domenica 23 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 228° pagina.


Solo quando fu finito, Velthur si accorse che era stato del tutto identico al primo, come fosse il suo l’eco.

Ma non era finita, e un terzo urlo cominciò a sentirsi da un’altra direzione ancora, ma con uguale tonalità. Era sempre lo stesso urlo, inequivocabilmente.

E il terzo urlo non era ancora finito, che ne cominciò un quarto da un’altra direzione ancora. Come se l’uomo che urlava si trovasse contemporaneamente in diversi luoghi e in diversi tempi, prigioniero di una sofferenza continuamente reiterata.

Il peggiore degli incubi che si potesse immaginare, se non fosse stato solo il preludio ad un orrore ancora più grande. Assurdamente enorme e reale.

Alla fine l’intero bosco risuonava dell’eco dello stesso urlo ripetuto decine di volte da tutte le direzioni, la stessa voce che si avvicendava, si incrociava con se stessa, si alternava con maggiore o minore intensita. Ma rimaneva sempre uguale, finche alla fine tutto tacque di nuovo.

Le forme contorte e nere dei tronchi dei lecci, con i loro fili scarlatti che pendevano come budella e nervi insanguinati, sembravano parlargli beffardamente di morte e dolore. Morte e dolore forse provocati solo da lui.

Rimase lì, paralizzato dal terrore per lunghi minuti. Non sapeva cosa fare, avrebbe voluto avviarsi verso l’eremo, ma si accorse che non era neanche sicuro di dove si trovasse.

Stava scivolando sempre più nel panico.

Poi, nel silenzio, un altro urlo, ma questo era un urlo diverso, di paura, non di sofferenza.

Un urlo che appariva appartenere a questo mondo, e non all’Altrove.

«Velthur! Velthur! Vieni subito con me all’eremo! Dove sei?»

Comparve la massiccia figura grigia e fulva di Menkhu, che correva saltando sulla neve, urlando disperato. Appena vide Velthur, non provò neanche a raggiungerlo, ma gli fece cenno di seguirlo immediatamente.

«Velthur! Se non ti sbrighi giuro che ti carico di nuovo in spalla come un sacco di patate! Vieni immediatamente! Solo tu puoi spiegare cosa è successo!»

«Cosa sarebbe successo?»

«Nell’eremo…. nell’eremo non abbiamo trovato nessuno. Era chiuso a chiave, e io ero quasi sul punto di sfondare la porta, quando….  quando…. beh, vieni a vedere! Io non riesco neanche a dirlo, cosa abbiamo visto, e cosa abbiamo trovato!».

«Gli altri, dove sono finiti?».

«Sono scappati, Velthur! Terrorizzati da ciò che hanno visto e sentito! Anche il gendarme! Urlavano che era opera di stregoneria e che i Demoni Oscuri erano usciti dagli Inferi per portarvi tutti i viventi e altre cose del genere. Credo che siano andati a cercare gli altri che abbiamo lasciato in pianura. Ma tu devi essere il primo a vedere quelle cose.

«Quelle??? Vuoi dire che sono più di una?».

«Ti prego, corri! Corri!».

La paura, l’ansia, l’agitazione, l’ostacolo della neve e degli alberi con i loro rami contorti, tutto contribuì a far cadere Velthur lungo disteso nella neve.

«Menkhu, ti prego…. caricami anche stavolta. Mi sento svenire….».

Senza neanche porre un respiro in mezzo, il possente Sileno prese il dottore e se lo caricò in spalla, correndo a perdifiato.

Anche Menkhu stava perdendo colpi, lo si sentiva ansimare come non mai, mentre cercava di farfugliare qualcosa, boccheggiando come un pesce sull’arena. Chiaramente, era sconvolto anche lui.

Nel giro di pochi minuti arrivarono in prossimità dell’eremo, provenendo non dal sentiero, ma dalla parte che dava sulla cima del monte.  C’era un piccolo spiazzo, una radura in cui terminava il sentiero che passava di fronte all’eremo, e là sulla neve giaceva qualcosa di non ben identificabile al primo sguardo.

Menkhu lo indicò a Velthur, senza osare avvicinarsi ulteriormente.

«Là, è là la prima cosa che devi vedere. La seconda è più in là…. !»
«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché

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