Non fu facile per Velthur rovistare nella penombra quasi
notturna dell’eremo, anche quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità.
Fu diverso invece per Menkhu che, essendo un Sileno, poteva vedere nel buio
come un gatto.
Velthur disse a Menkhu di dare un’occhiata all’altro
tavolino, quello vicino al giaciglio dell’eremita, e lì infatti, in un piccolo
cassetto, trovò un grosso libro scritto a mano.
Quando Velthur lo portò alla luce esterna, lo aprì e poté
constatare subito che era il suo diario. Non poteva essere più fortunato.
Provò a leggere un brano a caso.
XII Ariete 3089 d.
F.R.A., satrastin.
Ormai mi sono
assuefatto a questo posto. Ho cercato di farmi vedere dal numero minore
possibile di persone, preferisco tenere un profilo il più possibile basso prima
di ottenere il primo risultato. A parte qualche paesano di Aminthaisan e di
Tulvanth, nessuno sa che esisto e che sono qui, e così deve rimanere il più a
lungo possibile.
Solo quando avrò la
chiave del potere, quando sarò sicuro che è mia e soltanto mia, potrò rivelarmi
del tutto. Allora nulla avrà più importanza, nessun ostacolo sarà
insormontabile, nessun oppositore potrà resistermi.
Ho chiesto a Horyel se
potrò ottenere quello che voglio, ma lei non è stata capace di rispondermi.
Ogni volta che prova a guardare nel mio futuro, vede qualcosa che la spaventa e
la fa inorridire a tal punto che non sa dirmi assolutamente nulla di ciò che
vede. La sua visione si ritrae, e io rimango solo con le mie decisioni.
Ma ho passato troppo
tempo a inseguire la verità e a coltivare la speranza della mia vendetta, per
potermi tirare indietro ora.
«È davvero il suo diario, Menkhu! Qui, sono sicuro, c’è la
soluzione di molti misteri, ma dobbiamo nasconderlo! Se lo trovano i gendarmi,
lo sequestreranno e finirà chissà dove, nelle polverose scaffalature di qualche
tribunale o nelle mani di qualche sacerdote ricco e corrotto alla ricerca di
segreti proibiti.
Lo devi nascondere tu, amico mio! I gendarmi potrebbero
perquisirmi la casa, quando dovremo dirgli che siamo entrati nell’eremo. Già
essendo un Avennar non sono visto molto bene dalle autorità, se penseranno poi
che custodisca qualche segreto su quello che è successo….. e anche questo
amuleto. Potrebbero decidere di portarmelo via, e invece può servirici ancora.
Riportalo a tuo padre, e portagli anche il diario di Aralar. O portalo alle Tre
Madri del Fato. L’importante è che non li abbiano i gendarmi. Un giorno verrò
io a riprenderli di persona, quando e se le acque si calmeranno. Mi hai capito?
Vattene, ora! Parti subito per le Colline di Leukun, prima che arrivi
qualcuno!».
Menkhu annuì, con un’espressione timorosa e confusa. Poi si
avvolse nel mantello e scappò sulla neve, con i suoi possenti balzi.
Vedendolo allontanarsi, Velthur sentì un sollievo immenso.
Solo allora si sentì come liberato da un peso enorme. Ora poteva sperare che
fosse veramente finita.
Era stato un finale orribile e assurdo, ma forse era davvero
finita.
O forse no, perché avviandosi di nuovo lungo il sentiero giù
per la grande collina, vide presso il
sentiero, seduto sulla neve, qualcosa che gli fece gelare di nuovo il sangue
nelle vene.
La gatta di Aralar era là, seduta sulle zampe posteriori,
lorda del sangue del suo padrone. Doveva essere presente anche lei, quando
l’eremita aveva cominciato la sua opera alchemica, e quando il suo corpo era
stato diviso nei suoi tessuti principali in quel modo irreale, e allora il suo
sangue era ricaduto sull’animale, sporcandolo tutto. Eppure né lui né Menkhu
l’avevano notata all’interno dell’eremo, né l’avevano vista sgattaiolare fuori,
una volta aperta la porta.
Ma ora la gatta stava seduta là, in attesa, apparentemente
calma, grande quasi come un cane di media taglia, con gli occhi chiarissimi sbarrati,
fissi su Velthur.
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