Velthur si domandò se la sua fosse imperturbabilità regale o
semplice inconsapevolezza, magari dovuta a un temporaneo stato di confusione
mentale. Magari non si era affatto ripresa dal mancamento che aveva avuto
nell’ipogeo e di cui aveva parlato Azyel.
A quella distanza, Velthur non poteva distinguere molto
della voce della sovrana, ma intuiva che il rito procedeva come se niente
fosse, anche quando le cose degenerarono ulteriormente.
Mentre Velthur se ne stava ad osservare le reazioni della
folla al prodigio celeste, Larsin si era messo a correre verso Syndrieli, che
si stava avvicinando con il piccolo Loraisan. In vista non c’erano né gli altri
membri della loro famiglia, né Menkhu, che dovevano trovarsi sull’altro lato
della Polenta Verde, verso la strada.
Larsin si era allontanato di parecchi metri, quando si udì
un urlo lacerante, orribile. Sembrava un grido in certo modo femminile, ma non
era comunque un urlo umano. Velthur in seguito l’avrebbe descritto come una via
di mezzo fra una donna che veniva uccisa, il grido di un uccello rapace e
quello di un maiale che viene sgozzato. Un suono che faceva gelare il sangue
nelle vene, e che continuava, lunghissimo, senza posa.
E quel che era peggio, era che Velthur lo sentiva
avvicinarsi.
Poi la vide. Una piccola donna dal fisico minuto, vestita di
una pesante tunica verde scuro, e con lunghi capelli bianchi spettinati,
agitati dal vento. Una Fata che fuggiva terrorizzata tra gli alberi, a braccia
spalancate, urlando senza fine. Gli occhi neri strabuzzati in modo
terrificante, come finestre sul buio della notte. Sul vuoto.
Doveva trattarsi di una delle misteriose amiche di Aralar.
Forse la stessa che aveva perduto lo scialle verde, la vera causa remota di
tutto quel trambusto.
Velthur guardò nella direzione da cui fuggiva, ma non si
scorgeva niente.
Muovendosi sconvolto fra gli alberi, alla ricerca di un
pericolo sconosciuto, si accorse che il delirio della folla era peggiore di
quel che gli era sembrato all’inizio.
Vicino a lui, un uomo si gettò a terra indicando il cielo e
urlando: «Il sole! Il sole ruota su se stesso!. Precipita! Sil sta per apparire
nella Sua Gloria!».
Ma il sole non stava né ruotando né precipitando. Si
limitava a splendere di quella brillante luce rossa.
Una donna anziana gli prese il braccio e gridò: «Guarda!
Guarda l’occhio nel sole! C’è un occhio dentro il sole che ci sta guardando
tutti! È l’Occhio di Sil che ci sta guardando tutti per giudicare le nostre
colpe e fare giustizia di ogni malvagità!».
Ma non c’era nessun occhio nel sole. Semplicemente era rosso
come il sangue, come una brace ardente nel caminetto.
Velthur si svincolò dalla presa della donna, e solo allora
vide qualcosa di veramente terrificante.
Si accorse che in cima al tumulo la Regina non era da sola con
i due Giganti e il suo sposo, ma c’era qualcun altro, o meglio qualcos’altro. Qualcosa che non era né
umano né era alcunché di conosciuto.
C’era una figura nera, alle spalle della Regina. Una figura
che torreggiava più dei Giganti stessi. Sarà stata alta almeno quattro metri,
forse più. Ed era completamente nera. Sembrava ammantata e incappucciata, come
avvolta in un sudario, ma appariva confusa, come se fosse fatta di nebbia, come
certe nuvole temporalesche che prendono temporaneamente delle forme conosciute,
con figure di persone o di animali o di volti.
Quel che sconcertava più di tutto, era che né la Regina né il suo consorte
né tantomeno i Giganti sembravano minimamente accorgersi dell’ancora più
gigantesca figura che se ne stava dietro di loro, immobile.
Velthur non poté fare a meno di lasciarsi andare al panico,
a quella visione.
«Lassù! Dietro la
Regina ! Non vedete cosa c’è? Fate qualcosa!».
Ma la gente urlava per conto suo, e anziché guardare in cima
alla Polenta Verde, guardava il sole, e diceva di vedere cose assurde nel suo
disco luminoso. Altri urlavano di vedere cose altrettanto assurde in altre
parti del cielo.
Nessun commento:
Posta un commento