sabato 23 luglio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 151° pagina.


CAP. XV: IL LIBRO MALEDETTO



 Ormai, tutte le mattine di usiltin l’eremita veniva là, al Santuario di Silen, e nessuno poteva insospettirsi della cosa o trovarla strana, perché appariva solo come un Reverendo Padre devoto al culto di quella divinità ormai poco invocata, e ritornata improvvisamente in auge per il ritrovamento di quel misterioso ipogeo.

Anzi, l’eremita Aralar appariva come il meno stravagante dei visitatori del tempio, su cui avevano cominciato a fiondarsi i seguaci di ogni setta esoterica, sedicenti studiosi che avanzavano le loro personali e strampalate teorie sui tempi prima del Diluvio e sulla misteriosa civiltà dei Giganti che aveva dominato il mondo.

Aralar invece appariva come un religioso che veniva lì solo per pregare e fare offerte a Silen.

Il dottore e l’eremita si erano messi d’accordo di incontrarsi là, e dopo si sarebbero recati assieme all’eremo di Monte Leccio.

Quando arrivò all’entrata del tempio, notò come le cose stessero cambiando rapidamente, nel luogo. Gli Akapri avevano ripulito e sistemato l’entrata, allargato e spianato il sentiero, e lo stavano anche lastricando, per prepararlo alla visita della Regina dei Thyrsenna, che ormai pareva certa e prossima.

Due guardie stavano all’entrata per controllare il flusso dei pellegrini, che a ogni usiltin diventavano sempre più numerosi, e stavano diventando troppi per essere comodamente accolti nelle locande dei paesi vicini e nelle fattorie che offrivano le loro camere in affitto, o semplicemente la loro ospitalità.

Ormai le notti diventavano fredde, e l’unica era organizzare dei campeggi con delle tende nei campi attorno, per accogliere quella variopinta massa umana che veniva da luoghi sempre più lontani.

Sotto i filari di alberi attorno alla Polenta Verde si vedevano infatti bivacchi approntati alla meno peggio, di povera gente o giovani mistici sbandati che erano giunti là solo con le loro bisacce, a piedi o con i loro carri trainati da asini, per dare lavoro e preoccupazione agli Akapri, che se da un lato gioivano per le offerte al tempio che calavano nelle loro tasche, dall’altro erano preoccupati e infastiditi per i danni e i piccoli furti che subivano a causa di tutti quei visitatori ospitati nei loro campi.

Infatti, avevano assunto alcuni sorveglianti che tenessero d’occhio, per quanto possibile, i loro possedimenti.

Il guaio era che, per i Thyrsenna, i pellegrini erano una delle categorie più intoccabili del paese. La sola idea di sbarrare o limitare l’accesso di un luogo sacro a dei pellegrini, soprattutto se poveri, era una vera offesa agli Dei.

Dire ai pellegrini che dovevano arrangiarsi e starsene alla larga durante la notte dai campi degli Akapri, o peggio ancora impedirgli di accedere alle loro proprietà, sarebbe stata un’onta vergognosa che avrebbe suscitato come minimo una rivolta popolare.

Quindi gli Akapri dovevano fare del loro meglio ed erano liberi di ricorrere ad ogni mezzo per controllare la situazione, ma a patto di lasciare ai fedeli di andare e venire quando, dove e come volevano.

Per la famiglia di Maxtran, la vita tranquilla era finita per sempre.

Nella galleria dell’entrata era stata sistemata una fila di lampade perenni e il passaggio era stato ripulito dai detriti. Al posto del silenzio di tomba che aveva sentito la prima volta che era entrato là con le autorità del paese, ora riecheggiavano gli echi delle litanie di preghiera e degli strumenti musicali che le accompagnavano.

Cosa che anziché rendere l’atmosfera più familiare e serena, contribuiva a rendere il tutto ancora più inquietante ed anomalo. Sembrava che il luogo avesse una stranissima acustica che creava una eco continua e vibrante, che faceva apparire le voci dei fedeli come versi inumani o lamenti d’oltretomba. E quel chiarore rosso-arancio in fondo alla galleria dava poi l’impressione di una specie di fornace, o dell’interno di un vulcano.

Velthur incontrò Aralar che stava pregando proprio dietro l’altare dell’entrata, seduto per terra.

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