CAP. XV: IL LIBRO MALEDETTO
Ormai, tutte le
mattine di usiltin l’eremita veniva là, al Santuario di Silen, e nessuno poteva
insospettirsi della cosa o trovarla strana, perché appariva solo come un
Reverendo Padre devoto al culto di quella divinità ormai poco invocata, e
ritornata improvvisamente in auge per il ritrovamento di quel misterioso
ipogeo.
Anzi, l’eremita Aralar appariva come il meno stravagante dei
visitatori del tempio, su cui avevano cominciato a fiondarsi i seguaci di ogni
setta esoterica, sedicenti studiosi che avanzavano le loro personali e
strampalate teorie sui tempi prima del Diluvio e sulla misteriosa civiltà dei
Giganti che aveva dominato il mondo.
Aralar invece appariva come un religioso che veniva lì solo
per pregare e fare offerte a Silen.
Il dottore e l’eremita si erano messi d’accordo di
incontrarsi là, e dopo si sarebbero recati assieme all’eremo di Monte Leccio.
Quando arrivò all’entrata del tempio, notò come le cose
stessero cambiando rapidamente, nel luogo. Gli Akapri avevano ripulito e
sistemato l’entrata, allargato e spianato il sentiero, e lo stavano anche
lastricando, per prepararlo alla visita della Regina dei Thyrsenna, che ormai
pareva certa e prossima.
Due guardie stavano all’entrata per controllare il flusso
dei pellegrini, che a ogni usiltin diventavano sempre più numerosi, e stavano
diventando troppi per essere comodamente accolti nelle locande dei paesi vicini
e nelle fattorie che offrivano le loro camere in affitto, o semplicemente la
loro ospitalità.
Ormai le notti diventavano fredde, e l’unica era organizzare
dei campeggi con delle tende nei campi attorno, per accogliere quella
variopinta massa umana che veniva da luoghi sempre più lontani.
Sotto i filari di alberi attorno alla Polenta Verde si
vedevano infatti bivacchi approntati alla meno peggio, di povera gente o
giovani mistici sbandati che erano giunti là solo con le loro bisacce, a piedi
o con i loro carri trainati da asini, per dare lavoro e preoccupazione agli
Akapri, che se da un lato gioivano per le offerte al tempio che calavano nelle
loro tasche, dall’altro erano preoccupati e infastiditi per i danni e i piccoli
furti che subivano a causa di tutti quei visitatori ospitati nei loro campi.
Infatti, avevano assunto alcuni sorveglianti che tenessero
d’occhio, per quanto possibile, i loro possedimenti.
Il guaio era che, per i Thyrsenna, i pellegrini erano una
delle categorie più intoccabili del paese. La sola idea di sbarrare o limitare
l’accesso di un luogo sacro a dei pellegrini, soprattutto se poveri, era una
vera offesa agli Dei.
Dire ai pellegrini che dovevano arrangiarsi e starsene alla
larga durante la notte dai campi degli Akapri, o peggio ancora impedirgli di
accedere alle loro proprietà, sarebbe stata un’onta vergognosa che avrebbe
suscitato come minimo una rivolta popolare.
Quindi gli Akapri dovevano fare del loro meglio ed erano
liberi di ricorrere ad ogni mezzo per controllare la situazione, ma a patto di
lasciare ai fedeli di andare e venire quando, dove e come volevano.
Per la famiglia di Maxtran, la vita tranquilla era finita
per sempre.
Nella galleria dell’entrata era stata sistemata una fila di
lampade perenni e il passaggio era stato ripulito dai detriti. Al posto del
silenzio di tomba che aveva sentito la prima volta che era entrato là con le
autorità del paese, ora riecheggiavano gli echi delle litanie di preghiera e
degli strumenti musicali che le accompagnavano.
Cosa che anziché rendere l’atmosfera più familiare e serena,
contribuiva a rendere il tutto ancora più inquietante ed anomalo. Sembrava che
il luogo avesse una stranissima acustica che creava una eco continua e
vibrante, che faceva apparire le voci dei fedeli come versi inumani o lamenti
d’oltretomba. E quel chiarore rosso-arancio in fondo alla galleria dava poi
l’impressione di una specie di fornace, o dell’interno di un vulcano.
Velthur incontrò Aralar che stava pregando proprio dietro
l’altare dell’entrata, seduto per terra.
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