sabato 18 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 122° pagina.


Poi, mentre guardava incantato quella visione incredibile, sentì le grida. Non erano grida umane, parevano grida di uccelli ma con qualcosa di vagamente umano, e ripetevano un suono acuto, che suonava come “tekeli-li”. Poi li vide, che volavano a stormi nel cielo rosso e purpureo sopra di lui, verso la montagna dalle sette balze.

Erano enormi uccelli che sembravano essere gabbiani, bianchissimi, ma con il becco e le zampe di un rosso sangue.

Poi guardò di nuovo verso il basso, verso la pianura, e vide una figura umana che gli si avvicinava. Un uomo molto alto e possente, con una folta capigliatura e una grande barba nere, che avanzava vestito di poveri abiti invernali e grigi e con un bastone in mano. Sembrava un Gigante, ma non era altrettanto alto.

A quel punto Velthur cominciò a sentire di nuovo l’angoscia e il terrore pervaderlo più che mai. Mentre quell’uomo avanzava, sentì un orrendo presentimento, come se la vera minaccia fosse rappresentata proprio da lui.

Lo sconosciuto si fermò proprio di fronte a lui, fissandolo con i suoi grandi occhi scurissimi, neri come la sua barba e i suoi capelli, che contrastavano sinistramente con il suo colorito pallidissimo, di un biancore quasi lunare, cadaverico. Il bianco pallore del terror panico.

E l’uomo parlò fra le grida degli uccelli, e disse una frase senza senso.

«Loro non possono raggiungerci, a meno che non siamo noi a volerlo. Dobbiamo sorvegliare che nessuno li lasci entrare. Sempre. È questa la legge che ci governa».

Non appena ebbe finito di parlare, dietro di lui, proprio alle sue spalle, emerse dal basso un’altra figura, nera, gigantesca, indistinta, una sorta di fantasma nero con due grandi occhi rossi e tondi, luminosi come braci ardenti, dalle cui spalle si aprirono due enormi ali nere.

A quel punto Velthur lanciò un urlo, e crollò a terra di fronte all’entrata.







CAP. XIII: LE TRE MADRI DEL FATO



Velthur era furioso. Non tanto contro Sethir, ma contro se stesso. La curiosità aveva avuto la meglio sul suo buon senso, e aveva bevuto quella roba senza avere la minima idea di cosa stava assumendo.

Quella gente ignorante che viveva in quella zona depressa del paese finiva con l’avvelenarsi con porcherie fatte con erbe intossicanti e frutto di fermentazioni nocive, e i visitatori dovevano stare attenti a non assumere le loro pessime abitudini.

Il peggio era che spesso tutto questo aveva delle giustificazioni religiose. Colpa delle streghe, le sciamane di campagna che assumevano sostanze allucinogene per avere contatti e rivelazioni dal mondo degli spiriti della natura e da quello degli spiriti dei defunti. Così la gente si intossicava poco per volta, sviluppava malattie e spesso finiva per impazzire.

Quando si era svegliato, era notte fonda e si era ritrovato in un letto, con una delle donne più giovani della famiglia che lo stava vegliando, e che dopo avergli chiesto come si sentiva, si scusò con lui per suo zio.

«Mio zio Sethir offre sempre un calice di vino fatato agli ospiti. In genere li rende allegri, non si aspettava che vi facesse tanto male. Nessuno è mai caduto a terra svenuto con una sola coppa, come è successo a voi. In genere, ce ne vogliono almeno due, e lui non permette mai che nessun ospite arrivi a tanto E poi quell’urlo spaventoso che avete lanciato prima di cadere…. ci siamo veramente spaventati tutti. Siete sicuro di sentirvi bene, adesso?».

«A parte un notevole mal di testa, mi sento bene. Ho anche fame. Magari se mangio qualcosa, il mal di testa mi passa».

«Venite, allora. Vi preparo qualcosa da mangiare. Gli altri sono andati quasi tutti a letto, ormai».

La ragazza, che si chiamava Harali, gli preparò una zuppa di legumi, cereali e pollo e delle fette di pane nero che effettivamente gli fecero passare il mal di testa.

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