lunedì 29 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 184° pagina.


Velthur si domandò se la sua fosse imperturbabilità regale o semplice inconsapevolezza, magari dovuta a un temporaneo stato di confusione mentale. Magari non si era affatto ripresa dal mancamento che aveva avuto nell’ipogeo e di cui aveva parlato Azyel.

A quella distanza, Velthur non poteva distinguere molto della voce della sovrana, ma intuiva che il rito procedeva come se niente fosse, anche quando le cose degenerarono ulteriormente.

Mentre Velthur se ne stava ad osservare le reazioni della folla al prodigio celeste, Larsin si era messo a correre verso Syndrieli, che si stava avvicinando con il piccolo Loraisan. In vista non c’erano né gli altri membri della loro famiglia, né Menkhu, che dovevano trovarsi sull’altro lato della Polenta Verde, verso la strada.

Larsin si era allontanato di parecchi metri, quando si udì un urlo lacerante, orribile. Sembrava un grido in certo modo femminile, ma non era comunque un urlo umano. Velthur in seguito l’avrebbe descritto come una via di mezzo fra una donna che veniva uccisa, il grido di un uccello rapace e quello di un maiale che viene sgozzato. Un suono che faceva gelare il sangue nelle vene, e che continuava, lunghissimo, senza posa.

E quel che era peggio, era che Velthur lo sentiva avvicinarsi.

Poi la vide. Una piccola donna dal fisico minuto, vestita di una pesante tunica verde scuro, e con lunghi capelli bianchi spettinati, agitati dal vento. Una Fata che fuggiva terrorizzata tra gli alberi, a braccia spalancate, urlando senza fine. Gli occhi neri strabuzzati in modo terrificante, come finestre sul buio della notte. Sul vuoto.

Doveva trattarsi di una delle misteriose amiche di Aralar. Forse la stessa che aveva perduto lo scialle verde, la vera causa remota di tutto quel trambusto.

Velthur guardò nella direzione da cui fuggiva, ma non si scorgeva niente.

Muovendosi sconvolto fra gli alberi, alla ricerca di un pericolo sconosciuto, si accorse che il delirio della folla era peggiore di quel che gli era sembrato all’inizio.

Vicino a lui, un uomo si gettò a terra indicando il cielo e urlando: «Il sole! Il sole ruota su se stesso!. Precipita! Sil sta per apparire nella Sua Gloria!».

Ma il sole non stava né ruotando né precipitando. Si limitava a splendere di quella brillante luce rossa.

Una donna anziana gli prese il braccio e gridò: «Guarda! Guarda l’occhio nel sole! C’è un occhio dentro il sole che ci sta guardando tutti! È l’Occhio di Sil che ci sta guardando tutti per giudicare le nostre colpe e fare giustizia di ogni malvagità!».

Ma non c’era nessun occhio nel sole. Semplicemente era rosso come il sangue, come una brace ardente nel caminetto.

Velthur si svincolò dalla presa della donna, e solo allora vide qualcosa di veramente terrificante.

Si accorse che in cima al tumulo la Regina non era da sola con i due Giganti e il suo sposo, ma c’era qualcun altro, o meglio qualcos’altro. Qualcosa che non era né umano né era alcunché di conosciuto.

C’era una figura nera, alle spalle della Regina. Una figura che torreggiava più dei Giganti stessi. Sarà stata alta almeno quattro metri, forse più. Ed era completamente nera. Sembrava ammantata e incappucciata, come avvolta in un sudario, ma appariva confusa, come se fosse fatta di nebbia, come certe nuvole temporalesche che prendono temporaneamente delle forme conosciute, con figure di persone o di animali o di volti.

Quel che sconcertava più di tutto, era che né la Regina né il suo consorte né tantomeno i Giganti sembravano minimamente accorgersi dell’ancora più gigantesca figura che se ne stava dietro di loro, immobile.

Velthur non poté fare a meno di lasciarsi andare al panico, a quella visione.

«Lassù! Dietro la Regina! Non vedete cosa c’è? Fate qualcosa!».

Ma la gente urlava per conto suo, e anziché guardare in cima alla Polenta Verde, guardava il sole, e diceva di vedere cose assurde nel suo disco luminoso. Altri urlavano di vedere cose altrettanto assurde in altre parti del cielo.

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