Solo quando fu finito, Velthur si accorse che era stato del
tutto identico al primo, come fosse il suo l’eco.
Ma non era finita, e un terzo urlo cominciò a sentirsi da
un’altra direzione ancora, ma con uguale tonalità. Era sempre lo stesso urlo,
inequivocabilmente.
E il terzo urlo non era ancora finito, che ne cominciò un
quarto da un’altra direzione ancora. Come se l’uomo che urlava si trovasse
contemporaneamente in diversi luoghi e in diversi tempi, prigioniero di una
sofferenza continuamente reiterata.
Il peggiore degli incubi che si potesse immaginare, se non
fosse stato solo il preludio ad un orrore ancora più grande. Assurdamente
enorme e reale.
Alla fine l’intero bosco risuonava dell’eco dello stesso
urlo ripetuto decine di volte da tutte le direzioni, la stessa voce che si avvicendava,
si incrociava con se stessa, si alternava con maggiore o minore intensita. Ma
rimaneva sempre uguale, finche alla fine tutto tacque di nuovo.
Le forme contorte e nere dei tronchi dei lecci, con i loro
fili scarlatti che pendevano come budella e nervi insanguinati, sembravano
parlargli beffardamente di morte e dolore. Morte e dolore forse provocati solo
da lui.
Rimase lì, paralizzato dal terrore per lunghi minuti. Non
sapeva cosa fare, avrebbe voluto avviarsi verso l’eremo, ma si accorse che non
era neanche sicuro di dove si trovasse.
Stava scivolando sempre più nel panico.
Poi, nel silenzio, un altro urlo, ma questo era un urlo
diverso, di paura, non di sofferenza.
Un urlo che appariva appartenere a questo mondo, e non
all’Altrove.
«Velthur! Velthur! Vieni subito con me all’eremo! Dove sei?»
Comparve la massiccia figura grigia e fulva di Menkhu, che
correva saltando sulla neve, urlando disperato. Appena vide Velthur, non provò
neanche a raggiungerlo, ma gli fece cenno di seguirlo immediatamente.
«Velthur! Se non ti sbrighi giuro che ti carico di nuovo in
spalla come un sacco di patate! Vieni immediatamente!
Solo tu puoi spiegare cosa è successo!»
«Cosa sarebbe successo?»
«Nell’eremo…. nell’eremo non abbiamo trovato nessuno. Era
chiuso a chiave, e io ero quasi sul punto di sfondare la porta, quando…. quando…. beh, vieni a vedere! Io non riesco
neanche a dirlo, cosa abbiamo visto, e cosa abbiamo trovato!».
«Gli altri, dove sono finiti?».
«Sono scappati, Velthur! Terrorizzati da ciò che hanno visto
e sentito! Anche il gendarme! Urlavano che era opera di stregoneria e che i
Demoni Oscuri erano usciti dagli Inferi per portarvi tutti i viventi e altre
cose del genere. Credo che siano andati a cercare gli altri che abbiamo
lasciato in pianura. Ma tu devi essere il primo a vedere quelle cose.
«Quelle??? Vuoi dire che sono più di una?».
«Ti prego, corri! Corri!».
La paura, l’ansia, l’agitazione, l’ostacolo della neve e
degli alberi con i loro rami contorti, tutto contribuì a far cadere Velthur
lungo disteso nella neve.
«Menkhu, ti prego…. caricami anche stavolta. Mi sento
svenire….».
Senza neanche porre un respiro in mezzo, il possente Sileno
prese il dottore e se lo caricò in spalla, correndo a perdifiato.
Anche Menkhu stava perdendo colpi, lo si sentiva ansimare
come non mai, mentre cercava di farfugliare qualcosa, boccheggiando come un
pesce sull’arena. Chiaramente, era sconvolto anche lui.
Nel giro di pochi minuti arrivarono in prossimità
dell’eremo, provenendo non dal sentiero, ma dalla parte che dava sulla cima del
monte. C’era un piccolo spiazzo, una
radura in cui terminava il sentiero che passava di fronte all’eremo, e là sulla
neve giaceva qualcosa di non ben identificabile al primo sguardo.
Menkhu lo indicò a Velthur, senza osare avvicinarsi ulteriormente.
«Là, è là la prima cosa che devi vedere. La seconda è più in
là…. !»
«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché
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