sabato 15 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 220° pagina.


mio futuro? Riuscirò nell’impresa? Dovrebbero sapermi dire qualcosa al riguardo, no? Perché io, fino a quando non ho capito cosa sta succedendo, non faccio niente e mi limito ad osservare».

«Loro hanno guardato nel tuo futuro, e ti hanno visto di fronte alla tomba di Aralar, in piedi, con un senso di orrore nell’anima. Non hanno visto Aralar morto, non sanno nulla della sua morte, ma sanno che tu ne sei stato l’inorridito testimone, e ne sei stato la causa, anche se indiretta.

E hanno visto che è stato sepolto subito dopo il Tinsi Garepanusil, presso il suo eremo. Dopo, hanno visto il silenzio, la pace, per un certo tempo. Una tregua, potremmo dire. Non sono riuscite a vedere altro. Tu devi andare all’eremo, e far avverare quella visione».

«Non è abbastanza per me. Io non sono mai riuscito a credere fino in fondo alle vostre capacità di preveggenza. Io ho paura, accidenti a voi. Forse non la stessa paura che avete voi, ma comunque una grande paura. Non so che cosa potrei trovare in quell’eremo maledetto. L’ultima volta sono rimasto sconvolto da ciò che ho visto e sentito. Non sono un eroe, non lo sono mai stato e non mi interessa diventarlo. Perché non si può semplicemente provare a denunciarlo per attività alchemica illecita? Forse i gendarmi o l’alkati non ascolteranno me e tantomeno voi, ma se facciamo partire la denuncia da qualcun altro, forse… ».

«Lascia stare! Noi non abbiamo mai avuto a che fare con i guazzabugli delle vostre leggi, e non ne avremo ora. La verità è che la tua paura comunque non sarà forte come la tua curiosità, come il fascino per il mistero che ti ha sempre ossessionato, a cui non puoi sottrarti. E non sarà forte neanche come il tuo senso di responsabilità, la tua etica razionale dell’Aventry, che ti spinge a compiere l’ideale di fare il bene di tutta l’umanità, sempre e comunque. Adesso forse ti sembra che la tua paura sia più grande, ma è ingigantita dalla rabbia, la rabbia di non sapere cosa hai di fronte, la rabbia di non sentirti aiutato, nemmeno da noi. Ed è vero: sei solo di fronte a questa cosa. Non basta l’appoggio degli amici, non basta neanche la grande forza, la fedeltà e il coraggio di Menkhu, per farti sentire meno solo di fronte all’Ignoto.

Eppure in qualche modo avrai la meglio, anche se non sappiamo come».

«Tutto qua? Non hai nient’altro da dirmi?».

«Purtroppo no. Le risposte le puoi avere solo tu, non io. E con questo ti lascio, Velthur. Almeno fino a quando non ti sarai deciso ad affrontare Aralar».

E se ne andò. Si diresse verso la porta silenziosamente come era venuto, la aprì e sparì nella nevicata. Velthur non lo inseguì neanche con lo sguardo, nel richiudere la porta dietro di lui.

Lo Gnomo non se n’era andato, era fuggito dai suoi fantasmi della follia.

Ma Azyel aveva ragione. Velthur se ne accorse nei giorni seguenti, man mano che la Festa del Sole Vittorioso si avvicinava.

Per la gente del paese, quella festa era l’occasione per cercare di dimenticare, rifugiandosi nel tradizionale culto di Sil, la benevola Madre Celeste, la Dea vestita di sole, incoronata di stelle e con la falce di luna ai piedi, Regina degli Dei e Signora dell’Universo, era una figura rassicurante che aiutava a dimenticare le visioni di follia che erano ormai diventate l’ossessione di molti.

Un giorno sarebbero diventate leggende popolari da raccontare attorno al fuoco del caminetto nelle sere invernali, o nelle riunioni delle donne che filavano nelle stalle, ma per ora erano il tessuto di una paura isterica e ossessiva.

Il Tinsi Garepanusil veniva celebrato agghindando gli alberi sempreverdi nei giardini e nei cortili, di finti frutti e fiori, fatti di legno dipinto, per celebrare la promessa della fine dell’inverno e dello sbocciare della primavera, che avrebbe portato il rinnovato allungarsi dei giorni. Poi si metteva una piccola lampada perenne in cima all’albero, e i più benestanti mettevano la lampada dentro un ornamento a forma di stella pentacolare di vetro, che riempiva l’albero e il giardino di meravigliosi riflessi geometrici.

Per tradizione, ogni villaggio delle regioni nord-orientali del Veltyan aveva un grande pino rosso, che tutta la cittadinanza e il circostante contado contribuivano ad abbellire con ornamenti di ogni tipo, poi l’alkati provvedeva a cospargerlo di lampade perenni per renderlo simile ad un grande faro nelle lunghe notti d’inverno.

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