I Thyrsenna nei templi pregavano in piedi, tenendo le
braccia aperte in avanti, con i palmi verso l’alto, oppure seduti a gambe
incrociate sempre con le braccia tese in avanti. Era del tutto estraneo alla
loro cultura l’inginocchiarsi o accomodarsi su una sedia. Infatti non c’erano
mai seggiole o scranni o inginocchiatoi nei loro templi, come non ce n’erano
neanche in quello, che risaliva a tempi in cui i Thyrsenna non esistevano
ancora.
Sul momento, Velthur non lo notò neanche, perché era assieme
a una mezza dozzina di altri pellegrini del pari seduti dietro l’altare,
impegnati in una litania di invocazione al Toro dei Cieli.
Era un uomo piccolo, minuto e dall’aria banalissima. Uno che
avresti pensato essere un pescivendolo o
il gestore di un banco di bevande sulla piazza, non certo un colto e solitario
Reverendo Padre rinchiuso che viveva fra il suo eremo e i templi vicini. Solo
la sua barba troppo lunga denotava il suo carattere sacrale. E in mezzo alla
massa dei pellegrini, dove si vedeva tutto e il contrario di tutto, era ancora
più difficile da notare.
L’unica cosa per cui si distingueva in qualche modo dalla
massa, era che non stava facendo le stesse cose che facevano gli altri devoti
fedeli, fossero essi sacerdoti o laici.
Tutti i fedeli rivolgevano lo sguardo alla grande statua
d’ambra ed elettro del Dio-Toro, come rapiti dalla magnificenza di quella
grandiosa immagine, e lo invocavano nella lingua dei Thyrsenna.
Aralar invece teneva gli occhi chiusi, e lentamente
pronunciava una litania strana, con parole incomprensibili, in una strana
lingua straniera che sul momento Velthur non riconobbe.
Quella vista fece sentire al dottore una vera e propria
soggezione.
C’era qualcosa di così solenne, di così spirituale
nell’atteggiamento di Aralar, che gli dette l’impressione che quel piccolo,
strambo ometto fosse davvero un uomo di sincera spiritualità.
Velthur non credeva alla devozione alle immagini degli Dei.
Per lui, quella era solo una statua splendida ma vuota.
Nessuna forza divina vi si annidava invisibilmente, né si
esprimeva attraverso essa, e quel luogo era sacro solo per le preghiere dei
fedeli, non perché vi abitasse in modo particolare la divinità, che per
l’Aventry abitava invece ugualmente in ogni luogo, in modo impersonale e muto.
Eppure, in quel luogo magico, di fronte a quell’uomo
misterioso che faceva cose misteriose, gli venne il timore di interromperlo, di
disturbarlo nella sua strana preghiera, come se lui non avesse il diritto di
distoglierlo dal culto a una forza sconosciuta, alla cui inesistenza ora non
riusciva a credere del tutto.
L’ignoto è il non sapere, e il non sapere, l’ignoranza, la
non certezza, ti espone alla fede, perché fede e dubbio vanno di pari passo e
anzi sono le due facce di una sola medaglia.
Solo chi non sa con certezza ha dubbi, e solo chi ha dubbi è
condannato a credere, così come chi crede è condannato al dubbio.
E il dubbio porta a volte indirettamente alla paura e al
reverente timore per forze ignote che governano l’universo.
Velthur non riuscì a superare quel timore, e ristette ai
bordi della breve scalinata che collegava l’altare dell’entrata alla gigantesca
statua, in attesa che Aralar finisse le sue preghiere e i suoi riti di
devozione, e si decidesse ad aprire gli occhi ed accorgersi di lui.
Non dovette aspettare molto.
Dopo pochi minuti l’eremita aprì gli occhi e volse lo
sguardo alla sua destra, dove c’era Velthur in piedi, come se avesse sentito la
sua presenza, e gli fece il solito ampio sorriso con cui salutava sempre tutti.
Avrebbe preferito che l’avesse guardato con fastidio. Quel
sorriso aveva qualcosa di inquietante. Il modo in cui mostrava quella lunga
fila di grossi denti aveva qualcosa che lo faceva rassomigliare al digrignare
di una belva.
Aralar si alzò e gli si avvicinò, dicendo che aveva finito
le sue orazioni e le sue offerte a Silen, e che potevano avviarsi verso
l’eremo.
Mentre passavano per la galleria, si misero a parlare
proprio dell’ipogeo, e di quello che bolliva in pentola al riguardo.
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