Velthur si accorse che gli si era accostato lo Gnomo che
l’aveva accompagnato dalla Triplice Regina, che con un gesto lo invitò a
seguirlo verso il sentiero che l’aveva portato nella città delle Fate.
«D’ora in poi sarò io il tuo tramite con le Tre Madri del
Fato. Quando avrai qualcosa da dirci, o da chiederci, verrò io a trovarti.
Basterà che tu voglia vedermi, e io verrò».
«Sinceramente, spero che non debba avvenire troppo spesso, o
per troppo lungo tempo».
Salutò la Triplice Regina
con un largo inchino. Anche se era vero che fra le Fate non c’erano
convenevoli, gli sembrava sgarbato non adottare almeno un gesto di
riverenza per le tre sovrane. Poi seguì
lo Gnomo, fino a quando non vide una figura che gli era familiare, ma che era diversa
da come se la ricordava.
Là dove finivano le capanne di piante viventi delle Fate,
c’era il vecchio Prukhu in compagnia di un altro Sileno, dal pelo rosso carota
anziché grigio come il suo, e parecchio più giovane.
Prukhu però non vestiva più i poveri vestiti da pastore che
gli aveva sempre visto addosso, ma era completamente svestito come il suo
compagno, come erano tutti i Sileni dei boschi.
I due irsuti esseri silvani indossavano solo le
caratteristiche cinture di pelle, con una strana coda di crini di cavallo che
gli pendevano dal retro in mezzo alle grosse natiche.
Tutti i Sileni portavano quello strano ornamento, che aveva
creato la leggenda che avessero realmente una coda come quella dei cavalli, una
leggenda dovuta anche all’aspetto animalesco dei loro tratti.
Ma non era solo il suo abbigliamento adamitico a farlo
sembrare diverso. Sembrava invecchiato, ingobbito, dimagrito, come se fosse
ammalato, e la sua espressione non aveva più l’allegria di un tempo, ma era
piena di una stanca tristezza. Si reggeva sul suo bastone come se avesse dovuto
reggere un carico pesante.
Velthur non poté fare a meno di corrergli incontro, dopo
aver temuto di non poterlo più rivedere, mentre Prukhu gli sorrideva
stancamente.
«Era ora che conoscessi qualcuno della mia famiglia. Ti
presento mio figlio Menkhu, il più giovane dei miei rampolli».
«Ho sentito parlare di lui da un abitante di Tulvanth, per
una strana coincidenza».
«Le coincidenze non esistono, lo sai meglio di me».
Velthur e Menkhu si presentarono con il tradizionale saluto
dei Sileni, usanza che l’irsuto popolo delle selve aveva trasmesso ai
Thyrsenna.
Si posero la mano sinistra l’uno sul petto dell’altro, gesto
che significava appunto “la mia mano sul tuo cuore, amico mio”.
Il guaio era che quando un Sileno salutava un Uomo,
rischiava di buttarlo giù per terra, se lo faceva con troppo entusiasmo.
Menkhu lo fece, se non con entusiasmo, con vivacità, e a
Velthur sembrò di ricevere un pugno sullo sterno, facendogli mancare il respiro
per un attimo.
«Io manco sapevo che avevi dei figli. Perché non me ne hai
mai parlato?».
«Ormai io e la mia famiglia avevamo vite separate. Loro
vivevano nella foresta e io con gli Uomini.
Solo adesso, dopo quello che è successo quella sera alla festa di Tinsi
Kerris, ho ripreso a vivere con loro».
«Già, noi Sileni siamo vagabondi per natura, non gli abbiamo
mai serbato rancore, anche se a volte io e lui abbiamo litigato perché voleva
sempre stare con gli Uomini!».
«Ora però le sto scontando tutte, Menkhu, ti assicuro. E
poi, anche io avrei voluto che voi veniste con me nei villaggi degli Uomini. Se
tu avessi conosciuto persone come il qui presente dottore, avresti capito
perché ci stavo tanto bene, con gli Uomini.
Comunque, parliamo di te, adesso, Velthur. Amico mio, non
pensavo che tenessi così tanto a me a tal punto da venirmi a trovare qui».
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