sabato 22 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 227° pagina.


«Ai gatti? Dottore…. Mi sembra che questa faccenda vi stia facendo andare fuori di testa. Cos’è questa storia che l’eremita starebbe facendo esperimenti pericolosi? Come fate a saperlo? Cosa avete intenzione di fare? Dovrei lasciarvi qua da solo a fare non si sa bene che cosa mentre noi cerchiamo un eremita con il rischio di incontrare un mostro? E alla fine voi mi dite di stare attento a dei gatti???».

Velthur rimase in silenzio. Non sapeva come giustificarsi. La paura prima gli aveva fatto trovare le parole sbagliate, e ora non gli faceva trovare quelle giuste.

Per fortuna sua intervenne Menkhu, che continuava ad essere stranamente tranquillo.

«Signor gendarme. Se io adesso vi raccontassi tutto ciò che sappiamo mentre ci avviamo all’eremo, compresa questa faccenda dei gatti, sarebbe disposto a lasciare il dottore fare il suo lavoro come meglio crede? Lei lo conosce bene, sa che ci si può fidare di lui. Le prometto che risponderò io a tutte le sue domande, se adesso noi lasciamo qui Velthur e andiamo a cercare Aralar Alpan».

«Va bene, ma per prima cosa voglio che mi spieghi questa faccenda dei gatti!»

Menkhu lo prese sotto braccio e lo spinse gentilmente ma decisamente verso l’eremo.

«Davvero non ha ancora sentito parlare dei famosi gatti di Monte Leccio? Venga, le racconterò di quando il dottore e alcuni suoi amici hanno dovuto scappare da questo monte, inseguiti da un gigantesco branco di gatti selvatici grossi come cani…. ».

«I gatti di Monte Leccio….» brontolò il gendarme allontanandosi verso il sentiero.

Velthur non perse tempo. Forse era una cosa folle e inutile, ma valeva la pena provare.

Raggiunse uno dopo l’altro tutti i fili che pendevano a sufficienza dai rami degli alberi per essere raggiunti e tirati verso terra, e poi vi passava sopra la Chiave d’Argento, che mutava il colore dei fili ad ogni tocco.

Se e quando fosse riuscito ad alterare tutti i fili che le sue braccia potevano raggiungere, avrebbe poi provato ad arrampicarsi su qualcuno degli alberi per completare l’opera. Qualche filo riusciva a strapparlo dai rami, ma altri erano così aggrovigliati che non c’era modo di tirarli, e spezzarli era davvero impossibile.

Man mano che Velthur passava da un albero all’altro, gli sembrava di intuire uno schema, un disegno in quel caos apparente di fili. Gli pareva che i fili fossero stati disposti come per formare una spirale a cerchi concentrici, che probabilmente aveva per centro l’eremo di Aralar.

Se davvero la Chiave d’Argento,  il misterioso amuleto degli Elfi delle Tenebre, aveva il potere di alterare la natura di quei fili, forse sarebbero diventati inservibili, qualunque fosse lo scopo per cui erano stati fatti, o forse semplicemente avrebbero ottenuto un risultato diverso da quello che Aralar intendeva raggiungere.

Ripensandoci, probabilmente stava facendo una cosa pericolosissima, perché non aveva la minima idea di quali fossero le conseguenze.

Il pensiero di questo cominciò a tormentarlo sempre più mentre passava furiosamente, febbrilmente da un albero all’altro, a tal punto che era quasi sul punto di decidere di smettere, quando improvvisamente sentì un urlo lacerante, spaventoso. Un urlo umano, ma orribile.

Aveva già udito un suono simile, quando aveva dovuto aprire la carne di un uomo cosciente per estrargli una punta di ferro arrugginito che gli si era piantata nel ventre.

Era lo stesso urlo di dolore e disperazione, ma non riuscì a capire da dove proveniva. Quello che fu più impressionante, fu che all’inizio l’urlo sembrò molto vicino, poi invece sembrò allontanarsi rapidamente, come se l’uomo che veniva torturato o fatto a pezzi stesse correndo come il vento chissà dove.

Poi subentrò un silenzio di tomba, ma fu per poco. Velthur si era fermato. Continuava a ripetersi: in nome di tutti i Santi, che cosa ho fatto?

Poi subentrò un altro urlo, ugualmente lacerante e terribile, ma che sembrava venire da una direzione diversa, e al contrario del primo, anziché allontanarsi, sembrò diventare sempre più vicino, a tal punto che negli ultimi secondi Velthur era convinto che avrebbe visto il volto della vittima.

Ma non fu così, e l’urlo si interruppe.

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