martedì 19 luglio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 147° pagina.


A quel punto Velthur pensò che l’unica cosa che poteva fare è tornarsene a casa, se Larsin non si era calmato. Tornò quindi verso il cortile della fattoria, e scoprì con troppo poco sollievo che era tornata la calma.

Trovò Syndrieli che gli disse che dopo il litigio, Larsin se ne era andato per i fatti suoi, e che lei sperava che non tornasse per cena, e che magari non tornasse più.

Lo ringraziò di essersi parato a difesa di Erkan, e Velthur le confidò che era preoccupato per il bambino tanto quanto che per suo padre, e le spiegò il motivo.

«Forse quelli di Erkan non sono incubi e basta».

«È arrivato a dirmi che mentre lui sentiva rumore di zoccoli per tutta la casa, voi non eravate capaci di svegliarvi. Non una, ma molte volte. Ti sembra possibile?».

«Non lo so. Perché prima che sparisse Thymrel avevo un incubo ricorrente anche io. Sognavo che qualcuno bussava insistentemente alla porta, facendo un gran baccano. Io mi svegliavo ogni volta, e ascoltavo per sentire qualche strano rumore, ma invece sentivo sempre il silenzio più assoluto. Una volta mi sono alzata addirittura per vedere se avevo sognato o meno. Da quanto Thymrel è scomparsa, quel sogno non lo faccio più».

Sono uno stupido che fa un errore dietro l’altro, si disse Velthur.

Syndrieli non era stata la persona giusta per raccontare quella storia, come non lo sarebbe stata neanche la matriarca Aranthi, insufflata di superstizioni più di tutti gli altri.

Una donna piena di superstizioni religiose poteva considerare i problemi di Erkan solo nel modo sbagliato: cioè come qualcosa di reale.

L’unica cosa che restava da fare forse era cercare di parlare con Larsin, per occuparsi dei suoi, di problemi. Forse, se Larsin fosse uscito dal suo malessere, anche Erkan sarebbe uscito dal suo.

Le promise che avrebbe cercato di parlare con lui per spingerlo a smettere di bere e a farsi forza nella speranza di poter scoprire cosa era successo a Thymrel.

Per la prima volta Syndrieli guardò con favore il dottore, e forse in lei cominciò ad insinuarsi il sospetto che anche una persona che non credeva negli Dei della tradizione poteva essere buona.

Poco dopo, se ne andò verso casa, e mentre costeggiava il boschetto di noci fra la fattoria dei Ferstran e il paese, colse fra gli alberi un’ombra, che non appena guardò, si trasformò nella sagoma di Azyel. Mentre il vestito verde-marrone quasi lo mimetizzava fra i tronchi e il muschio sulle cortecce, la lunga barba bianca, dagli strani riflessi azzurro-ghiaccio, e gli occhi neri dal bagliore giallo-arancio, ne facevano risaltare il volto come qualcosa di innaturale in mezzo ad oggetti naturalissimi.

Se ne stava lì appoggiato al tronco di un noce, con un fare strafottente.

«Dì la verità, Azyel. Mi stavi spiando alla fattoria dei Ferstran?».

«Il bambino non mente, dottore».

«Hai letto i miei pensieri, o ci hai spiato dall’alto della tua invisibilità?».

«Che differenza fa? Comunque sì, vi ho ascoltati, come ho ascoltato la tua discussione con Larsin Arayan. E ti posso dire che Erkan dice la verità. O almeno quella che lui crede essere la verità».

«Allora è un visionario. Se è in buona fede, allora soffre di allucinazioni, o confonde i sogni con la realtà».

«Lo è per te, Velthur. Non lo è per noi. Quello che ha visto ha un significato, riguarda qualcosa di reale, di vero. Il bambino è vicino a noi, vicino al nostro regno. Noi non possiamo ignorare quello che ha visto. È il segno di qualcosa di importante».

«Su questa strada io non vi seguirò mai. Erkan è un bambino infelice perché ha visto suo padre cambiare a causa di una disgrazia. Io, che sono un medico, la devo vedere in questo modo Tutto qui».

«Oh, lo so. Conosco la tua religione filosofica, dottore, anche se non la capisco. L’Aventry, che non crede negli Dei, nelle visioni, nei miracoli, ma solo in un mondo governato da una Legge Universale “secondo ragione”, e che ci imporrebbe di essere altrettanto razionali.

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