglia, i fratelli e le sorelle, i nipoti e i pronipoti, uno stuolo chiassoso
e confusionario, in cui si vedevano alcune tare tipiche delle unioni fra
consanguinei, forse addirittura di incesti. Eppure, anche se non pochi membri
sembravano vittime di minorazioni mentali, un’aria di prosperità e di serena
allegria sembrava dominare in casa.
Una casa dove si vedevano oggetti quanto mai strani. Oggetti
che parevano avere un’origine fatata.
Su di una mensola della grande cucina, infatti, Velthur notò
un calice di legno meravigliosamente inciso il cui interno era di un colore
blu-purpureo
Si accorse che era uguale identico a quello che Larsin aveva
trovato su Monte Leccio. A lui non era ancora arrivata una Fata che si fosse
presentata di fronte a casa sua, richiedendone la restituzione, come era
successo a Maxtran Akapri.
«Quello è un calice delle Fate. Ve l’hanno regalato loro?».
«No, ce l’ha dato un Sileno. Un parente di Prukhu, guarda
caso. In cambio di un cesto di mele. Ci bevo il vino di frutti di bosco fatto
dalle stesse Fate. Volete assaggiare?».
Indicò un otre di terracotta con un piccolo rubinetto di
bronzo, in un angolo della cucina.
«Perché no? Grazie. Non ho mai avuto occasione di
assaggiarlo».
Sethir gli riempì il calice di legno fino all’orlo. Troppo,
per Velthur. Non sapeva cosa ci avessero messo, ma sarebbe stato troppo
scortese rifiutare.
Era proprio di un colore blu-porpora, e il suo aroma, oltre
che di mirtilli e di more, profumava di resina di pino e di qualcosa di
indefinibile, sicuramente un’erba, ma non avrebbe saputo dire quale.
Lo sorseggiò e lo trovò gradevole, per fortuna meno forte di
quanto si aspettava.
L’effetto fu quasi immediato. Non era il semplice
stordimento dell’alcool, ma qualcosa di molto più intenso. Gli sembrava di
galleggiare a mezz’aria e di non sentire più il suo corpo.
Temette di essere stato drogato.
Si guardò attorno, e gli sembrò di vedere il mondo con occhi
nuovi, come se lo vedesse per la prima volta. Nulla di ciò che vedeva gli
appariva familiare. Era come se la casa attorno a lui fosse stata rovesciata
come un guanto.
Sethir rise, ma la sua risata gli arrivò come lontana e
vibrante, incupita e alterata.
«All’inizio fa uno strano effetto, ma poi ci si fa
l’abitudine. Il mondo ti sembra migliore, dopo. Vedrete, vi piacerà sempre
più».
Lo sguardo di Velthur si posò su una delle finestre della
cucina, verso la luce calante del sole. Il rosso del tramonto sembrò diventare
molto più acceso, di uno scarlatto come mai l’aveva visto. La luce rossa
sembrava invadere la stanza, posarsi sui volti di Sethir e dei suoi parenti,
trasfigurandoli. Barcollando, si avvicinò alla finestra, domandandosi se quello
che vedeva era frutto del vino, o se davvero il tramonto stava incendiando il mondo
come un diluvio di sangue infuocato.
Guardò fuori dalla finestra dai vetri sporchi e quello che vide non
aveva alcun senso. Non c’erano più le Colline di Leukun, né la strada, né i
boschi. C’era solo una pianura senza fine, che si stendeva
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