sabato 9 luglio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 138° pagina.


Rigirandolo nella mano, Velthur notò che i raggi interni e il loro punto d’incontro si spostavano e formavano una stranissima illusione ottica, per cui i raggi e la stellina parevano quasi uscire dalla figura e formare una figura geometrica più complessa, incomprensibile. Guardare il ciondolo aveva un effetto quasi ipnotico, disorientante. Semplicemente, Velthur non riusciva a capire cosa avesse in mano.

«Strano, vero? Più lo guardi, e più ti domandi come è fatto. Io la prima volta che l’ho avuto in mano, sarò stato un’ora buona a guardarlo e rigirarlo per cercare di capirlo. Non ci sono riuscito e adesso non lo guardo più, perché a lungo andare ti fa sentire proprio strano…»

«Un amuleto alchemico?».

«In un certo senso. Impedirà a qualsiasi Fata di leggere nella tua mente. Basta che tu lo porti al collo, o anche se non lo porti, basta che pensi ad esso, che fissi la sua immagine nel tuo pensiero, e nessuna Fata potrà capire niente di ciò che pensi. Certo, ammetto che è difficile anche solo pensare a quella immagine…. ma un uomo intelligente come te penso che possa farlo».

«Come è possibile? E poi, a che scopo?».

«Ma come: “a che scopo”? Velthur, svegliati! Se ti avvicini ad Aralar Alpan, dovrai trovarti a che fare con le Fate di cui è alleato, e che possono leggere nel pensiero le tue vere intenzioni, o prevedere quello che farai. Ma questo oggetto le confonde, le distrae e le spaventa. Non sappiamo perché, ma è così. I Nani fabbricano queste cose proprio per proteggersi dall’eccessiva curiosità delle Fate. Pare che questo oggetto rappresenti qualcosa che appartiene all’Altrove, o qualcosa che dà l’accesso all’Altrove, e questo istintivamente spaventa e respinge la mente delle Fate. Forse i Nani sanno anche perché, ma non ce l’hanno rivelato».

«Infatti, rende nervoso anche me….» disse Azyel, che distoglieva lo sguardo dal ciondolo, come se fosse un cadavere, o un cumulo di vomito e di escrementi.

«Va bene, lo conserverò gelosamente e lo porterò sempre con me».

E lo ripose nella sua bisaccia da viaggio.

«Loro non possono vedere le creature dell’Altrove, ma tu sì, e anche noi. Loro non possono sostenerne neanche la vista, ma tu sì. E anche noi. Per questo vogliamo sentire da te quello che succederà, perché noi potremmo capire meglio persino della Triplice Regina cosa succederà. Comprendi, ora?».

«Credo di sì, credo…. comunque, farò tesoro anche di quello che mi ha detto la Triplice Regina, cioè che devo cercare nel libro Le Dottrine Misteriche di Cthuchulcha, per capire cosa sta cercando di fare l’eremita Aralar».

«Sì, e quando avrai trovato qualcosa, dovrai dirlo anche a Menkhu, perché potresti trovarci scritte delle cose che susciterebbero un tale terrore nelle Fate, da non poterle udire. E quindi tu non potresti rivelarlo a loro».

«Mi sembra una situazione così assurda…. Più si va avanti con questa storia, più succedono cose prive di senso, e più scopro cose che mi sembrano del tutto folli….»

E mentre parlava, continuava a rigirare lo strano talismano fra le dita. Qualsiasi rivelazione trovava, non faceva altro che infittire il mistero, anziché dissiparlo.

Dopo aver salutato i due Sileni e lo Gnomo, si avviò giù per il sentiero che portava a Tulvanth, mentre alle sue spalle le case fatate tornavano invisibili, e così il grande monolito della Triplice Regina.

Uscendo dal piccolo regno delle Fate di Leukun, gli sembrò come di uscire da un sogno, o da uno stato stuporoso, come se fosse stato ubriaco.

Stare a contatto delle Fate, sembrava essere una cosa simile a bere il loro vino.

Non c’era da stupirsi che tanta gente, soprattutto nelle alte sfere, le guardasse con molta diffidenza.

E forse ora avrebbero guardato con maggiore diffidenza anche lui, ora che si era avvicinato a quel mondo incantato e pericoloso.


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