I colpi tonanti non si sentivano più, mentre invece, illuminati da un’innaturale
luce rossa, c’erano tre creature impazzite ognuna in modo diverso: un eremita
che leggeva un libro in modo spiritato, un dottore in preda a una crisi
isterica, una gatta inferocita non si sa contro chi o che cosa.
La scena gli era apparsa così assurda da essere, oltre che
spaventosa e disorientante, quasi esilarante.
Quando si erano allontanati da quel luogo e Velthur si era
calmato, e gli aveva spiegato cosa era successo, la cosa era apparsa ancora più
assurda a Menkhu, a tal punto da spaventarlo e affascinarlo allo stesso tempo.
Si era convinto che l’eremita fose uno stregone avvezzo alla
magia nera.
Soprattutto, lo affascinava quel particolare del suo
progetto di costruire un tappeto volante con cui viaggiare in giro per il
mondo, una cosa che invece Velthur considerava una pura follia. Ma ormai non
era più certo nemmeno il dottore, di cosa fosse follia oppure no…
Da quella mattina, avevano parlato parecchie volte di quello
che era successo, e soprattutto del fatto che Velthur non aveva più avuto il
coraggio di andare a trovare l’eremita pazzo, anche facendosi accompagnare da
Menkhu.
All’inizio, Velthur era riuscito ad aggrapparsi alla
spiegazione che gli intrugli alchemici di Aralar fossero sfuggiti a qualche
ampolla avvelenando l’aria, e facendo uno strano effetto sia a loro due che
alla gatta Ashtair, ma era una spiegazione monca, perché Menkhu era rimasto
abbastanza lontano dalla casa, che tra l’altro aveva la porta e le finestre
chiuse. Gli stranissimi rumori che aveva sentito non potevano essere frutto di
allucinazione.
Anche quella mattina parlarono di cose inerenti a quel
giorno di terrore. In particolar modo, del libro Le Dottrine Misteriche di Cthuchulcha, che forse era il vero fulcro
di quegli strani fenomeni.
«Allora, quando vai a Enkar a prendere quel libro
maledetto?».
«Non riesco a trovare il coraggio. Ho preso un impegno con
il mio amico, gli ho fatto acquistare il libro, ma non ho il coraggio né di
farmelo mandare, né di andare a Enkar a prendermelo. Ho paura di quel libro, di
quello che ci può essere scritto. Ho paura che abbia veramente il potere di
rendere pazzi, o di evocare forze ignote».
«Beh, vai a prenderlo e poi lascialo nella tua biblioteca
fino a quando non avrai trovato il coraggio di leggerlo».
«Non ne sarei capace! Non resisterei alla tentazione di
leggerlo subito. Sono troppo curioso…. e nello stesso tempo ho paura».
«Secondo me sei già diventato matto come Aralar. In ogni
caso, sei terribilmente complicato. Comunque, se non vuoi andarci tu, andrò io
a prenderlo ad Enkar, e poi lo terrò in custodia io, lo nasconderò in una
caverna, oppure lo affiderò a qualche mio amico fattore che lo terrà in cantina….
sperando che non ammuffisca nel frattempo!»
«Tu, da solo, a Enkar? Ma non sei mai stato in una città.
Non è un posto per Sileni!».
«Mi credi un bambino? Cosa hanno di così spaventoso le
città? Mi piacerebbe tanto vederne una.
Mio padre mi ha raccontato che una volta è stato a Enkar, e
che all’inizio ha avuto paura nel vedere così tanta gente, ma poi si è
divertito un mondo! Dai, dammi i soldi per pagare il tuo amico e mandami a
prendere il libro!»
Stavano ancora discutendo su cosa fare con quel libro, che
una figura femminile in lontananza alzò la mano in segno di saluto verso di
loro, dal sentiero che conduceva alla fattoria degli Akapri.
Quando fu a pochi metri di distanza da loro, Velthur quasi
non credette ai suoi occhi.
«Harali! Non immaginavo che sareste venuta qui! Avete letto
il libro che vi ho fatto avere tramite questo grosso mascalzone di Menkhu?».
«Come avrei potuto mancare questa occasione, mio caro
dottore? Da sola, sarebbe bastata come pretesto per uscire dal mio paesello
sperduto nei boschi…. ma ora che ho deciso di andarmene da Tulvanth, avevo una
ragione in più per venire, dato che d’ora in poi vivrò qua vicino».
«Ah, davvero? E dove? Avete trovato lavoro ad Aminthaisan, o
in qualche villa nobiliare?».
«Oh no, no. Niente del genere. Mi farò monaca eremita anche io, per
servire
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