venerdì 17 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 121° pagina.


fino all’orizzonte, dove un gigantesco sole rosso brillava sopra una distante catena di montagne, come un grande arco di ombre viola, che delimitava quel prato infinito che era ricoperto solo di fiori rossi, miliardi e miliardi di fiori rossi. Non era la Valle dei Gigli, ma una terra sconosciuta.

In quel momento, mentre Velthur comprendeva di vivere un’incredibile allucinazione, si ricordò dove aveva sentito quell’aroma e quel sapore amarognolo che avvertiva nel vino fatato.

Assenzio, si disse. Quelle maledette mettono assenzio fermentato nel loro vino, e per questo provoca allucinazioni. E ci dev’essere anche qualcos’altro, un elemento segreto…. se è questo che la gente beve alle loro feste, non c’è da stupirsi che impazzisca. Maledette.

Poi la visione cambiò rapidamente. Il sole calò improvvisamente, nel giro di pochi secondi, e sullo sfondo del cielo che diveniva sempre più rosso e cupo, comparve una sorta di figura nera, una macchia che assunse la forma come di una porta, un arco di pietra che divenne prima grigia, poi bianca, di un biancore lunare, spettrale. Una porta aperta sul buio. Era come si sulla pianura di luce rossa si fosse aperta una porta sulla notte, o forse una galleria nera.

Sembrava una bocca pronta ad ingoiare chiunque vi fosse passato accanto.

A quel punto, vedendo quella porta spalancata sul vuoto nero, Velthur cominciò a sentire angoscia, un’angoscia immensa ed irrazionale. Sapeva che dalla porta nera stava per uscire qualcosa che non aveva nome, qualcosa di spaventoso. E infatti gli parve di vedere emergere qualcosa dal buio, una figura grigia vagamente umana, che gli dava l’idea di essere altissima, e che aveva due particolari mostruosi: sulla testa aveva un unico occhio bianco e rosso, enorme, che gli occupava quasi tutto il volto senza tratti, e al posto della capigliatura aveva un cespuglio di serpenti che si agitavano come un cumulo di lunghi vermi neri su di un corpo in decomposizione.

Stava quasi per urlare, quando la visione cessò. Per qualche istante gli si annebbiò la vista, poi tutto sembrò tornare quasi normale. Fuori dalla finestra vide di nuovo le colline, gli alberi, le case e i campi nella stretta valle con la strada lastricata che serpeggiava verso nord, ma la luce del sole manteneva un colore anormalmente rosso.

Si voltò indietro e guardò il vecchio che sogghignava con quell’aria furba. Avrebbe voluto prenderlo a pugni.

«Mi avete drogato! Questa roba contiene assenzio!».

«Solo un poco, solo un poco, dottore. La ricetta è segreta, non so quante altre erbe ci sono dentro. Diventa rischioso se se ne beve più di un calice, lo dicono sempre le Fate agli Uomini che invitano alle loro feste. Vedrete, poco a poco l’effetto passerà e non vi sentirete male. Avete visto qualcosa di strano, per caso? A volte succede. Non a tutti, ma a molti sì. Si hanno visioni preveggenti, visioni bellissime, a volte».

Alterato dal vino, Velthur cominciò a urlare.

«Mi hai drogato, maledetto vecchio! Ho visto qualcosa di orribile, di spaventoso! Non voglio più bere questa roba!».

«Vi passerà, dottore. Sedetevi e rimanete calmo, guardatevi attorno…. vi piacerà, vedrete».

«Non mi piace affatto, invece! Mi hai teso una trappola! Lasciatemi andare, non voglio le vostre droghe!».

Si avviò barcollando verso la saletta d’entrata, con la sua bisaccia in spalla, deciso ad uscire da quella casa e nascondersi da qualche parte in attesa che l’effetto del vino drogato finisse.

Ma appena aprì la porta, fu di nuovo assalito dalle allucinazioni.

Come quando aveva guardato fuori dalla finestra, anche dalla porta gli appariva un paesaggio estraneo ed irreale.

Di nuovo c’era la luce rossa che pervadeva il cielo, ma più cupa. Di nuovo c’era una vasta pianura, ma non c’era più la distesa di fiori rossi. Ora c’era solo una brughiera sconfinata, che di nuovo finiva di fronte a una catena di montagne innevate, ma più basse e più vicine, a parte una, svettante, altissima e simile a una torre. Anzi, sembrava essere proprio una torre, perché appariva scolpita a forma di torre a cono tronco, costituito da sette diversi gradini. L’immagine era particolarmente irreale anche perché in cima alla montagna scolpita, oltre le nevi che coprivano il penultimo gradino, si intravedeva come una foresta verde che cresceva sulla cima piatta.

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