giovedì 9 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 113° pagina.


Pensava che nella migliore delle ipotesi le persone così avessero la lingua troppo lunga, e nella peggiore fossero semplicemente false.

Anche il fatto di aver subito accennato alla sua volontà di visitare al più presto la nuova attrazione locale, gli dava l’idea di una persona frivola, di una viaggiatrice in cerca di curiosità, e non di una professionista.

Sperava che i suoi pazienti non arrivassero a odiarlo perché li aveva messi in mano a un tipo del genere, anche se per pochi giorni, e sperava anche di non dover rimproverare l’amico Keilin per avergli mandato Amani.

Ma cosa fatta capo ha, e adesso lui pensava solo a fare i bagagli ed andarsene.

Mostrò alla giovane la camera degli ospiti, le elencò le regole della casa e le parlò dei suoi pazienti, mostrandole i suoi registri e il suo laboratorio con tutti gli strumenti che possedeva. Le mostrò anche la sua vasta biblioteca, dicendole che lì avrebbe trovato non solo libri di medicina e di farmacia alchemica, ma anche di varia cultura e narrativa, se voleva svagarsi a leggere qualcosa di interessante o di piacevole.

«La vostra è davvero una biblioteca notevole, dottor Laran. Vedo che anche lei si interessa di esoterismo mistico e filosofico e di mitologia misterica. Avrò molte cose interessanti da leggere nei momenti di riposo».

«Sono letture che vanno prese con le pinze, dottoressa Irizar.

Da giovane m’interessavo di più a queste cose, poi con l’età sono diventato più scettico e posato. Un conto è essere aperti all’esistenza dell’ignoto, un conto è credere a tutto quello che si sente raccontare. La cultura misterica è una lettura piacevole, ma l’importante è non staccarsi mai dalla realtà».

Lei non disse niente. Sembrò quasi imbarazzata, e il dialogo al riguardo finì lì.

La mattina dopo, di buonora, Velthur si alzò per partire subito dopo colazione. A piedi.

La zona che voleva raggiungere distava circa trenta chilometri in linea d’aria, e contava di raggiungerla entro sera. I motivi per cui voleva arrivarci a piedi erano diversi. Innanzitutto, gli piaceva molto camminare e godersi la contemplazione del mondo circostante, soprattutto quando visitava posti in cui non era mai stato. In direzione delle montagne non si era mai mosso in vita sua più in là del vicino paese di Aminthaisan.

Un’altra, era che odiava andare a cavallo, proprio come ad Amani Irizar. Un’altra ancora era che non aveva fretta di arrivare. Voleva fare le cose con molta, molta calma.

Fece le ultime raccomandazioni alla signora Mendibur e alla dottoressa Irizar, e si incamminò per la strada lastricata per Aminthaisan e le montagne, con una bisaccia in spalla.

Il tempo era abbastanza nuvoloso, ma non dava l’impressione di voler piovere. Le nuvole nel cielo erano lisce, allungate e di un grigio chiaro, nuvole stirate dal vento ma non foriere di pioggia.

La luce malinconica di quel mattino sembrava quasi annunciare la malinconia del suo viaggio. Un viaggio che non aveva una destinazione gioiosa, e che non annunciava nulla di buono.

Quando passò di fronte alla stradina che portava alla fattoria dei Ferstran, fu quasi tentato di andare a far loro visita e vedere come stavano Larsin e Syndrieli, ma si trattenne. Era meglio tirare dritto e basta.

E quando passò di fronte a Monte Leccio, dovette combattere contro la tentazione di salire lungo il sentiero per dare un’occhiata all’eremo del Reverendo Padre Aralar Alpan, per cercare indizi su quello strano eremita e sui segreti che sicuramente custodiva.

Quando arrivò ad Aminthaisan, si concesse una seconda colazione in una locanda. Aveva camminato per due ore, e probabilmente quando sarebbe stata ora di pranzo non sarebbe stato in vista di un posto dove mangiare. Certo, si era portato dietro alcune cose da mangiare, ma non sapeva bene a cosa sarebbe andato incontro, dopo aver superato Aminthaisan.

Quella era una zona poco popolata, probabilmente non c’erano locande in cui fermarsi, e forse nemmeno fattorie in cui chiedere qualcosa da mangiare.

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