mercoledì 26 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 231° pagina.


Velthur aveva già immaginato di cosa si trattasse ancora prima di avvicinarsi, e la sua intuizione si rivelò esatta. L’oggetto roseo era la sua massa muscolare e adiposa, l’altro era il suo sistema circolatorio, con tanto di cuore, polmoni e reni. La massa muscolare, che dava l’idea di un uomo schiacciato e scuoiato, era particolarmente rivoltante, ma anch’essa era del tutto priva di sangue, cosa che gli dava quell’aspetto roseo, mentre il poco grasso dell’eremita gli dava sfumature giallognole. Il sistema circolatorio non era molto diverso, nel suo orrore, dal suo sistema nervoso. Ma persino quello era privo della minima traccia di sangue. Le vene giacevano bluastre come sterpaglia azzurra e violacea, o scarlatta, gettando sulla neve la sagoma di quello che un tempo era stato un corpo umano, nel cui mezzo spiccavano le masse compatte, rosse e rosate, del cuore e dei polmoni.

Se lui avesse potuto avere tutte quelle parti sezionate – se davvero si poteva usare un termine del genere per quello che aveva di fronte – dentro la sala di un’università di medicina, e avesse potuto mostrare a colleghi e studenti quel prodigio, nessuno avrebbe avuto la possibilità di studiare e spiegare la complessità del corpo umano in modo più completo ed accurato.

«Manca solo il suo apparato digestivo, e poi abbiamo il corpo completo. Ma immagino che lo troveremo un poco più in là».

«Manca anche un’altra cosa, a dire il vero…. il suo sangue».

«Sì. Forse quello se lo sono tenuto. O magari lo troveremo dentro un’anfora, chissà… Ma pensa poi che bel lavoro sarà per gli inservienti del cimitero ricomporre tutto questo per farlo sembrare un corpo umano».

«Credevo che noi Sileni riuscissimo a scherzare in ogni occasione, ma tu ci batti tutti! Non hai paura che possano fare la stessa cosa a noi? Per me, è stato il mostro che ha lasciato le orme sulla neve».

«Noi non stavamo facendo quello che stava facendo lui, Menkhu. Credo che quello che gli è successo sia colpa mia. Io devo aver interferito nel prodigio alchemico che stava compiendo, e le forze che lui ha scatenato gli si sono rivoltate contro quando io ho alterato il sistema di fili che aveva creato nel bosco.

Sono inorridito all’idea che quello che vediamo sia causa mia, ma nessuno può sapere cosa sarebbe successo se non l’avessi interrotto, se davvero l’ho fermato io. Forse quello che è successo a lui sarebbe successo a qualcun altro, a persone innocenti come Harali, che era diventata sua amica, e che a dire il vero dovrebbe essere qui nell’eremo».

«No, per lei non ti devi preoccupare. È tornata a casa dei suoi per la festa del Tinsi Garpen Silal, me l’ha detto una sua conoscente».

«Potevi dirmelo prima! Una preoccupazione in meno per me. Comunque, meglio così. Significa che nell’eremo non c’è nessuno, a parte forse quella maledetta gatta….».

Poco dopo scoprirono anche l’apparato digestivo di Aralar, che penzolava come un lungo serpente morto,  abbandonato sui rami di un leccio, completo di esofago, stomaco, fegato, pancreas e intestino.

L’intestino, sia crasso che tenue, era teso in tutta la sua lunghezza dai rami di un albero all’altro, come un disgustoso verme bianco, il cui ultimo tratto era dato dalle mucose degli sfinteri.

Ma anche in quel macabro resto c’era un particolare notevolmente orrorifico: la “testa” del serpente era costituita dalle gengive e dai tessuti molli della bocca, in mezzo a cui penzolava la pelle della lingua. La sua massa muscolare, invece, doveva essere assieme all’ammasso di altri muscoli e grasso più in là.

Tutto sempre intatto, perfetto, come scollato dalle ossa, senza causare la minima lacerazione.

«Bene, ora che sappiamo che hanno sparpagliato tutto il corpo in questo modo per il bosco, vediamo di entrare all’eremo prima che arrivino qui i gendarmi chiamati da quello che è fuggito. Dobbiamo cercare di capire qualcosa di quello che è successo».

«Temevo che l’avresti detto. E naturalmente adesso mi toccherà sfondare la porta a spallate!».

«Non ti chiederò però di essere tu il primo a dare un’occhiata dentro. Nulla vieta di pensare che ci troveremo anche di peggio».

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