Fu a quel punto che Velthur notò un’ombra oltre la finestra,
e si decise ad avvicinarsi cautamente nella sua direzione, per vedere cosa la
gatta vedeva, o credeva di vedere.
E lo vide, che spiava da dietro il davanzale di pietra,
illuminato dalla grigia e pallida luce di quel tardo mattino autunnale.
Cosa fosse, Velthur non ne aveva la più pallida idea.
L’unica cosa che riusciva a capire, era che si trattava di qualcosa di
orribile.
La sua pelle sembrava corteccia, una corteccia
bianco-giallastra, ruvida e spaccata in lunghe strisce dall’alto al basso. Il
volto non era né umano né di alcun animale conosciuto, anche se aveva alcune
grottesche somiglianze con un essere umano, o con una stirpe ad esso
imparentata, e con qualcosa che avrebbe potuto essere un cane, o un felino. Il
suo muso era contratto in una smorfia orrenda che gli faceva digrignare dei
denti incredibilmente grandi e dalla forma stranissima, come una fila di prismi
esagonali ed acuminati, simili a cristalli, ma del colore del corallo.
Gli occhi erano sfuggenti, obliqui, appena visibili, e
sembravano essere del colore del sangue. Le orecchie, enormi, sembravano due
ali di pipistrello giallastre e trasparenti, con delle macchie rosse.
Di fronte a sé protendeva una zampa con sette dita con le
punte a ventosa, come i tentacoli di una piovra, con la quale sembrava voler
toccare il vetro, ma ritirandosi ogni volta, come se avesse paura che gli
artigli della gatta potessero raggiungerlo attraverso il vetro.
Velthur rimase paralizzato, senza più gridare, ma
boccheggiando e balbettando. La testa cominciò a girargli in preda a una sorta
di vertigine, e si appoggiò al muro di pietra dietro di lui.
Ma non svenne, e la voce delirante di Aralar continuava a
risuonargli nelle orecchie, continuando a leggere frasi e parole senza alcun
senso.
«…Vedrai i mondi accanto al nostro, mondi che sono come i
fogli di uno stesso libro. Tu credi di dover percorrere le righe della pagina
in cui ti trovi, e di doverti fermare all’orlo. Io ti insegnerò a balzare sulla
pagina accanto, nella direzione che tu non conosci e non immagini, perché credi
di essere solo un’immagine stampata in questa pagina della vita…..».
Pochi secondi dopo, si udì bussare alla porta del piccolo
eremo. Il bussare di una mano forte e pesante. Anche se non si poteva sapere se
fosse davvero una mano.
Solo allora Velthur trovò di nuovo la forza di urlare, un
lungo urlo disperato.
E la porta si aprì con violenza.
La figura possente di Menkhu troneggiò nella piccola porta,
passando attraverso di essa come un gigante può infilarsi in un ripostiglio.
Era ancora più grande di suo padre, e portava gli stessi vestiti da pastore che
a suo tempo aveva portato Prukhu, con lo stesso cappellaccio a tesa larga, lo
stesso mantello grigio e lo stesso bastone inciso.
Nell’irreale luce rossa, la sua barba e la sua pelliccia
fulve scintillavano come fili di rame incandescente.
«Scusate se disturbo, ma cosa sta succedendo qui? Ho sentito
dei rumori spaventosi venire da dentro la casa….».
Velthur, in seguito, pensò che non aveva mai provato un
maggiore sollievo a rivedere una presenza amica.
«Menkhu! Ti prego! Chiudi la porta! C’è un mostro alla
finestra là accanto! Non lo vedi?».
«Dottore, sei impazzito???? Non c’è nessuno qua fuori! Qua
io vedo solo una gabbia di matti… e i matti sono tutti qua dentro! Te
compreso!».
Intanto, Aralar continuava ad essere perso nel suo delirio.
Anche l’entrata in scena del possente Menkhu non l’aveva minimamente distratto
dalla lettura esagitata del suo libro.
«… Tre sono i Fiori dell’Ignoto:
Il primo è il Bianco Fiore dell’Enigma, cioè di ciò che non
si comprende, e che può essere conosciuto solo attraverso il pensiero e la
ricerca.
Il secondo è il Nero Fiore del Segreto, cioè di ciò che
viene tenuto nascosto ad arte, e che bisogna dissuggellare, per poterlo
conoscere.
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