giovedì 16 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 120° pagina.


Sethir era quello che nella tradizione contadina si chiamava “grande zio”, cioè il fratello più vecchio della matriarca della famiglia, il corrispettivo del patriarca in una famiglia fondata solo sulla linea femminile.

Non aveva mai lasciato la sua famiglia materna, aveva praticato il “matrimonio notturno” con due donne di un’altra famiglia e non aveva seguito l’educazione dei suoi pur numerosi figli, mentre aveva dedicato tutto il suo impegno all’educazione dei figli delle sorelle e delle nipoti.

Un contadino thyrseniakh vecchio stampo, che viveva secondo le tradizioni più antiche del Veltyan.

D’altra parte, in quel luogo il tempo sembrava essersi fermato a diversi secoli prima.

La matriarca, una donna curva sotto il peso di una vecchiaia precoce, causata dalla troppa fatica, lo accolse benevolmente chiedendogli subito consigli per la sua schiena.

Velthur le promise di inviarle un rimedio alchemico contro il dolore non appena fosse tornato ad Arethyan. Velthur pensò che sarebbe stata una buona cosa farsi delle amicizie in quel luogo quasi dimenticato dagli Dei, per avere un aggancio con chi poteva dargli tante informazioni utili.

Non si sapeva cosa avrebbe portato il futuro, e considerava la possibilità di dover tornare là altre volte. Anzi, ne era quasi sicuro.

In attesa della cena, Sethir gli presentò la sua numerosa famiglia, i fratelli e le sorelle, i nipoti e i pronipoti, uno stuolo chiassoso e confusionario, in cui si vedevano alcune tare tipiche delle unioni fra consanguinei, forse addirittura di incesti. Eppure, anche se non pochi membri sembravano vittime di minorazioni mentali, un’aria di prosperità e di serena allegria sembrava dominare in casa.

Una casa dove si vedevano oggetti quanto mai strani. Oggetti che parevano avere un’origine fatata.

Su di una mensola della grande cucina, infatti, Velthur notò un calice di legno meravigliosamente inciso il cui interno era di un colore blu-purpureo

Si accorse che era uguale identico a quello che Larsin aveva trovato su Monte Leccio. A lui non era ancora arrivata una Fata che si fosse presentata di fronte a casa sua, richiedendone la restituzione, come era successo a Maxtran Akapri.

«Quello è un calice delle Fate. Ve l’hanno regalato loro?».

«No, ce l’ha dato un Sileno. Un parente di Prukhu, guarda caso. In cambio di un cesto di mele. Ci bevo il vino di frutti di bosco fatto dalle stesse Fate. Volete assaggiare?».

Indicò un otre di terracotta con un piccolo rubinetto di bronzo, in un angolo della cucina.

«Perché no? Grazie. Non ho mai avuto occasione di assaggiarlo».

Sethir gli riempì il calice di legno fino all’orlo. Troppo, per Velthur. Non sapeva cosa ci avessero messo, ma sarebbe stato troppo scortese rifiutare.

Era proprio di un colore blu-porpora, e il suo aroma, oltre che di mirtilli e di more, profumava di resina di pino e di qualcosa di indefinibile, sicuramente un’erba, ma non avrebbe saputo dire quale.

Lo sorseggiò e lo trovò gradevole, per fortuna meno forte di quanto si aspettava.

L’effetto fu quasi immediato. Non era il semplice stordimento dell’alcool, ma qualcosa di molto più intenso. Gli sembrava di galleggiare a mezz’aria e di non sentire più il suo corpo.

Temette di essere stato drogato.

Si guardò attorno, e gli sembrò di vedere il mondo con occhi nuovi, come se lo vedesse per la prima volta. Nulla di ciò che vedeva gli appariva familiare. Era come se la casa attorno a lui fosse stata rovesciata come un guanto.

Sethir rise, ma la sua risata gli arrivò come lontana e vibrante, incupita e alterata.

«All’inizio fa uno strano effetto, ma poi ci si fa l’abitudine. Il mondo ti sembra migliore, dopo. Vedrete, vi piacerà sempre più».

Lo sguardo di Velthur si posò su una delle finestre della cucina, verso la luce calante del sole. Il rosso del tramonto sembrò diventare molto più acceso, di uno scarlatto come mai l’aveva visto. La luce rossa sembrava invadere la stanza, posarsi sui volti di Sethir e dei suoi parenti, trasfigurandoli. Barcollando, si avvicinò alla finestra, domandandosi se quello che vedeva era frutto del vino, o se davvero il tramonto stava incendiando il mondo come un diluvio di sangue infuocato.
Guardò fuori dalla finestra dai vetri sporchi e quello che vide non aveva alcun senso. Non c’erano più le Colline di Leukun, né la strada, né i boschi. C’era solo una pianura senza fine, che si stendeva

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