mercoledì 22 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 126° pagina.


serpentini ossessivamente ripetuti. Il simbolo della spirale era quello più legato al mondo delle Fate, così come anche quello del trifoglio, del triangolo, del serpente e delle api, simboli di vita potente ed inesauribile. Era una delle poche cose che si sapevano con certezza delle Fate, come anche quanto era importante il culto del Caprone Nero, il Dio invocato nel belk, simbolo della forza prorompente e vitale della Natura, la cui figura appariva anch’essa incisa sulla sommità di quasi tutti i monoliti.

Tutte cose che generavano diffidenza ed avversione nel potente clero del Veltyan.

Al centro del grande cerchio c’era una piccola radura che appariva trasfigurata dai raggi di sole del mattino che penetravano tra gli alberi. Un luogo bellissimo e apparentemente del tutto vuoto.

Nessuna traccia di Fate.

Velthur sospirò. Forse proprio non volevano incontrarlo. L’unica cosa che poteva fare era sedersi là in cima al colle e aspettare.

C’era una roccia più piccola, vicino a uno dei monoliti, anch’essa incisa, ma non alta e dritta, bensì più larga e alta poco più di mezzo metro, coperta di muschio verde scuro ma dai riflessi brillanti, che sembrava adatta come sedile. Forse era davvero un sedile.

Guardandolo, a Velthur parve una figura umana accovacciata.

Si sedette contento di avere trovato un sostegno così confortevole.

Ma si accorse subito che c’era qualcosa che non andava.

L’impressione divenne certezza quando sentì una voce cavernosa che veniva da sotto di lui, una voce irosa.

«Togli immediatamente il tuo deretano dalla mia schiena!».

Si rialzò di scatto, spaventatissimo, come se si fosse accorto di essersi seduto sui carboni ardenti.

La roccia si mosse e uno sguardo dai grandi occhi completamente neri, con due malefiche e grandi pupille dorate e brillanti, lo fissò in modo maligno.

La roccia era veramente un essere accovacciato, e il manto di muschio che la ricopriva era in realtà un vellutato mantello verde scuro, che con il suo cappuccio nascondeva la testa dell’essere, che si rialzò lentamente, sostenendosi su di un bastone di legno inciso.

«Non guardarmi con quella faccia, Uomo! Io sono uno dei guardiani della nostra città. So che sai che cosa io sono!».

L’essere stava ora dritto di fronte a lui, e si abbassava il cappuccio per far vedere il suo volto.

Aveva l’aspetto di un uomo molto basso di statura, dal pallore spettrale, con una lunga barba bianchissima e ondulata, in testa aveva una capigliatura corta e ricciuta, altrettanto bianchissima, dai riflessi quasi indaco, due sopracciglia appuntite e folte sopra i due grandi occhi a mandorla, e due orecchie dai lobi incredibilmente allungati.

I suoi lineamenti, quanto mai strani, con un che di caprino come quelli dei Sileni, ma molto più delicati e regolari, non mostravano i segni dell’età. Associati con quella barba bianca e quegli occhi simili a due abissi neri in cui brillavano due grandi stelle dorate, avevano qualcosa di estremamente inquietante, come vedere un bambino a cui fosse cresciuta la barba di un vecchio e con gli occhi di un demone.

Velthur sapeva di trovarsi di fronte a un maschio di Fata, uno dei cosiddetti Gnomi, il cui nome significava “i Sapienti”. Di loro si sapeva ancora di meno che delle Fate, perché avevano ancora meno contatti con gli Uomini delle loro compagne.

Una delle poche cose che si sapeva, era che il loro compito era quello di sorvegliare e proteggere le dimore del popolo fatato, e di custodirne il sapere e le tradizioni. Se li si contrariava, si andava di sicuro incontro a guai seri, più che si andasse contro una Fata.

«Contavo di farti aspettare un po’ prima di rivelarci a te, ma non mi andava di lasciarti usare la mia schiena come sedia. Voi Uomini siete così grossi e pesanti… perciò adesso decido di rimuovere il Velo delle Fate dai tuoi occhi».

Lo Gnomo alzò la mano sinistra con l’indice e il medio protesi, e Velthur sentì come una leggera pressione sulla fronte, e un vago giramento di testa, a tal punto che per un momento pensò ai postumi di quel maledetto calice di vino fatato della sera prima.

Nessun commento:

Posta un commento